La quotidiana sacralità secondo Lucia Calamaro
«Tutti i finali dei miei pensieri sono finiti in un luogo che non conosco», dice Silvio, lo stesso luogo dove forse si annidano i finali dei libri che Lucia non riesce più a scrivere. Entrambi hanno suggestioni, creazioni o piuttosto frammenti di sé che «non reggono i metri», sbotta la scrittrice, pensieri «fragili come bambole di porcellana, gonfi di morte». È una eco potente quella che risuona tra i protagonisti degli ultimi due lavori di Lucia Calamaro, dramaturg e regista formata in Francia, da anni tra le penne più interessanti e amate del teatro italiano. Calamaro ha portato nuovamente in scena, alla fine del 2019, due testi che permettono di tracciare un breve, inevitabilmente parziale, quadro della parabola di un talento sorprendente del teatro contemporaneo, che ha scelto una strada di creazione molto personale, che passa per testi scritti e poi portati in scena come abiti cuciti addosso ai suoi protagonisti, per i quali – soli – sono stati intessuti. Un metodo che pretende, innanzitutto, una scelta accurata degli interpreti, tra attori di straordinaria forza espressiva ed emotiva. A cui lascia i propri nomi e che accompagna alla ricerca del proprio sé.
Silvio, ad esempio, protagonista di Si nota all’imbrunire, solitudine di un paese spopolato, è Silvio Orlando nei panni di un uomo che, dopo la vedovanza, sceglie di ritirarsi in un luogo isolato in cui qualsiasi intrusione, in particolare quella dei famigliari, è un’insopportabile violenza. Lucia, la scrittrice di Smarrimento che non riesce più a scrivere e per questo viene forzata dagli editori a una serie di conferenze-incontri col pubblico è invece una Lucia Mascino al suo primo, fortunato monologo teatrale, la cui genesi per lei è dichiarata fin dalla locandina. Come si diceva, la scrittura per Calamaro autrice è il precipitato dell’incontro, una sintesi quasi alchemica in cui l’autrice si specchia e si muove negli occhi dell’interprete, in una mimesi di reciproca possessione che passa attraverso una lingua adamantina, esatta e intimamente poetica, costruita per dire l’indicibile delle pieghe di pensieri che trovano le parole anche quasi oltre la coscienza di chi le pronuncia. Pensieri come lava o magma sotterraneo che emerge dalla crepa di una mente troppo piena che pensa di dire mentre tace, nel caso di Silvio, o zampilli d’esplosione appassionate pur senza perdere la misura di un cammino sempre in sottrazione, nella ricerca spasmodica di Lucia di tendere una mano a chi l’ascolta.
La spicciolaggine antinarrativa del quotidiano
Di queste parole che sgorgano naturali lasciando nel fondo la sensazione del controllo quasi irreale con cui sono scritti, Calamaro fa i compassi utili a tracciare quella che potrebbe apparire una geografia di fallimenti, che danno forma a quella che in Smarrimento chiama la «spicciolaggine antinarrativa del quotidiano», la vena (dorata) di tutti i suoi testi. A fallire, nei due testi, sono però soprattutto le persone che li circondano, gli altri. I figli di Silvio nel primo caso, che fanno lavori che il padre non capisce o vivono di sogni sbagliati e aspirazioni fallimentari, il marito di Lucia nel secondo, che nel suo mondo fatto di padelle e di confronto costante con una moglie vincente e proiettata all’esterno, sente il peso di un’esistenza in cui è inessenziale al mondo. Le personificazioni di chi, sembra suggerire l’autrice, non può, non vuole, non riesce a confrontarsi con se stesso. I due protagonisti, al contrario, scontano la solitudine di chi sa. Convinti o consapevoli di dire, attraverso le mani di Calamaro trovano nella parola un ponte verso l’altro, pur vestendosi entrambi del «fascino delle persone che non si dedicano». Una frase che, non a caso, torna in entrambi i testi. Come dichiarazione di intenti quasi incipitaria, nel caso della scrittrice Lucia, come postura di tutta la pièce nel caso di Silvio, padre burbero che scaccia con fastidio freddo e burrascoso i figli arrivati per passare del tempo con un padre eremita del mondo. Anche in questi due lavori della drammaturga si esalta così la parola, quella parola che, direbbe Testori «si fa vita, si inossa, si fa realtà» , e così, diceva l’autore novatese, si redime dopo decenni in cui anche e soprattutto in teatro è stata vilipesa e calpestata. Una parola che è anche, sempre, rimando letterario, indigesto a entrambi i protagonisti – e di nuovo, nel filo che lega i due testi, lo dicono entrambi in maniera quasi speculare. Tutti e due detestano le citazioni eppure il loro parlare ne è intessuto, costituito con costanza quasi ossessiva. E non può essere altrimenti, nella spasmodica ricerca (che è dell’autrice) del mezzo esatto per l’affidamento di un testimone di una spaventosa sincerità.
Lo sforzo e il coraggio, cioè, nell’ammissione della propria fragilità davanti a uno sconosciuto, che abbia il volto di un lettore incontrato per caso (ma chi legge non è forse il più intimo conoscitore di uno scrittore?) per Lucia o di un famigliare (il più vicino e misterioso degli estranei?). Così i due protagonisti svettano e simboleggiano tutte le «umanità mal sintonizzate» , si dice in Si nota all’imbrunire, che finora raramente avevano trovato un racconto di tale precisione. Figure che per marcare la propria differenza devono essere totalmente comuni e totalmente “altro”: entrambi hanno tracciato un altrove, uno spazio sacro: sia esso una villa isolata o siano le pagine di un libro. Una immagine che, quando Lucia Calamaro passa dalla penna alla regia scenica traduce in scenografie immediatamente riconoscibili. La sua quotidiana sacralità si colloca e trasforma in spazi abitati dal monocolore sugli sfondi e da tanto bianco nelle scenografie minimaliste o per linee pulite, dando all’insieme una esplosione di luce e di vuoti da riempire dove il colore. Così, l’apparente quiete, il procedere sul filo senza mai spingere all’eccesso dell’emotività spicciola i suoi personaggi, non è che la raffigurazione della capacità di fronteggiare se stessi.
In un altro eloquente parallelo, entrambi riconoscono e stigmatizzano con parole sovrapponibili la propria consuetudine a «evitare la vita», eppure si dibattono come animali in gabbia in consapevolezze dolenti che hanno la forza della sincerità che spesso ognuno cerca di evitare.
«Vivo da convalescente. Campo difendendomi, ma non so da che»
Ammette Lucia, mentre Silvio «lotta contro qualcosa, non so come si chiama, ma so che è difficile». Due rappresentazioni della stessa vita, che nel primo spettacolo esplodono e prendono la forma di un dialogo tra più personaggi, mentre nel secondo implodono moltiplicando la stessa interprete in molte voci senza che – alla chiusura del sipario – esista tra l’uno e l’altra una reale differenza. Due interpreti maiuscoli, simboli di genio degli aspetti più veri del reale proprio perché lo incarnano. Come le messe in scena, restando al contempo sospesi nel tempo e nello spazio, in spettacoli che parlano di quanto di più concreto esiste lasciando però un’impressione eterea. Trucchi di radianza attraverso cui Lucia Calamaro ripete (legandosi a se stessa senza essere tautologica) i propri topoi –, dichiarandolo senza nascondersi. Del resto, fa dire a Lucia, sempre in bilico tra omonimia, sorellanza e alter ego: «Basta avere una qualche ossessione per essere migliore». Lo fa per riconoscere e provare a dire la cosa più semplice e difficile: l’esistenza. Lo smarrimento e la luce della consapevolezza che «esserci è tutto. Il resto si riduce a poco» .