da Roberto Stagliano | 31 Gen 2019 | Approfondimenti
Lunga giornata verso la notte
Cronache teatrali degli spettacoli Lunga giornata verso la notte, Who is The King e Ci vediamo all’alba
C’è della nebbia in scena e accompagna la notte all’alba. Assorbe e disperde la luce, ma non la sofferenza e le pene degli esseri umani. Sussurra inquietudine; essere vivi non sempre significa saper essere coniugi o genitori, figli o fratelli, compagni o separati, leader o proseliti. Il peso grave di quelle esistenze rimane in sospensione senza che possa ridursi di un’oncia, né acquisire la leggerezza di quella foschia o la forma di una nuvola bassa.
È una nebbia artificiale che invade la scena per mezzo della macchina per il fumo o riprodotta con le esalazioni delle sigarette. Altre volte viene evocata o descritta mediante i racconti dei protagonisti, come una presenza. È un piccolo dettaglio, il tratto in comune di spettacoli così diversi tra loro.
Lunga giornata verso la notte, scritto da Eugene O’ Neill nei primi anni ’40, è un dramma ambientato nell’agosto del 1912. Il testo presenta diversi aspetti autobiografici; l’autore ne aveva vietato la pubblicazione e la rappresentazione fino a 25 anni dalla sua morte e non esagerava quando lo descriveva come un “dramma di vecchio dolore, scritto in lacrime e sangue”. Lo spettacolo debuttò al Royal Dramatic Theatre di Stoccolma nel 1956, tre anni dopo la scomparsa di O’Neill.
Il ritratto dei Tyrone è quello di una famiglia irlandese-americana, così incline all’autodistruzione, con quattro interpreti: un padre, una madre e due figli maschi. Quattro anime non del tutto a pezzi, ma sicuramente logorate. Quattro persone/personaggi che si incontrano e si scontrano, si comportano in modi brutalmente contraddittori, nutrendosi, fino alla dipendenza di alcool, droghe e nostalgia. Ciò avviene in un interno borghese, una casa al mare nel Connecticut. Dove lo spazio centrale è definito da un ampio tappeto circolare, è un salone con bottiglie di whisky a vista.
Alle spalle, quattro camerini con gli specchi e le lampadine, disposti a semicerchio, le stanze della solitudine dei protagonisti. La nebbia entra dentro le camere di quella dimora residenziale. Spezzando una regola di equilibrio tra ciò che si trova all’interno e all’esterno di quella casa, uniforma gli oggetti e le persone. Fino quasi a confondere le forme, i colori, i tratti dei volti e, contemporaneamente il “mal de vivre”.
Arturo Cirillo è James Tyrone, un attore che ha vissuto ed è sopravvissuto a tante notti “on the road”, vagabondando in diversi teatri. Diventato sempre più ricco e sempre meno soddisfatto della propria carriera, ha sviluppato l’avarizia come una forma di ossessione e di controllo anche verso i suoi due figli che sono cresciuti pesantemente all’ombra, soffocati dalla presenza del loro padre. Milvia Marigliano è Mary, sua moglie. Un ruolo complesso, energicamente violento nell’esplorare i territori dell’autolesionismo, delle nevrosi, della dipendenza alla morfina, del suo lungo viaggio verso la follia. Difficile resistere alla tentazione di mandarle un abbraccio poiché Mary canalizza tutta quell’energia e la trasforma in empatia. A maggior ragione se si pensa che non sarebbe stato facile portare in scena il personaggio di una moglie e madre tossicodipendente, negli anni a cavallo tra la fine del 1940 e la metà del 1950. Non allineato con l’immagine del dopoguerra, di un’America felice, forte e feconda dove la parola d’ordine era “efficienza”.
Rosario Lisma interpreta James jr, il più grande dei figli di Mary e James Tyrone. Colui che doveva seguire le orme del genitore famoso, ma non ne è stato capace ed è finito schiacciato, vittima degli eccessi con alcool e prostitute, dei conflitti con il padre, della competizione esasperata con il fratello minore Edmund interpretato da Riccardo Buffonini. Autore di poesie, l’ultimo dei Tyrone, gracile e ammalato di tubercolosi.
Lunga giornata verso la notte
Durante le fasi della scoperta si farà sempre più pressante lo spettro della morte e saranno proprio la malattia e l’ossessione per la poesia a scavarlo sempre di più, fino a renderlo un personaggio concavo. Il guscio di Mary, ove la donna ripone le sue preoccupazioni materne, nei momenti di sobrietà.
Lunga giornata verso la notte è andato in scena al Teatro Vascello di Roma, dall’8 al 13 gennaio e al Teatro Massimo di Cagliari dal 23 al 27. Il debutto, nella scorsa stagione, è avvenuto al Teatro Menotti di Milano dove il regista e attore protagonista Arturo Cirillo ha portato anche la Trilogia Americans di drammaturgia contemporanea. Una maratona teatrale che comprendeva Lo zoo di vetro di Tennessee Williams, Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee e Lunga Giornata Verso la Notte di Eugene O’ Neill, coadiuvato da Mario Scandale come assistente alla regia per la terza opera.
La nebbia del dolore è quella che aleggia sull’isola di Ci vediamo all’alba, l’opera di Zinnie Harris, Meet me at dawn, Con la regia di Silvio Peroni, lo spettacolo ha debuttato a Venezia il 12 gennaio, al teatrino Groggia per poi andare in scena a Roma, dal 17 al 20 gennaio al Teatro Palladium e, infine, il 26 gennaio al Teatro Ferrara Off. Merita un breve accenno alla foschia dove coesistono la realtà, l’immaginazione e la misteriosa terza donna che non si vedrà mai durante la rappresentazione. Uno spazio di approfondimento su Ci vediamo all’alba è stato dedicato in una nostra precedente pubblicazione.
Trovare la strada per crescere, vivere e sentirsi uomini e donne completi, il percorso che porta alla scoperta di sé stessi, ad allontanarsene talvolta, è ciò che hanno in comune tutti i personaggi, anche quelli che in apparenza potrebbero sembrare distanti da noi, nel tempo e nell’animo. Shakespeare, per esempio è tra gli autori classici, il più autorevole nel raccontare l’umanità e lo spessore (o l’inconsistenza) dei suoi personaggi. Siano essi uomini di potere o sudditi, virtuosi o vigliacchi, innamorati o disperati.
Ci vediamo all’alba – Meet Me at Dawn
Who is the king è un interessante esperimento di scrittura teatrale seriale che mette insieme circa cento anni di storia inglese, a cavallo tra XIV e XV secolo, otto drammi storici composti da William Shakepeare, una sequenza di re che si succedono, a partire da Riccardo II, e si combattono.
L’idea di Lino Musella e di Paolo Mazzarelli è quella di realizzare quattro spettacoli di circa tre ore ciascuno riprendendo il formato delle serie tv. Oltre a essere due dei dieci attori protagonisti in scena, Musella/Mazzarelli hanno curato la regia e la drammaturgia del lavoro che è stato prodotto dal Teatro Franco Parenti di Milano con Marche Teatro e La Pirandelliana.
Il debutto di questa operazione è avvenuto al Napoli Teatro Festival, i primi due episodi narrano le vicende di Riccardo II, gli splendori, i contrasti, la sua deposizione da sovrano e la finale segregazione nella torre. Dopo due settimane di programmazione al Teatro Franco Parenti, Who is the king ha fatto tappa nella Capitale, dal 18 al 7 gennaio, ospitato dal Teatro Vascello.
Who is the king Ph Salvatore Pastore
Molteplici aspetti caratterizzano la forza di questo lavoro che è una sintesi di tanti anni di attività, ricerca e scrittura. Anzitutto l’universalità del linguaggio shakespeariano, difficile non iniziare da questo. Il collegamento tra passato e presente.
Unito a questo aspetto, c’è la grande capacità di aver affrontato e superato brillantemente la prova di riscrittura dei testi, operando una sintesi rimanendo fedeli all’originale, mescolando linguaggi, stili e generi. Proprio come faceva Shakespeare il quale raccontava degli uomini e della loro umanità mediante i tradimenti e le congiure che gli uni perpetravano contro gli altri, le rivalità, l’ambizione e la vanità. Il grande drammaturgo inglese ci ricorda ancora oggi che il potere è il grande nemico dell’uomo, la sua maledizione.
Un altro elemento presente è l’intreccio tra Teatro e vita nell’affrontare la grandezza, la fragilità, la nudità di sovrani e di eredi al trono, cortigiani e consiglieri, ribelli e madri vestite a lutto che invocano giustizia e lanciano oscuri presagi. Massimo e Marco Foschi interpretano i ruoli di padre e di figlio in scena e lo sono anche nella vita.
Ultimo ingrediente importante e significativo è l’intuizione, l’idea di avere suddiviso la scena in due grandi zone: Stage è il mondo di corte e degli ufficiali, quello curiale; Backstage è la società di uomini, è la vita sotterranea e clandestina che pullula di riottosi, di groupies e ribelli refrattari all’obbedienza. Bevono e fumano in scena lasciano una leggera nube, una nebbiolina che porta lontano pensieri e messaggi e che sospende, per brevi istanti, le leggi della fisica. Non c’è spazio, non c’è tempo, vita e morte si sovrappongono, il re e l’uomo sono nudi entrambi.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
da Roberto Stagliano | 23 Gen 2019 | Approfondimenti
Ci vediamo all’alba – Meet Me at Dawn
Tra le tante versioni letterarie del mito, quelle di Virgilio nelle Georgiche e di Ovidio nelle Metamorfosi hanno narrato e tramandato, nel corso dei secoli, la dolorosa storia del musicista Orfeo innamorato della bellissima ninfa Euridice. Quando la sua amata morì per il morso di un serpente, il giovane uomo scese agli Inferi, superando prove e ostacoli, pur di raggiungere i due sovrani Ade e Persefone, gli unici che avrebbero potuto restituirgli il suo dolce amore.
Meet Me at Dawn, l’opera dell’autrice britannica Zinnie Harris, si ispira al dramma vissuto da Orfeo, il figlio della musa Calliope e del re Eagro. Non è l’unico riferimento letterario presente nel testo della Harris: è possibile scorgere un riferimento, intravedere nell’ombra il naufrago Ulisse, il quale patì la sorte del naufragio proprio come Robyn e Hellen, le due protagoniste. Due donne, alla ricerca della strada verso casa, che si ritrovano su una riva. Ansimano, cercano di asciugarsi. Una ha i conati e vomita acqua salata, l’altra è in preda all’euforia di una incontenibile scarica di adrenalina in tutto il suo corpo. Si ritrovano smarrite in un tempo e in un luogo indeterminati, una spiaggia sconosciuta che scopriranno non essere ciò che potrebbe inizialmente sembrare.
Il titolo in italiano, Ci vediamo all’alba, è fedele all’originale. È stato possibile farlo diventare un allestimento teatrale con la traduzione di Monica Capuani, la regia di Silvio Peroni, l’interpretazione di Francesca Ciocchetti e Sara Putignano e, infine, la produzione Khora Teatro, in coproduzione con Compagnia Mauri Sturno. Quattro sono state le repliche romane, dal 17 al 20 gennaio, lo spettacolo è stato messo in scena al Teatro Palladium.
Amore e morte, nel mezzo di un naufragio. Terzo ed ultimo riferimento letterario, la storia di Sebastian e Viola ne La dodicesima notte di William Shakespeare, concentrato nella battuta del duca Orsino: “Un viso, una voce, un abito. E due persone! Una macchina d’illusione. Creata dalla natura, che è e non è”.
Ci vediamo all’alba costringe a decelerare, ad essere paziente nello svolgimento della narrazione, ad aspettare. È un gioco in cui l’informazione non arriva subito, non è imminente. Sembra un indovinello posto all’inizio con due semplici domande. “Stai bene? Dove siamo?”. Un misterioso puzzle nello stile di Waiting for Godot. Le regole sono sconosciute nella prima parte. Eppure attraverso quei dialoghi serrati Beckettiani, la relazione tra Robyn e Helen diffonde attenzione. Quella che si manifesta in scena tra loro due, ma anche tra gli spettatori, incollati alle poltrone, e le due interpreti, Francesca Ciocchetti e Sara Putignano.
Ci vediamo all’alba – Meet Me at Dawn
Le cose diventano più chiare successivamente. Robyn è Orfeo, Helen è la sua Euridice. La parte riflessiva contrapposta all’intemperanza. La riunione tra le due, negli sviluppi della drammaturgia, non è del tutto felice: vecchie recriminazioni e rimpianti. Mentre l’inizio dello spettacolo si concentrava su Robyn e Helen che cercavano di capire dove si trovavano e come tornare a casa per cena, Ci vediamo all’alba si sposta successivamente fino ad esplorare una nuova condizione. La distanza sembra espandersi oltre lo spazio e il tempo, contrapponendo il tradimento della morte con il privilegio della sopravvivenza. Le due donne incrociano i loro corpi: due persone avvolte nello stesso cardigan, sedute l’una nelle braccia dell’altra. Possono sembrare così vicine, eppure sono così distanti.
Quando l’amore è lontano e una persona viene a mancare, il dolore si inserisce nello spazio tra le ore e i minuti. E mena duro. Cosa faremmo se ci fosse concesso un giorno in più da passare con una persona amata perduta? La conoscenza della separazione impedirebbe di godere il ricordo di tutto il tempo trascorso insieme? Potrebbe esserci un reciproco accordo o sintonia tra i morti e i vivi?
Quello che propone Ci vediamo all’alba è la ricerca di un senso della psicologia del dolore. La regia di Peroni trasmette il cambio dell’ambientazione tra il reale e l’irreale, senza essere né l’uno né l’altro, creato dalla penna della Harris in quel processo di elaborazione del lutto dove tutte le contraddizioni della morte sembra che coesistano. È difficile dare un senso all’assenza di una persona amata semplicemente perché quel vuoto è imperscrutabile esattamente come l’amore, un eterno enigma che contiene in sé il micro e il macro, l’infinitamente grande e piccolo, la gioia e il dolore.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
da Roberto Stagliano | 26 Dic 2018 | Interviste
Arriva per tutti il momento di diventare ufficialmente adulti. Crescere è molto di più che fare un tatuaggio o un viaggio avventuroso senza l’autorizzazione dei propri genitori. Non è automatico come prendere la patente o votare per la prima volta. Se diventare maggiorenni fosse un dettaglio anagrafico non ci sarebbe altro da fare che aspettare, anno dopo anno, come un’operazione di addizione. La complessità di questo fattore umano, l’esplorazione intorno ai processi di maturazione, di consapevolezza e di determinazione del Sé, ha catturato l’attenzione del regista Silvio Peroni. Quasi come se fosse una ricerca, un’indagine. Sviluppata partendo da prospettive e narrazioni diverse negli allestimenti che, a distanza di pochi giorni, sono andati in scena in due teatri romani.
L’autore di entrambi i testi è Luke Norris, brillante ed eclettico drammaturgo e attore britannico. Il giorno del mio compleanno (Here we are) e Growth (Crescendo) sono due spettacoli dove, con le rispettive differenze a livello drammaturgico, i protagonisti sono dei ragazzi.
Silvio Peroni
Silvio Peroni introduce così il racconto di un lungo periodo di prove, di lavoro, di emozioni: “A un certo punto – spiega il regista – succedono delle cose e sono costretti ad affrontare una sorta di riti di iniziazione. Ne Il giorno del mio compleanno si trovano davanti alla morte dell’amico, in Growth c’è la malattia che viene posta, nello schema narrativo dell’autore, sotto forma di gioco, di divertissement. Ragazzi che devono crescere, che si ritrovano davanti a degli ostacoli post adolescenziali. Da lì in poi la loro vita cambierà, e dovranno affrontare tutto questo”.
Raggiunto in una pausa poco prima delle prove, nel suo camerino, parla con voce calma. Le conversazioni con il regista sono sempre state generose. Tra la fine della primavera e l’avvicinarsi dell’inverno, le attività di preparazione, di allestimento, di realizzazione e messinscena sono andate avanti a pieno ritmo. In ogni occasione, però, abbiamo raccolto le sue riflessioni, i ricordi e le esperienze che rendono ancora più vivo il suo lavoro teatrale.
“La mia evoluzione personale – afferma Peroni – è nel portare avanti una modalità di fare teatro e, soprattutto, di lavoro con gli attori. Molte cose si sono inserite nel mezzo: progetti, prove iniziate, tranches di prove di altri spettacoli che devono essere ancora fatti. C’è quindi una cristallizzazione maggiore di un certo tipo di approccio al lavoro attoriale. Non ho un rapporto con la regia estetica, ho un rapporto di lavoro esclusivo con l’attore. Da un punto di vista personale c’è un crescendo di sperimentazioni e di sviluppi. Gli spettacoli si inseriscono nel percorso di crescita. Nascono sempre da determinati tipi di condizioni che possono essere i tempi, le scadenze.
Nel momento in cui si ha a che fare con l’essere umano ci sono sempre grandi scoperte. Il lavoro sul palco è un lavoro che parla alle parti fragili di ogni individuo. Ogni volta ci sono persone nuove e diverse, c’è sempre uno scambio energetico. Il lavoro che imposto è molto lungo. Il vero dramma del teatro contemporaneo è che non abbiamo il tempo che ci servirebbe effettivamente per lavorare su un testo. Ci sono sempre scadenze molto limitate, gli spettacoli si montano in 3-4 settimane. Molti lavori andrebbero sviluppati invece nel corso del tempo, con le repliche, con altre prove durante le repliche. La vera discriminante è dunque il tempo”.
A proposito dell’approccio al suo lavoro e dei sentimenti che si sviluppano sul palcoscenico, il regista chiarisce che: “Il lavoro che mi interessa è quello di comprendere quali sono i meccanismi interpretativi, come svilupparli. Come andare in profondità ricreando e stando molto attento alla vita. Ascoltare come parlano le persone, come si muovono. Come si recitano i tempi, le situazioni, i luoghi della vita. Cerco sempre di prendere tanti spunti in ciò che vedo e osservo.
Cerco poi di capire quale può essere il meccanismo per ricreare tutto questo, affinché la recitazione sia un atto di grande coerenza. È una strana bestia quella del teatro, ci fa provare tante emozioni e, a volte, ci rendiamo conto di avere dei complessi inibitori, delle timidezze enormi, più di quanto ce ne potevamo immaginare. È un amplificatore di sensazioni il teatro. Dall’esterno è chiaro che serve farlo, dall’interno ci si rende conto di tutte le difficoltà che comporta. Di quanto come esseri umani possiamo e sappiamo essere ognuno l’ostacolo di se stesso”.
La premiere de Il giorno del mio compleanno è avvenuta al Napoli Teatro Festival, dove ha debuttato lo scorso 3 luglio. Sono seguite la tournée al Teatro Filodrammatici di Milano e, in successione, quella che si è conclusa il 2 dicembre a Roma al Teatro Piccolo Eliseo. Cinque sono i personaggi: Noce, Pic, Puh, Dany, Chri e Frankie. La loro vita è scandita dal ritmo di tante pulsioni interiori che aumentano fino al punto di diventare incontrollabili. Il cast è composto da giovani attori: Giovanni Arezzo, Antonio Bandiera, Luca Terracciano , Federico Gariglio, Grazia Capraro e Luca Terracciano.
“Here we are di Luke Norris ha un titolo in italiano, Il giorno del mio compleanno – dice Silvio Peroni. La storia è quella di un gruppo di cinque ragazzi e una ragazza, che si ritrovano il giorno dopo il funerale di un loro amico ed escono fuori tutti i rapporti che esistono fra di loro. Ricordano con nostalgia Frankie e la loro vita di provincia, in quello spazio piccolo. Io sono cresciuto in provincia e mi sento molto vicino a quello stato d’animo, a quella vita che comporta degli obiettivi difficili. Nel loro caso e nel testo c’è una provincia che si trova alla foce del Tamigi. Viene da pensare, come immagine, a tutta la sporcizia che, prima di confluire nel mare, si ritrova nel posto dove vivono quei ragazzi. La difficoltà del testo consiste nel fatto che non è un testo di situazioni che si sviluppano, ma un testo di condizioni”.
Il giorno del mio compleanno è diviso in due parti: la prima parte è pura commedia nera. Nel secondo quadro si viene letteralmente catapultati indietro nella vita di Frankie, il giorno prima dell’incidente. In quei momenti i personaggi di Chri (Grazia Capraro) e Dany (Federico Gariglio) diventano speculari e determinanti nella vita di Frankie (Luca Terracciano ) il quale regala una dichiarazione d’amore innocente e satura di tormento: “Le ho detto che siamo uguali, che veniamo dallo stesso granello di sabbia. Che siamo usciti dall’acqua insieme”. Quella del suo compleanno è una mattina ubriaca di malessere, dell’inquietudine di amare e di essere amati. La svolta rimane invisibile quasi fino alla fine. L’ultimo livello è qualcosa che viene gestito drammaticamente nei momenti in cui tutti gli attori raggiungono il climax della storia. Quello che Frankie avrebbe voluto era solo di poter “ritornare indietro ed essere bambino, ricominciare dall’inizio, da un’altra parte, in un posto bello”.
L’ambiente determina così la felicità o l’infelicità, la solitudine o l’appartenenza, l’affermazione o la negazione della propria identità. ”Sono nato e cresciuto nella provincia – dichiara Silvio Peroni. Secondo me, è molto più interessante della città proprio perché è più chiusa, più piccola e ogni dramma personale di un singolo individuo si acuisce. Se cammini per strada con la cresta sei “quello con la cresta”, così come se sei omosessuale. Nella città sei un numero, nel paese c’è l’esigenza di riconoscere un ruolo, come nelle classi, a scuola.
C’è il tipo buffo, quello simpatico, lo strano, la secchiona. Ogni volto ha un nome in provincia, in città ci sono volti nella folla. Ogni essere umano ha un ruolo ben preciso perché le persone sono di meno e servono tutte. Dare dei ruoli serve anche per trovare stabilità e sicurezza. La vita può essere dura, sicuramente è molto più trasparente e diretta, a volte pericolosa altre volte anche accogliente. C’è una spiegazione alla violenza, all’uso di droghe o di alcool perché non ci sono interessi o cose da fare. Di solito chi emerge alla fine risulta un po’ vincitore, ma quelle ferite se le porterà dentro per sempre. Questo argomento mi interessa molto, lo trovo più complesso e interessante a livello umano”.
Siamo quello che il mondo decide per noi o siamo ciò che noi decidiamo, fino in fondo, di essere? Tobes è il personaggio centrale di Growth, Crescendo. Un ragazzo sventurato e passivo che si trova a dover affrontare un preoccupante ammasso, un nodulo, un “grumo in una grande sacca di grumi”. Qualcosa che condizionerà la sua vita in generale e anche quella sessuale, Dovrà fare i conti con le conseguenze di essere lasciato dalla sua ragazza e del successivo incontro avvenuto grazie a Tinder. Nel mezzo ci sarà anche la perdita del suo testicolo sinistro. Luke Norris nel testo di questa commedia realizza in parallelo la crescita di quel tumore e un crescendo di consapevolezza verso la vita. Tobes sentirà la necessità di diventare un uomo nel momento in cui sarà disperatamente necessario diventare adulto.
Il cast di tre attori è composto da Francesco Aricò nel ruolo del protagonista e da Giulia Trippetta e Pavel Zelinskiy, entrambi alle prese con diversi personaggi da interpretare nell’ambito della rassegna Trend, al Teatro Belli di Roma. L’autore, Luke Norris, conosce molto bene l’uso delle parole e dei dialoghi in funzione della scena. Ciò determina similitudini narrative nell’uso di battute molto corte e con un ritmo serrato.
Silvio Peroni aggiunge: “In Growth ci sono effetti comici di situazione. Si capisce perfettamente che vengono dalla penna di un attore che non si dilunga mai a compiacersi nella scrittura. Le battute sono molto dinamiche e creano una comicità basata sui fraintendimenti. Una scrittura per la scena sul classico schema del controtempo. Questo è un modo di scrivere che a me piace molto. Mi diverte perché è bello lavorare con testi del genere, molto stimolanti. È stata una mia volontà quella di mettere un sottotitolo perché Growth potrebbe significare poco per la maggior parte delle persone. Si può tradurre con “crescita” ma, insieme con Enrico Luttman, abbiamo preferito Crescendo, come traduzione, perché è una parola usata nella terminologia musicale, il crescendo negli spartiti. Suona meglio ed è esplicativo”.
In ogni conversazione con il regista è frequente che spesso emerga un punto di riferimento, una chicca letteraria, durante le nostre interviste. Dall’Ulisse di Joyce, all’Amleto di Shakespeare, a Cechov: “Il mio sogno è di riuscire a mettere in scena prima o poi Cechov e penso che prima o poi lo farò. Recitare le sue opere non è semplice, è facile una volta che si capiscono le condizioni interpretative. Lo studio sui personaggi si basa proprio su questo, le parole non sono esclusivamente tutto, quello che i personaggi raccontano è ben altro. In Cechov come pure in buona parte della drammaturgia contemporanea o in Shakespeare”.
Poco prima di concludere il nostro incontro, Peroni racconta anche che sta leggendo di nuovo varie cose di pedagogia teatrale. Tutti quei testi che di solito vengono letti (ma non compresi completamente) all’inizio di questa carriera: Peter Brook, Eugenio Barba, Stanislavskij, Orazio Costa, Strasberg, Mejerchol’d . Confessa che: “Ogni tanto bisogna rivedere delle cose, come nello sport. E questo è un periodo in cui ho bisogno di rivedere i fondamentali e di fare un passo indietro per andare avanti”.
In definitiva, l’intento è quello di continuare a crescere.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.