Tindaro Granata sta a Situazione Drammatica come il lievito madre sta alla realizzazione di un ottimo pane. «Non esiste un rito più antico, più importante che fare il pane – dichiara Granata. Tutte le usanze e le tradizioni sociali sono arrivate dopo perché abbiamo avuto da sempre l’esigenza di nutrirci. La trasformazione della panificazione è come la parola scritta che si trasforma in parola viva e trasforma chi l’ascolta».
All’interno di Romaeuropa Festival, nella sezione Anni Luce, due sono state le occasioni per conoscere alcuni dei più interessanti nuovi autori della drammaturgia italiana. Il primo turno, dedicato al Premio Hystrio, con il testo Amore storto di Christian Di Furia, vincitore del Premio Scritture di Scena, e con Anna, di Tommaso Fermariello, segnalato nell’ambito della stessa rassegna con una menzione speciale. Il secondo, invece,che ha visto in un’unica serata avvicendarsi Nicolò Sordo con il suo testo Ok Boomer, vincitore del Premio Pier Vittorio Tondelli e Pier Lorenzo Pisano con Carbonio, vincitore del Premio Riccione.
«Il format Situazione Drammatica nasce nel 2019, prima del grande cambiamento mondiale con la pandemia – afferma Tindaro Granata. È nato con l’idea che gli spettatori e le spettatrici riuscissero a far parte del momento di conoscenza del testo, del momento di creazione di passaggio che c’è tra la parola scritta e la parola viva, recitata».
Come si innesta e qual è l’influenza tra Situazione Drammatica e il tempo presente?
Ho sempre desiderato che le persone capissero quali sono i meccanismi che sono nascosti dietro l’arte teatrale. Alcuni potrebbero pensare che un po’ di fascino si perde con un’operazione così. Io credo invece che possa far acquisire maggiore consapevolezza, attenzione e cura nei confronti di un’opera da parte degli spettatori e delle spettatrici.
Trovo che Situazione Drammatica sia più che mai necessaria oggi. Innanzitutto perché si ristabilisce un rapporto molto intimo tra l’opera e gli spettatori, i quali scoprono e capiscono meglio cosa succede, che cosa c’è prima che uno spettacolo diventi concreto.
È molto importante che il testo venga vissuto, che sia nelle mani degli spettatori, partecipi di un processo artistico non solo in modo concettuale, ma anche fisico. Avere il formato cartaceo permette non solo di staccarsi dalla quotidianità, ma anche di avere un rapporto diverso con le cose. Ultima cosa, ma non meno importante, in questo modo si prende parte al processo creativo e ognuno realizza questa esperienza in modo diverso.
Durante la cosiddetta “prova a tavolino”, quella che si fa i primi giorni, quando ci si incontra con tutta la compagnia per la prima lettura di uno spettacolo, a me succede che mi si apre il cuore, osservando gli attori che cercano di arrivare alle cose, è come sentirsi parte di quella storia. Volevo che questo sentimento lo provassero tutti gli spettatori e le spettatrici.
Concludo dicendo che, in questa era Covid, in questa fase storica, ho sentito l’esigenza maggiore di utilizzare la musica dal vivo durante le letture, un forte desiderio di avere il live, il vero il qui e ora. Abbiamo imparato sulla nostra pelle che l’unico modo che noi abbiamo per comunicare è scrivere. Testi, canzoni, musiche. Abbiamo avuto bisogno di esprimerci, di raccontare, di dire la nostra e questo per ogni persona è veramente importante.
Il processo di scrittura è un processo di solitudine, di ricerca interiore. Qual è il tuo rapporto con entrambe le cose?
A questa domanda rispondo non solo da attore ma anche in qualità di drammaturgo. Recitare mi porta a confrontarmi con la vita, ad avere un approccio estroflesso con il mio lavoro. Come se avessi bisogno di esercitare una parte che non sta solo dentro di me ma anche fuori. L’esposizione, mettere il proprio corpo davanti agli spettatori, alle spettatrici, vivere le proprie sensazioni, porta inevitabilmente a essere collegati con l’esterno. La scrittura, invece, è proprio l’opposto. Per scrivere c’è bisogno di chiudersi, di stare dentro, di vivere nel proprio mondo interiore. È come chiudere le finestre del corpo senza nessun affaccio verso l’esterno.
E questa cosa è molto importante perché dà la possibilità, in un certo senso, di fare una sorta di autoanalisi, ai fatti della propria vita e del mondo. Chi scrive ha la fortuna di possedere due cose uguali e opposte: una grande analisi del mondo, di sé stesso, di ciò che ci circonda e questo permette di scendere in profondità al tema che si vuole trattare. Dall’altro lato, però, la parte faticosa è che questo ti costringe a fare i conti con sé stessi in maniera molto spietata perché nella scrittura difficilmente si può essere bugiardi con sé stessi.
Teatro e drammaturgia: in quale direzione ci stiamo muovendo?
Quello che noto rispetto ai testi di tanti giovani che leggo è una caratteristica comune, quella di essere racconti molto indefiniti, dove non ci sono i personaggi così come li intendiamo noi, è tutto molto più confuso. In questa parola, di cui non so quale sia l’etimologia esatta, mi piace pensare che ci sia una fusione, una “cooperativa diffusione” inventando un’origine che non è quella precisa.
Una cosa che registro è che i ragazzi e le ragazze di oggi che scrivono fanno fatica a stare ancorati con la realtà, nel senso che hanno sempre l’esigenza di far entrare nei loro testi qualche elemento strano, assurdo. Televisori parlanti, personaggi alieni, l’acqua colorata di rosso. Non so bene se avviene questa tendenza perché il mondo della tecnologia permette di creare realtà virtuali oppure perché non si è capaci di gestire qualcosa di molto più semplice e quindi si ha bisogno di ricreare mondi fantastici. È come se ci fosse una forma di iperrealtà.
Un’altra cosa che sto notando, e questo purtroppo è un problema del teatro europeo, è che la drammaturgia, in un certo senso, è asservita alle mode, alle tendenze del momento. Faccio un esempio: ultimamente non si parla d’altro che di clima, giustamente, perché è un problema centrale, importante e tocca tutti. Mi si può dire che la drammaturgia e i drammaturghi seguono le esigenze, raccontano il nostro tempo, ed è anche vero. Il problema è che viene chiesto tutto in maniera molto meccanica e quindi diventa una moda.
Poi, però, succedono delle cose e si capisce che un testo può essere bello a prescindere, quando va oltre le mode, quando supera la richiesta che fa il mercato e buca ogni sua regola, arriva, sta lì ed è presente. Noi Italiani abbiamo la fortuna di essere così tanto diversi, sono differenti le nostre lingue, i nostri dialetti, è diverso il nostro modo di pensare e questa è la ricchezza, la risorsa più grande che abbiamo. Se comprendessimo meglio questa nostra diversità, avremmo tanti autori, tante autrici in più che parlano e scrivono usando la loro lingua vera. E di conseguenza sono unici, sono uniche.
Una panoramica globale, uno sguardo e una riflessione personale sulle due serate di Situazione Drammatica a Roma.
Innanzitutto sento di fare un grande ringraziamento al pubblico che è stato presente in quelle serate. È stato un regalo meraviglioso, momenti di festa e di scambio. Dico sempre una cosa agli artisti selezionati per fare le letture: Situazione Drammatica non è una serata di dimostrazione, nessuno deve dimostrare quanto ha scritto bene, quanto recita bene ma è una serata di condivisione. Chi ha scritto una storia porta la gioia di condividerla con le persone che vengono ad ascoltarla, la natura di questa serata è la comunione di un percorso drammaturgico.
Ringrazio tutti gli scrittori, le attrici, gli attori che ho coinvolto nelle serate a Roma, ringrazio Carrozzierie n.o.t. e Maura Teofili, senza la quale difficilmente saremmo stati a Romaeuropa Festival e ci ha dato ospitalità in Anni Luce. È una splendida organizzatrice, ma ha anche un occhio artistico molto sensibile, alcune scelte artistiche le abbiamo fatte insieme.
Infine è importantissimo ricordare il ruolo di Fabrizio Grifasi, il direttore del Festival che ha fatto sì che fosse possibile realizzare queste letture, nella precedente edizione e anche quest’anno. Un direttore che gestisce fondi pubblici e decide di aprire le porte alla nuova drammaturgia è un direttore illuminato, questo bisogna dirlo, è una cosa importante. Sono state delle serate molto particolari, i testi e gli autori che abbiamo presentato sono i vincitori dei concorsi più famosi e prestigiosi.
Tommaso Fermariello ha presentato Anna, un testo che ha vinto la Menzione di Situazione Drammatica per il premio Hystrio, ispirato a un fatto realmente accaduto. Quando la protagonista di questo episodio di cronaca nera è stata rimessa in libertà, Fermariello ha notato che su Facebook c’era una miriade di insulti indirizzati verso questa ragazza. Nel mondo c’è tanta violenza e Fermariello ci racconta che i violenti non sono soltanto quelli che commettono un omicidio ma anche chi giudica sommariamente. Tommaso ha una bella qualità di scrittura, è molto moderno.
Christian di Furia è il vincitore del premio Hystrio. Lui si è ispirato a Bianca Garufi e a Cesare Pavese, ha inventato questo incontro al bar e lo ha raccontato con delle didascalie come se ci fosse la voce di una coscienza che descrive il corpo, i movimenti, le sensazioni di questi due personaggi, con la loro difficoltà di incontrarsi, con il loro desiderio di stare uniti. Ed è molto bello anche perché ha utilizzato una modalità di scrittura letteraria, creando un mondo e un racconto alto.
Nella serata dedicata al Premio Riccione abbiamo presentato Carbonio di Pier Lorenzo Pisano. Credo che lui sia uno degli autori più prolifici e interessanti che abbiamo perché spazia dal cinema alla drammaturgia teatrale, fa il regista, ha vinto tutti i premi più importanti e ha una scrittura molto bella. Sa utilizzare benissimo il meccanismo drammaturgico che collega gli spettatori con il ragionamento. La sua scrittura, secondo me, è scanzonata, ironica. Serve per porre lo spettatore di fronte a delle questioni che hanno a che fare con il proprio io, con l’intimo, con la propria vita. Carbonio è un incontro tra due persone, uno dei quali ha avuto un incontro con un alieno e questo ha modificato la sua percezione di vivere. Ci sono degli intermezzi con una voce off che racconta che noi siamo fatti di carbonio e al carbonio fondamentalmente interessa solo generarsi e generare vita, non interessano tutte le problematiche della mente e della coscienza.
L’ultimo, Niccolò Sordo è un ragazzo di 29 anni che ha scritto Ok boomer(Anch’io sono uno stronzo). È il vincitore del premio Pier Vittorio Tondelli e mi è piaciuto molto perché la sua forza sta nel fatto che è un autore giovane e contemporaneo; lui si descrive e ci restituisce come ragionano i ragazzi di questo tempo che stanno sui social, vivono le loro prime esperienze amorose molto spesso chattando e trascorrono molto tempo a guardare i video anziché leggere un libro. Secondo me sordo ha il dono di riuscire a scrivere a raccontare questa generazione, la sua è una scrittura molto interessante che per noi “boomer” disvela la realtà attuale.
La sua storia parla di un ragazzo che è anche la voce narrante del testo e che va a rubare in un centro commerciale delle Nike Air. Si rende conto che in quel negozio di scarpe di un centro commerciale ogni sabato pomeriggio si riuniscono tantissimi personaggi che vanno lì per rubare. È la metafora di una società che non aspetta altro che andare a rubare in un giorno preciso, in un luogo preciso come se fosse un’attitudine naturale. Questi sono i quattro testi che abbiamo portato e ognuno di essi, a modo suo, è piccolo capolavoro perché racconta parti diverse di questo momento storico che stiamo vivendo.
Sentirsi e far sentire a casa, a proprio agio con sé stessi e con le persone che sono con noi. E questo il senso del Teatro per te?
Un professionista, una professionista del nostro settore si deve porre sempre la domanda sul perché sta facendo questo lavoro e non un altro. Considerando il fatto che è faticoso, si lavora con le miserie degli esseri umani, non si lavora soltanto con le cose belle, si guadagnano pochi soldi non ci sono aspettative ed è a fondo perduto. Io dico a me stesso che se è questo è il prezzo che bisogna pagare, allora deve essere fatto in certo modo e deve avere un valore preciso. Io credo che questo è un lavoro come un altro, ma serve per far stare bene gli altri, per dare un servizio alla società nella quale viviamo.
Da qui nasce la mia esigenza di dover occupare le stanze della mia solitudine parlando della solitudine degli altri, le stanze del mio amore analizzando l’amore degli altri, le stanze dell’affetto guardando gli affetti degli altri, vivendo con gli altri. È un tutto che lega tutti insieme. Quando l’obiettivo principale non sono le persone a cui ci rivolgiamo, la società allora è come se noi prendessimo una piccola sbandata rispetto alla missione che ognuno di noi ha come artista. Per me, l’incontro tra gli esseri umani è come un rito ed è molto importante. Se il Teatro è lì dove ci sono una persona che racconta e una persona che ascolta, in quel preciso momento si realizza qualcosa di più grande delle singole unità. Si realizza qualcosa a cui diamo noi la vita.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Leggere i testi di Marco Morana è un’esperienza immersiva. Rapida come un salto. Imprevedibile come un volo. La sua carriera come drammaturgo è iniziata al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dove si è formato come autore. La scoperta della passione per il Teatro è avvenuta, invece, molto tempo prima, nella terra in cui è nato. Un incontro fondamentale è stato quello con Michele Perriera, scrittore e regista, direttore della casa editrice Sellerio, tra i fondatori del movimento letterario di neoavanguardia Gruppo 63. Perriera ha diretto, dal 1997 al 2005, la Scuola di Teatro del Comune di Marsala.
Marco Morana
Due sono le opere di Marco Morana che hanno ottenuto riconoscimenti importanti e grande visibilità. Le scoperte geograficheè la prima, spettacolo finalista dell’XI edizione del Premio delle Arti Sceniche Dante Cappelletti. Virginia Franchi ne ha curato la regia per le repliche al teatro dei Filodrammatici a Milano e al Brancaccino a Roma.
Stormi, il secondo testo, è stato segnalato al premio Hystrio-Scritture di Scena e ha vinto l’edizione 2019 del concorso InediTo di Torino. È stato presentato al pubblico dello Spazio Banterle di Milano, il 2 dicembre del 2019, durante il secondo appuntamento dell’evento Il copione, promosso dall’associazione Situazione Drammatica fondata da Tindaro Granata, Carlo Guasconi e Ugo Fiore.
In questa intervista, Marco Morana dà un’anticipazione sul suo prossimo lavoro, Biografia dell’inquietudine e approfondisce alcuni dei temi che caratterizzano la sua drammaturgia: dalla percezione del tempo, alle relazioni umane, passando per una visione atemporale del Teatro, il luogo privilegiato dove vengono stimolate le riflessioni critiche e personali, le azioni e le reazioni delle persone.
Con il testo Stormi hai vinto il premio InediTo e sei stato segnalato al premio Hystrio – Scritture di scena. Ci racconti quest’esperienza?
Stormi è nato dalla lettura di un articolo sul caso di Vincent Lambert, molto conosciuto in Francia, simile a quello di Eluana Englaro. Dopo un incidente motociclistico, Lambert ha vissuto dieci anni in uno stato post-vegetativo. Non era attaccato a un respiratore ma non riusciva ad alimentarsi da solo. C’è stato un acceso dibattito sulla possibilità di interrompere l’alimentazione forzata, scaturito dallo scontro legale tra la madre, che voleva tenerlo in vita, e la moglie, che invece voleva condurlo a una morte serena.
In quello scontro ho visto un grande potenziale drammatico e anche l’occasione di mettere in crisi la mia posizione personale sulla vicenda. Volevo portare sulla scena un dilemma.Il testo ha poi avuto una lunga gestazione e credo che non parli solo del fine vita, ma dell’impossibilità di ridurre, di considerare una verità senza comprendere anche il suo opposto. Di questi tempi siamo abituati a dividerci in schiere. Le opinioni si polarizzano su tutto in modo reattivo, vuoto. Per me sfuggire alla prigionia di una verità è fondamentale nel processo di scrittura.
Il testo si è sviluppato ed è stato costruito all’interno di NdN – Network drammaturgia nuova, un percorso di residenza artistica promosso da Idra con 16 partner fra realtà teatrali nazionali. Successivamente è stato presentato e letto nel corso dell’evento Il Copione, promosso dall’associazione Situazione Drammatica.
Il tuo prossimo lavoro, Biografia dell’inquietudine, ha tratto la sua origine dall’opera di Pessoa. C’è un filo rosso che unisce e accomuna tutti i tuoi testi?
È difficile rispondere a questa domanda, non credo sia possibile essere del tutto consapevoli del proprio lavoro. Direi che un elemento ricorrente è proprio l’impossibilità di ridurre la verità a una sola verità.Ne Le scoperte geografiche, il mio primo testo, racconto una storia d’amore fra due uomini attraverso tre incontri, tre fasi della vita.
Un personaggio è più consapevole del proprio orientamento sessuale, l’altro meno, ma il fulcro del testo non è il coming out quanto la considerazione che entrambi danno a quell’amore. I due vivono due “storie” diverse, si nutrono di due interpretazioni differenti di quella passione, e per questo restano fondamentalmente lontani. E nella terza parte, ormai vecchi, si chiedono cosa sia stato quel sentimento mancato, si interrogano sul suo senso.
Biografia dell’inquietudine è un “dis-adattamento” teatrale de Il libro dell’inquietudine di Pessoa, uno dei tanti impossibili adattamenti di quel meraviglioso zibaldone in cui l’autore portoghese, attraverso il suo semi-eteronimo Bernardo Soares, alterna pensieri, aneddoti pseudo-autobiografici. Nel mio testo, Bernardo, il protagonista, si lancia dalla finestra e muore. Avendo squarciato il velo della vita, comincia a raccontarci la sua biografia a ritroso, dandoci l’illusione che grazie a quel racconto sia possibile afferrare il senso del gesto estremo.
Biografia dell’inquietudine
Come si è sviluppato il tuo processo di formazione e come sei arrivato alla scrittura?
Ho cominciato ad avvicinarmi al teatro attraverso la recitazione e grazie all’incontro con un uomo visionario, un grande pedagogo, Michele Perriera. Immaginavo per me un percorso di attore, ma quando sono stato preso alla Scuola del Teatro Stabile di Torino ho sentito che dovevo rifiutare. Avevo vent’anni ed è stata una scelta strana, che non ho mai capito fino in fondo. Tutti sognavano di entrare in una scuola prestigiosa, e anche una parte di me lo desiderava. Credo sia stato un istinto.
Mi sentivo in apnea. Quando finalmente ho cominciato a scrivere è stato come se avessi respirato attraverso un altro naso. Può sembrare un po’ romantico, ma mi sono sentito proprio così. Dopo un po’ ho frequentato il corso di sceneggiatura del Centro Sperimentale di Roma, un’esperienza che mi ha messo in crisi perché è difficile trovare una propria libertà nella scrittura per il cinema, almeno nella grande maggioranza dei casi.
Molti sceneggiatori sono abituati a fare dei ragionamenti funzionalistici. Tutto deve funzionare, non si possono correre molti rischi. E quando si rischia è per una motivazione superficiale, come la volontà di essere originali o di rompere qualche presunto schema. Mi ritrovo di più nell’intimità e nell’artigianalità della scrittura teatrale.
Uno degli elementi che caratterizza la tua cifra autoriale è la contemporaneità di un livello alto e di un livello basso nella scrittura. Ti riconosci in questa descrizione?
Questo aspetto c’è, è vero. Nei miei tre testi e nei racconti cerco spesso di mescolare diversi registri linguistici, di proporre una rottura dello stile. In effetti, non ha più molto senso parlare di canoni. L’assurdo che proviene dalla televisione e soprattutto da internet mi colpisce: la ripresa di un bombardamento di civili può avere le stesse visualizzazioni di un video di qualcuno che fa la permanente al suo porcellino d’India. Il discorso spettacolare è così, ed è quello che più ci caratterizza, che ci plasma, anche se spesso non ce ne rendiamo conto. Noi stessi, comunque, conteniamo per natura tanti registri. Conteniamo identità differenti e contraddittorie.
Come prosegue la tua attività di ricerca e di scrittura? Quali prospettive intravedi nel post-pandemia, come lo immagini?
Durante la quarantena Andrea Dellai di exvUoto Teatro mi ha chiesto di scrivere qualcosa e, insieme al musicista Paolo Paolacci, abbiamo concepito il podcast Canto dello schianto. È una forma finita, scritta proprio per l’audio, non uno spettacolo da ascoltare. Comunque non scrivo molto. Per lo più trascorro il mio tempo leggendo.
Mi chiedo come si potrà fare teatro se dovessero rimanere in vigore le norme di distanziamento fisico (chiamiamolo fisico, che è più rassicurante di “sociale”). Il teatro è fondato sulla socialità, sul corporeo. Davvero l’unica possibilità è l’uso acritico delle tecnologie digitali? Non credo.
Le figure genitoriali di riferimento si manifestano tra assenze, narcisismo e controllo psicologico. Che ritratto fai di loro nei tuoi racconti?
Le madri di Stormi e di Biografia dell’inquietudine sono due figure di potere. Dare la vita è in effetti un gesto che afferma un potere indiscutibile. Questo aspetto mortifero, intrinseco nella creazione, è il paradosso dell’esistenza, con cui i figli dei miei testi si scontrano continuamente. Ho provato a esplorare di più questo mistero in Contrazione, un testo che ho appena terminato e che porta in scena il rapporto tra una madre e un figlio attraverso i cinque sensi.
Penso che sia un testo molto crudele. Nella generazione c’è sempre una de-generazione. Credo che andrebbe demistificata la retorica che definisce l’atto del dare la vita “un dono”. Se riuscissimo a rivedere la retorica sulla vita forse saremmo in grado di affrontare meglio il rapporto con la morte.
Le scoperte geografiche
Un orientamento diffuso e a volte anche abusato, nelle produzioni teatrali, è l’autobiografismo. La spinta, l’accelerazione verso l’autenticità esclude, secondo te, il principio di finzione?
Quando l’“autenticità” viene confusa con la “trasparenza”, l’umano, con tutte le sue fragilità e contraddizioni, viene negato. Molto teatro di oggi si concepisce come spettacolo, e lo spettacolo dominante nella nostra società è il web 2.0. I social ci stimolano a produrre un ritratto infinito di noi stessi, a parlare per battute ficcanti, in un tripudio di etichette. L’autobiografia diventa autonarrazione pubblicitaria. Siamo brand in cerca di visibilità e di consenso. Io penso a Pessoa, che in Autopsicografiascrive: «Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente.
E quanti leggono ciò che scrive, nel dolore letto sentono proprio non non i due che egli ha provato, ma solo quello che essi non hanno».Quando scrivo per me è importante rivendicare il mio ruolo di “fingitore”. Per questo diffido di un teatro che si appiattisce sull’immediatezza della vita, che tratta temi sociali importanti fermandosi alla dimensione più sensazionalistica ed emotiva. Questo è un modo di assolvere lo spettatore e di assolversi in quanto artisti. Il teatro che piace a me non è mai catartico, non è liberatorio.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Il Copione è una rassegna di sei incontri dedicati alla conoscenza e alla lettura di testi di giovani autori italiani contemporanei organizzata allo Spazio Banterle di Milano dall’11 novembre 2019 al 6 aprile 2020 dall’Associazione Situazione Drammatica di Tindaro Granata, Carlo Guasconi e Ugo Fiore, in collaborazione con il Teatro de Gli Incamminati.
Con il costo di ingresso lo spettatore non acquista un biglietto, bensì il copione che verrà letto quella sera, ad una cifra promozionale e non commerciale.
Abbiamo intervistato Tindaro Granata, Carlo Guasconi e Ugo Fiore:
Per quale target avete concepito questa iniziativa e che tipo di pubblico avete incontrato nei primi due appuntamenti?
Ugo: Situazione Drammatica vorrebbe far avvicinare alla scrittura teatrale chi non è abituato ad avere a che fare con il teatro perché in un mondo utopico la Parola teatrale dovrebbe riguardare tutte e tutti. Promuovere la drammaturgia contemporanea e organizzare incontri per parlare con questi giovani drammaturghi parte dalla voglia di cancellare la distanza tra chi sta sul paco e chi sta in platea. Nel corso dei primi appuntamenti siamo stati sorpresi di vedere che, a poco a poco, quest’obbiettivo si avvicina. L’altra sorpresa è stata che quasi la metà del pubblico avesse meno di venticinque anni.
Carlo: Non è stata concepita per un target particolare, si rivolge agli amanti del teatro e della letteratura, non per forza addetti ai lavori. Il pubblico incontrato fino ad ora si è infatti rivelato molto eterogeneo, sia in termini di età che di conoscenze della materia drammaturgica. La cosa molto bella è che è stato un pubblico attivo, molto partecipe, appassionato e curioso.
Tindaro: Volevamo fare in modo che la lettura di un testo teatrale fosse fruibile a tutti quelli che fossero interessati al processo di messa in scena, nascosto, che ogni testo ha. Ovviamente noi presentiamo una minima parte di quel processo, perché le prove di un testo che diventa spettacolo sono ben diverse e molto più complesse, ma avere l’autore che si racconta e seguire la lettura dal copione, vedendo gli attori che trasformano la scrittura in parole, è davvero emozionante. Finora abbiamo avuto il tutto esaurito per tutte le repliche.
Come avete selezionato i testi e cosa hanno in comune dal punto di vista formale e contenutistico?
Tidnaro: Per prima cosa abbiamo scelto gli autori. È la loro festa, il loro matrimonio, il loro Natale, sono loro stessi i principi della nostra rassegna. Quindi i testi sono arrivati con loro e spesso abbiamo chiesto agli autori stessi di proporci una delle loro opere.
Carlo: Hanno in comune che ci piacciono i loro autori, siano essi più o meno conosciuti. Rispetto alle strutture, invece, fortunatamente ogni testo è un universo a sé e ciò è un gran pregio, perché ogni incontro è un’esperienza diversa.
Ugo: Abbiamo tentato, al di là del nostro imprescindibile gusto personale, di proporre dei testi che fossero eterogenei nel modo di approcciare la scrittura.
Ogni incontro si apre con una presentazione dei testi da parte degli autori: essi stessi fanno da mediatori tra il pubblico e l’opera. La critica è ancora in grado di assolvere questo compito di mediazione?
Tindaro: Oh, difficile questa domanda. Il lavoro del critico è una professione come quella dell’attore e del drammaturgo: dietro alla professione c’è un essere umano, con la sua complessità e capacità. Mi verrebbe da dire che in generale la critica di oggi, alla quale sono state tolte le pagine scritte e che ha subito centinaia e centinaia di affiancamenti con anonimi opinionisti online, non riesce ad essere un tramite di conoscenza e di approfondimento per le opere teatrali, ma spesso si limita a descrivere la trama. La critica assume valore in base alla persona che scrive: se chi scrive è una persona con talenti, cultura e sensibilità, la critica assolverà il suo compito di analizzare un’opera teatrale, altrimenti sarà solo un riassunto di quello che va in scena.
Ugo: Se per mediazione s’intende un modo di decodificare un’opera, sicuramente dovrebbe essere un compito della critica. Tuttavia, la presentazione dei testi fatta dagli autori stessi non è un’operazione di decodifica, che richiederebbe un’impossibile obiettività. È piuttosto un modo per avvicinare il pubblico a un testo.
Carlo: Credo che a volte ne sia perfettamente in grado ed accade quando chi fa il critico ha gli strumenti e la capacità di comprendere e sublimare in un articolo quello che sta vedendo. Tantissime altre volte invece no, mi capita di leggere recensioni che si perdono in loro stesse e fanno perdere tempo a chi le legge; non per forza sono negative rispetto ad uno spettacolo, sono solamente fatte molto male.
L’evento si svolge presso lo Spazio Banterle, nel cuore di Milano, che nel vostro programma definite “una città sulla soglia di una nuova, grande trasformazione, che ha bisogno di essere continuamente ri-fondata”: che progetti avete in mente e quali collaborazioni state avviando con le realtà culturali milanesi?
Carlo: Non te lo dirò mai. Scherzo, per il momento mi sento di mantenere della riservatezza sulla questione.
Tindaro: Siamo ancora molto “giovani” abbiamo molte idee. Per adesso diciamo che stiamo cercando di capire come gestire al meglio questa prima rassegna. C’è da imparare ogni volta e ogni sera per fare meglio la volta successiva.
Ugo: La nostra volontà sarebbe quella di proporlo in vari luoghi più o meno pubblici e più o meno teatrali della città.
Tra i vostri progetti c’è la realizzazione di una scuola permanente di drammaturgia, in collaborazione con le università milanesi, che coinvolga studenti di tutte le discipline, anche scientifiche, in percorsi di scrittura teatrale legati ai singoli saperi. Di cosa ha bisogno la drammaturgia in Italia in questo momento?
Ugo: Credo che abbia solo bisogno di essere sostenuta. La drammaturgia italiana contemporanea esiste ed è ricca. Ha solo bisogno di sostegno.
Tindaro: Abbiamo il desiderio di fare una compagnia/scuola permanente che si occupi della lettura dei testi e della drammaturgia giovane italiana. La drammaturgia e i drammaturghi hanno bisogno di cura di attenzione di avere più possibilità di essere messi in scena e più possibilità di sperimentare i loro lavori con gli attori e con i registi. C’è bisogno di più lavoro, i talenti non mancano.
Carlo: Credo che più di ogni cosa abbia bisogno di diffusione e di supporto concreto, di fiducia da parte delle istituzioni e del pubblico. Abbiamo ottimi autori in un momento non brillante per l’istituzione teatrale italiana, e questa è un’occasione, creare una “nuova scuola” magari sbagliando, prendendosi dei rischi, senza aver paura. Credo che questi giovani autori siano il terreno su cui far ricrescere il teatro. Continuare a guardare al passato pensando solo a soddisfare gli abbonati con spettacoli triti e ritriti su testi visti un’infinità di volte non mi sembra una risposta migliore di quella che potrebbe dare un cane anziano che ama mordersi il mozzicone di coda che gli rimane in bocca. Bisogna capire che quelli che oggi sono classici una volta erano drammaturgia contemporanea che ha trovato messa in scena.
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