da Andrea Zardi | 31 Ott 2020 | Approfondimenti
Esserci, resistere e avere fiducia. Attraverso queste tre azioni il festival TorinoDanza ha portato avanti e concluso l’edizione 2020 in mezzo alle ben note difficoltà produttive, creative e logistiche che hanno indebolito il già delicato e precario sistema dello spettacolo dal vivo. Il festival invia una chiamata al suo pubblico, rilancia uno sguardo sul futuro che per un momento ci aiuta a comprendere in che direzione stiamo andando.
Tra i lavori presentati in questa edizione troviamo Toccare. The White Dance di Cristina Kristal Rizzo. La coreografa porta sul palco un lavoro che risponde tacitamente a molte condizioni e riflessioni nate dall’isolamento del lockdown. In una dimensione dove la prossimità dei corpi e il contatto sono elementi esclusi dalla costruzione coreografica, Rizzo ridefinisce il “toccare” come modalità di condivisione comunicativa che non passa attraverso l’imposizione di una presa o la costruzione di gesti definiti e leggibili, ma si affida totalmente a una dinamica di equilibri fra spazio vuoto e corpo, accelerazioni e sospensioni.
Immagini aeree, eteree, fragili – con un rimando esplicito alle atmosfere da ballet blanc – che non temono di fermare il movimento e si lasciano decifrare come schemi iconografici ricorrenti. Si avvicendano, immersi nelle luci taglienti di Gianni Staropoli, le corporeità di Annamaria Ajmone, Jari Boldrini, Kenji Paisley-Hortensia, Sara Sguotti e la stessa Rizzo, attraverso continui rimandi a una co-presenza fra dimensione reale e virtuale, evidente nella presenza degli smartphone. I performers instaurano un rapporto di ascolto delicato e sensibile della partitura di Jean-Philippe Rameau (Pièces de clavencin) eseguita da Ruggero Laganà, Antonella Bini ed Elio Marchesini.
Un panorama totalmente diverso viene mostrato nel mixed bill composto dagli spettacoli di Alan Lucien Øyen, Wang Ramirez e Hofesh Schechter. Øyen presenta due pièce di repertorio, And…Carolyn (2008), su musiche di Thomas Newman e Sinnerman (2014). Il primo è un duetto che riporta lo spettatore a una visione della danza come atto coregrafico attraverso una modalità compositiva molto chiara, di sapore nordeuropeo.
Due corpi, quelli di Daniel Proietto e Mai Lisa Guinoo, in sintonia perfetta e che ci riportano ad un momento in cui la vicinanza e il contatto erano una prassi comunicativa consueta. Sempre Proietto danza l’assolo Sinnerman, infrangendo il virtuosismo accademico sulle note della cantante Nina Simone.
AP15 (2010) è il titolo del duetto composto da Honjji Wang e Sébastien Ramirez: una relazione ironica costruita attraverso il linguaggio dell’hip hop, come un ipercinetico processo di conoscenza fra due individui che raccontano contrasti, affetti e sfaccettature emotive senza mai cedere dalla precisione tecnica e musicale.
Schechter presenta invece Untitled (2005) ed è la sua stessa voce a raccontare “about life, love and death”. Un dialogo cadenzato come un metronomo attraverso il corpo della danzatrice “Elisabetta” (Rachel Fallon), rimettendo allo sguardo molteplice e solidale dello spettatore che si ritrova nella somiglianza con le altre persone, nella condivisione di uno spazio e di un respiro comune.
Dimitris Papaioannou riconferma con il nuovo progetto Ink. An in–between project la propria statura di artista visionario e mai scontato, in bilico tra l’estasi del corpo e creazione di un immaginario emotivo che si presta alla contemplazione. Il palco è invaso dall’acqua, il silenzio interrotto dal ritmo accelerato di un irrigatore e dal getto che colpisce i fluttuanti teli di plastica che chiudono la scatola scenica.
In questo spazio umido e in penombra lo stesso Papaioannou gioca con l’irrigatore, ne sperimenta le possibilità e lascia che questo getto inzuppi completamente i vestiti: un eremita, un individuo che pare affidare a questa abluzione lo scorrere dei pensieri e la cancellazione della memoria, in una sospensione temporale che pare eterna.
Papaioannou inizia una lotta nel tentativo di dominare uno strano elemento, una figura indefinita che emerge dal pavimento, come un rettile. Questa lotta svela un corpo nudo (Šuka Horn), dalla carnagione chiara che, liberatosi dalla trappola, ribalterà questo rapporto di sopraffazione, piegandolo a una danza di corpi che si tratteggia talvolta di seduzione e morbosa dipendenza reciproca.
L’immaginario della cultura mediterranea viene ribadito da un polipo – all’interno di una boccia di vetro –che diventa da feticcio, testa di neonato da accudire e poi distruggere per mantenere il potere. La bocca di vetro segna un rito di passaggio, un battesimo verso un nuovo immaginario.
Il viaggio che Papaioannou intraprende in questa creazione sospende il tempo in una dimensione cinematografica, attraverso un uso minimale di musiche d’antan, le cui note si percepiscono appena grazie al suono di un giradischi. Rappresenta una stanza della psiche, tra archetipi e oscure presenze della mente, costruendo una dimensione della memoria e del desiderio più recondito, tra immagini surreali che richiamano l’Ulisse di Giorgio De Chirico e chiari riferimenti a Vollmond di Pina Bausch.
Dimitris Papaioannou non cerca ispirazione, ma dialoga e recupera, attraverso la soglia tra due mondi, la weltanschauug della celebre coreografa, come già dimostrato nello stück creato per il Tanztheater Wuppertal dal titolo Seit Sie (Since She, 2018).
A 250 anni dalla nascita di Beethoven, Simona Bertozzi con il quartetto d’archi torinese NEXT porta al festival una creazione in cui la Die Groβe Fuge op.133 diventa ispirazione per un lavoro di sperimentazione sulla materia sonora: le tonalità contrastanti, le interruzioni inaspettate e il virtuosismo emozionale di questo quartetto si infrangono con le fluttuazioni e le intermittenze di Zwischen Den Zeilen di Wolfgang Rihm e con la calma apparente di Ad io di Riccardo Perugini.
Tra le linee di Bertozzi si costruisce attorno ad un potente incontro tra questo complesso organismo musicale e una dimensione coreografica estremamente lucida: custoditi all’interno di bolle fluttuanti di nylon, cinque corpi (Giulio Petrucci, Manolo Perazzi, Sara Sguotti, Oihana Vesga, Simona Bertozzi) creano una ouverture che risuona come una eco, un’attesa che prelude all’impetuoso attacco.
Perazzi e Petrucci aprono a questo scenario definendo una partitura ricorrente e segnando con il corpo una precisa spazialità e una precisa caratterizzazione, lasciando spazio all’energico duo Sguotti/Vesga e alla danza tagliente e sempre al limite dell’equilibrio di Bertozzi. Le cinque traiettorie si tagliano, si intersecano e a volte trovano direzioni inaspettate in un dialogo con la musica che talvolta ridiscute, si oppone, cerca un’altra strada.
In dialogo con Anna Cremonini, direttrice dal 2018 del festival, si è discusso sulla sua personale esperienza nella progettazione e riprogrammazione degli spettacoli in questo periodo di emergenza sanitaria. Quali limiti sono emersi e cosa hanno permesso di scoprire? Cremonini vede nei limiti delle nuove possibilità, e sottolinea il fatto che il Teatro Stabile di Torino ha tenuto aperte le porte anche durante i mesi estivi con una programmazione ad hoc, dando un segno importante alla città e confermando la stagione di Torinodanza.
Anna Cremonini: La mia attitudine è stata di rivolgermi agli stessi artisti che erano stati invitati, confermando gli italiani previsti in programma, dando loro una “carta bianca”: stando insieme nella stessa situazione, possiamo ripensare alla programmazione con qualcosa di nuovo o attraverso la ripresa del repertorio.
Rinviare le date per gli artisti è dura, quindi l’idea di riconfigurare la loro presenza è importante. Ed è altrettanto prioritario poter mantenere la cifra internazionale che il programma ha sempre avuto, perché vedere ciò che viene realizzato all’estero aiuta anche la nostra coreografia a crescere. C’è chi infatti ha portato a sorpresa una produzione nuova come Sidi Larbi Cherkaoui e Dimitris Papaioannou.
Quali riflessioni sono emerse come programmatrice e quali sensazioni hanno caratterizzato questa esperienza?
AC: Sto capendo una cosa: noi stessi programmatori forse siamo meno tesi al “risultato a tutti i costi”; possiamo prenderci il gusto di lasciare più spazio agli artisti, di condividere con loro uno spazio di ricerca e sperimentazione che forse prima, con l’ansia di arrivare allo spettacolo, riceveva un’attenzione più limitata.
Questa cosa ha sottolineato i tempi e le modalità del processo, ci ha reso più complici con gli artisti anche verso l’ignoto. Io mi sento molo più partecipe di un percorso creativo: la situazione ci ha privato di un’ansia di prestazione e ha restituito al processo creativo una funzione più originaria.
E il pubblico?
AC: Anche il pubblico impara che ogni processo è ignoto e che il risultato può essere relativo: si insinua la sensazione di essere tutti in un terreno non familiare in cui dobbiamo scoprire quello che accadrà. Il distanziamento che vive il pubblico rende la sensazione dello “stare insieme” molto più rarefatta, e quasi si chiede aiuto al palcoscenico per restituire questo “respiro comune”.
Si sta affidando ad ogni individuo il proprio ruolo: all’operatore di rischiare sui progetto, all’artista di rischiare sulla propria identità e ricerca e al pubblico di essere il tramite e destinatario finale. Nel momento di difficoltà la funzione che svolgiamo nella società diventa determinante.
E gli artisti?
AC: Una delle cose più toccanti è stato vedere i danzatori entrare in scena dopo otto mesi che non calcavano un palco, è stato commovente, e questo trascolora nelle produzioni: ad esempio, in tutta la sua formalità lo spettacolo di Papaioannou è forse il più drammaturgicamente compiuto tra quelli che ha prodotto.
Questa esperienza dovrebbe aiutarci a essere forse meno autoreferenziali e ci invita a non fare finta che nulla sia successo. La menzogna in palco non è prevista: se menti in scena le cose non funzionano. Bisogna avere l’onestà intellettuale di guardarci dentro, nel microcosmo del teatro abbiamo la possibilità di farlo.
da Andrea Zardi | 20 Set 2017 | Uncategorized
La danza contemporanea italiana si è sempre caratterizzata per una spiccata propensione ad una ricerca coreografica estremamente diversificata tra gli artisti che intraprendono un percorso autoriale, acquisendo – in alcuni casi – elementi di originalità rispetto alla concezione di evento teatrale. Le urgenze espressive incalzano con grande libertà creativa, al di là dei vincoli convenzionali e registici.
Molti autori affiancano alla ricerca sul movimento una tensione riflessiva sempre più importante. Se in molti (troppi) casi alcuni spettacoli peccano di eccessivo intellettualismo, perdendosi in una confusione stilistica ben lontana da una qualsiasi connessione con il pubblico, in altri casi l’autore cerca di portare lo spettatore a fruire di un senso dell’opera che non è significato, ma un luogo metaforico e simbolico da scoprire. La sfida che alcuni di loro affrontano è quella di un processo di maturazione del pubblico, di avvicinamento a una sensibilità al linguaggio del corpo che si muove in uno spazio senza alcun appiglio narrativo o cornice drammaturgica.
Fra questi ultimi vi è Simona Bertozzi, coreografa e danzatrice romagnola, fondatrice della Compagnia Simona Bertozzi/Nexus nel 2008 a Bologna. Alcune riflessioni in questa intervista sono scaturite dalla visione di due suoi lavori: Anatomia, andato in scena all’Arena del Sole di Bologna e Prometeo: il dono, visto durante l’ultima edizione del festival Interplay, alla Lavanderia a Vapore di Collegno (TO).
In Anatomia Bertozzi danza senza sosta in quadrato nero, le cui volumetrie vengono modificate dal sapiente e articolato gioco di luci di Antonio Rinaldi, seguendo le composizioni live di Francesco Giomi, in scena per tutto il tempo. Lo spettacolo parla dell’incontro fra un corpo fisico, presente e pulsante, e un corpo sonoro. In scena con Simona anche la giovanissima Matilde Stefanini, che si pone come alter ego dell’autrice in un dialogo di grande coerenza. Co-autore del lavoro è Enrico Pitozzi, il cui apporto va ad indagare il rapporto anatomico fra spazio, tempo e velocità raggiungibili.

Prometeo: il dono è il secondo quadro dopo Prometeo: contemplazione, in cui vengono investigate la natura del dono e il rapporto fra corpi che, attraverso momenti di sospensione e negoziazione, cercano un dialogo che va sempre in una direzione di complessità. In scena oltre a Bertozzi troviamo Stefania Tansini e Aristide Rondini. Difficile recepire questo spettacolo se lo spettatore non è abituato a conoscere il lavoro di questa artista, in quanto ogni tipo di prevedibilità dello sguardo viene drasticamente fugata, in un groviglio di ritmi e posture.
Ho rivolto alcune domande a Simona Bertozzi con l’intento di indagare la profonda riflessione che sottende il suo lavoro:
• Buongiorno Simona. Il tuo linguaggio comprende un vocabolario di movimento che denota una grande esperienza nell’ambito della ricerca coreografica. Che dialogo intendi intraprendere con il pubblico?
La relazione con il pubblico è per me elemento sostanziale della creazione. Il linguaggio che produco interroga l’anatomia nelle sue illimitate possibilità di orientarsi nello spazio. Essendo lo spettatore dotato, a sua volta, di un costrutto anatomico é inevitabile che si produca una risonanza, un “attacco” alla sua percezione, un evento empatico, la cui sostanza e direzione, però, non deve essere pilotata, tantomeno risolta dall’agire prodotto sulla scena. Credo si debba conservare e coltivare un’apertura dell’immagine condivisa.
Il rituale è un processo che richiama alla condivisione, in questo senso l’azione dei corpi abbandona il luogo della singolarità per approdare a un livello di proiezione verso l’universale, costruendo un territorio parallelo a quello della realtà.
Vorrei dire che questo è il livello di co-abitazione che mi interessa attivare con lo spettatore. La condivisione di un gesto che “non è più mio” e che può aprire nuove traiettorie di visione, di amplificazione, di fuga.
• Nel caso di Anatomia la riflessione sulla presenza, sulla percezione del suono e della sua densità nello spazio rende evidente uno studio approfondito – grazie all’apporto di Enrico Pitozzi – sulle energie che si creano in correlazione con la musica e un complicato disegno luminoso. Come coreografa e danzatrice del tuo stesso lavoro, come hai impostato il processo creativo in rapporto a un drammaturgo e ad un musicista?
La collaborazione con Enrico Pitozzi è attiva da alcuni anni e, nel tempo, si è consolidata in progettualità di ampio respiro, specie nell’ambito della formazione. Cito tra tutti Volcano, progetto triennale (2015-2017) di formazione e trasmissione delle pratiche coreografiche contemporanee coordinata da L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino.
Il nostro dialogo, durante la creazione di Anatomia, non si è delineato secondo la modalità che solitamente si instaura tra coreografo/drammaturgo ma portava già dall’origine una serie di visioni condivise a cui si e affiancata l’ “azione sonora” di Francesco Giomi. La suggestione lanciata da Enrico, di porre l’anatomia al centro delle nostre prospettive di ricerca e pratica, ha permesso di strutturare in forma di evento scenico la comune di riflessione sul dialogo tra corpo sonoro e corpo biologico.
Non in ultimo, a completare questo orizzonte di creazione, vorrei citare le atmosfere luminose di Antonio Rinaldi.
• Molti dei tuoi lavori sono interpretati da giovani danzatori. Qual è la motivazione e quali sono le implicazioni di questa scelta?
La presenza, nei miei ultimi lavori, di giovani danzatrici è stata naturale conseguenza di un pensiero importante che ho rivolto alla trasmissione e a un’etica specifica del percorso di ricerca e creazione. Di certo non ha avuto peso una riflessione sulla giovane età degli interpreti in quanto necessità di “mercato”, tantomeno ritengo che si possa definire a priori un’età giusta/ideale per porsi in una dimensione di pratica e esplorazione di precise modalità coreografiche.
Con Stefania Tansini (all’epoca 24enne) e la giovanissima Matilde (appena 11 anni!) il dialogo della vicinanza tra i corpi, l’interiorizzazione del codice, l’immediatezza dello sguardo su cui posare le mie visioni, mi hanno da subito immersa in una possibilità particolarmente fertile di creazione e composizione coreografica.
• Prometeo: il dono fa parte di una serie di lavori dedicati alla mitologia. Come ti poni in relazione a questa tematica e come cerchi di rendere leggibile al pubblico questa riflessione sul mito greco?
Il progetto biennale che ho strutturato intorno al mito di Prometeo, pur strutturandosi in sei quadri distinti, ha escluso sin dall’esordio un’esegesi del mito e una sua narrazione. La trasposizione nella contemporaneità a cui ho dato prevalenza, ha riguardato un’ampia riflessione sulla technè, sul processo di informazione che può attraversare il gesto e la sua manipolazione dello spazio, in particolare quello dell’incontro con l’altro: la socializzazione, la trasmissione, il passaggio di testimone e l’orizzonte non sempre cristallino – anzi tendenzialmente contrastato e oscuro – che si staglia a latere e in lontananza di uno sguardo condiviso e aperto sul progresso.
• Cosa pensi della cosiddetta “giovane danza d’autore” – che in questi anni brancola nel buio ed è spesso lasciata senza riferimenti – e quale consiglio daresti ai tuoi giovani colleghi?
Non so se sono fuori dalle mode del momento, di certo non mi pongo in un’ottica creativa anteponendo dei modelli a priori e cercando di incontrare dei trend specifici o particolarmente in voga… Non riuscirei a condurre diversamente il mio lavoro. Ed è sempre stato così. Di questa libertà ne vivo pienamente i privilegi, ma anche le difficoltà che un percorso del tutto indipendente, inevitabilmente, comporta.
I giovani danz’autori? Mi pare che si possa dire di tutto meno che brancolino nel buio. Ci sono oramai numerose occasioni di tutela e sprone alla creazione e alla messa in atto del loro potenziale da parte di istituzioni, festival, bandi per under 35 etc. etc. Che le occasioni non siano sempre adeguate, o ben direzionate e condotte, dipende in primis dal giovane stesso, e dalla sua capacità di comprendere che l’occasione di un sostegno o di una circuitazione non é di certo ragione per smettere di “studiare”, anzi è solo un’ulteriore conferma di necessità di confronto e di crescita.
Per maturare una propria autorialità, è necessario saper collocare il percorso che si è intrapreso all’interno della complessità di eventi di cui risente la danza e la coreografia contemporanea. Comprendere, fino in fondo, l’epoca e le ragioni storiche della propria ricerca.
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Articolo di Andrea Zardi
da Redazione Theatron 2.0 | 5 Ago 2017 | News
Sei spettacoli autonomi, creati tra il 2015 e il 2016, dedicati al mito di Prometeo e alla sua trasposizione nella contemporaneità: And it burns, burns, burns, quadro conclusivo dello stratificato progetto della Compagnia Simona Bertozzi | Nexus sarà in scena mercoledì 23 agosto alle ore 20.30 al prestigioso Les Brigittines International Festival di Bruxelles, in Belgio.

«In questo quadro finale sono presenti cinque interpreti, adulti e adolescenti, insieme per ribadire, del Prometeo, la riflessione sulla technè e sulla trasmissione del “saper fare” in quanto pratica non esauribile, tesa al turbamento della natura umana», spiega Simona Bertozzi. «Sono Anna e Arianna, rispettivamente 14 e 16 anni, a tessere la trama del costrutto coreografico. Irrompono nello spazio solcato dalle azioni dei tre adulti, come il coro delle Oceanine che per prime giungono al Prometeo incatenato e, all’unisono, con agire misurato, netto e via via sempre più perentorio, segnano le traiettorie su cui si innesterà l’intero percorso, scandendo le tappe di un possibile dialogo tra età, intenti e proiezioni. La danza di adulti e adolescenti diventa così il territorio in cui far deflagrare le improvvise rivelazioni, la trama dei desideri e delle sorprese, l’impossibilità di un arresto. C’è tanta forza, ma anche fragilità e sbilanciamento, come di fronte a ciò che non si può prevedere. Il corpo in crescita si lancia e sovrappone a quello maturo. L’adulto osserva l’adolescente introiettando pulsazioni elettriche e perentorie esercitazioni. Si stratifica il sapere appena appreso per predisporsi alla vertigine successiva».
And it burns, burns, burns, ideato come di consueto insieme a Marcello Briguglio, vede in scena Anna Bottazzi, Arianna Ganassi, Giulio Petrucci, Aristide Rontini e Stefania Tansini. Lo spettacolo si avvale delle musiche di Francesco Giomi e delle luci di Simone Fini.
«È una fiamma che non si estingue», conclude la coreografa a proposito di And it burns, burns, burns. «E l’orizzonte resta sospeso tra possibilità di caduta o elevazione».
Altri appuntamenti internazionali in arrivo.
Il 20 ottobre Simona Bertozzi sarà in scena a Londra, ospite dell’Italian Cultural Institute, con lo storico spettacolo Bird’s Eye View. A gennaio 2018, inoltre, la Compagnia sarà a Los Angeles (California, USA): su invito dell’Odyssey Theatre presenterà due assoli (Bird’s Eye View e Prometeo: Contemplazione Solo) e condurrà alcune masterclass. Simona Bertozzi, infine, nel mese di febbraio 2018 debutterà a Basilea, in Svizzera, nel duetto della coreografa e danzatrice Tabea Martin This is my last dance che le due artiste creeranno insieme, nei mesi precedenti, durante svariati periodi di residenza internazionale.
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