Di intrecci mitologici e antiche tradizioni. L’Umbria in scena a Strabismi 2020

Di intrecci mitologici e antiche tradizioni. L’Umbria in scena a Strabismi 2020

Quella umbra è una storia fatta di intrecci mitologici e antiche tradizioni. Nel cuore dello stivale, il teatro vive nel lavoro di artiste e artisti che hanno fatto degli echi archetipici della Grande Madre Umbria, il solco nel quale far germogliare i rigogliosi semi dell’arte. Perché le leggendarie visioni che ne colorano il respiro terroso, non si disperdano nel bailamme del nuovo mondo che incede, assorbendo la memoria dei padri. La nostra memoria.

È su questa volontà che Strabismi Festival 2020 ha costruito la programmazione della VI edizione, affidando il palco del Teatro Thesorieri di Cannara ad artisti del territorio, che di questi luoghi narrano anima e leggende. Si inizia il 6 ottobre, con Maria Anna Stella in scena con Terrae Motus/Motus Animae, un’antologia di confessioni raccolte sul campo, rielaborate in uno spettacolo intimo e profondo sui risvolti psicologici della comunità nursina interessata dal terremoto del 2016.

Terrae Motus/Motus Animae – Maria Anna Stella

Terrae Motus/Motus Animae si origina da testimonianze audio/video raccolte a seguito del terremoto che ha interessato il territorio nursino nel 2016. Come hai lavorato sul materiale raccolto rispetto all’elaborazione drammaturgica, riuscendo a tenere fede alla profondità di un racconto tanto doloroso come quello che ti è stato affidato dalla comunità?

Maria Anna Stella: Il lavoro radiofonico Ora – Un anno col terremoto, andato in onda nel 2017 per Rai Radio Tre, è stata la prima occasione per conoscere nel profondo la terra dove sono nata, Norcia e le sue voci. Avevo appena vissuto il terremoto e assieme al mio amico Jonathan Zenti, con il quale avevamo già realizzato degli audiodocumentari, cominciai un lavoro sul campo, di ascolto, selezione e ricerca di ciò che stava accadendo a me e agli altri, dentro e fuori.

Le voci, i racconti, “le confessioni” come le ha giustamente chiamate il mio maestro Roberto Ruggieri del Centro Universitario Teatrale di Perugia, che ha curato la drammaturgia di Terrae Motus, sono emerse dopo un lungo lavoro di indagine che non ho mai più interrotto da quel momento. Dal 2017, infatti, parallelamente alle interviste che conducevo, ho elaborato e sviluppato il materiale raccolto con la necessità di restituirlo prima di tutto al territorio e alle persone. Le “confessioni” nascono da ore di ascolto reciproco, da un tempo che io e gli altri dedicavamo ai pensieri che tormentavano e ingombravano la nostra mente.

In Terrae Motus/Motus Animae sei corpo e voce delle “sismicità interiori” di un’intera comunità, di vivi e di morti. Qual è lo scopo di questo processo artistico e quanto il potere catartico del teatro può ancora essere utile alla costituzione di una memoria storica che si faccia elemento catalizzatore di una rinascita comunitaria?

MAS: Ho riflettuto molto sul senso di fare teatro per ricostruirsi dentro, insieme alla comunità. Che ruolo aveva il teatro in un momento particolare come quello che stavo vivendo? Ho pensato che fosse necessario un teatro che va dalle persone,  che le rende protagoniste del loro processo di cambiamento personale e collettivo, mettendone in risalto gli aspetti innovativi, propulsivi, reconditi che quella scossa aveva generato. Ecco, forse Terrae Motus è un esperienza che mi ha permesso di esorcizzare il dolore e trasformarlo in qualcos’altro.  Non è un lavoro sul terremoto del 2016, ma un viaggio attraverso i terremoti dell’anima.

In C’era una volta in Umbria, di e con Silvio Impegnoso, in anteprima a Strabismi Festival il 7 ottobre, protagonista è la leggenda folignate del Dottor Cavadenti. Un anarchico genio degli affari che da Foligno, “Lu centru de lu munno”, con mirabili visioni ci trasporta nel lontano Giappone creando un’inaspettata connessione tra antichissime tradizioni.

C’era una volta in Umbria – Silvio Impegnoso

C’era una volta in Umbria parte dalla ricostruzione filologica delle vicende che hanno interessato negli anni addietro alcuni abitanti di Foligno, in particolar modo quelle anarchiche e rocambolesche del Dottor Cavadenti. Nonostante il metodo di tessitura della drammaturgia parta dalla raccolta di testimonianze dirette, il risultato non vuole essere la creazione di una storia, bensì di una mitologia. Quand’è che la storia diventa leggenda e come questo racconto si fa eco della storia dell’intera Umbria?

Silvio Impegnoso: Fin da bambino sono entrato in contatto con storie che riguardavano la città di Foligno, nel periodo che va dal dopoguerra agli anni Novanta. Tutte venivano presentate come rigorosamente vere, e non mi è mai interessato scoprire se lo fossero o se mescolassero verità e menzogna in proporzioni variabili. Mi avvinceva piuttosto l’affresco coloratissimo che, complessivamente, andavano a dipingere. Ci sono entrato in contatto tramite gli amici di famiglia, i vicini di casa, i veri protagonisti di queste storie, andando a creare una sorta di “campionario di personaggi leggendari locali”.

Alcuni di questi personaggi ricorrevano spesso nei racconti dei folignati, ma solo due elementi sembravano essere onnipresenti: un luogo e una persona. Il luogo è il Caffè Sassovivo, storico bar del centro dove si ritrovava la bohème e in cui, al centro di un tavolo da biliardo, era custodito il piccolo birillo rosso considerato da tutti i folignati il centro dell’universo conosciuto e per il quale la città conserva ancora il suo soprannome: “Lu centru de lu munnu”.

La persona invece, era il Dottor Cavadenti, personaggio liberamente ispirato a un genio degli affari e dell’azzardo realmente vissuto a Foligno. Quando ho iniziato a scrivere C’era una volta in Umbria avevo bisogno di una chiave per entrare in quel mondo così variopinto di racconti e di una bussola per non perdermici. Cavadenti è stato quella bussola e quella chiave. 

Ho iniziato a raccogliere le testimonianze e, nello scoprire la sua parabola affaristica e umana, il termine mitologia è iniziato a sembrarmi sempre più appropriato. Non si tratta solo del destino individuale di un uomo, ma di una figura profondamente radicata nell’immaginario e nello spirito della città. Questa parabola non appartiene solo al territorio folignate, in tutta l’Umbria si trovano storie di mecenati, cultori delle lettere e delle belle arti.

Non mi sembra un caso: molta della nostra cultura locale ha le sue radici nel monachesimo e nei movimenti spirituali del medioevo. I monaci, in particolare quelli benedettini, sono stati i primi uomini di lettere a dedicarsi attivamente all’agricoltura e all’architettura, rifiutando un ideale unicamente contemplativo di vita spirituale e orientandosi verso una sorta di “filosofia pratica”, con l’obiettivo di migliorare il territorio in cui vivevano.

Il paesaggio umbro in cui si disloca la storia è rappresentato da un puzzle/mosaico che richiama la pittura giapponese. Un immaginario, quello nipponico, che si mescola a quello umbro, trovando un riverbero nella costruzione scenografica, gestuale e performativa dello spettacolo. In che modo l’iconografia giapponese ha guidato il lavoro e dove risiede il punto di giuntura tra queste tradizioni così lontane?

SI: La prima fase di scrittura di questo lavoro è stata una vera e propria indagine: ogni persona con cui parlavo apriva nuove piste da seguire. Il Giappone, con tutto il portato che ha per noi di ignoto e di incanto, è entrato nel lavoro proprio perché legato a doppio filo con la storia del Dottor Cavadenti. A un certo punto è saltata fuori una grande amicizia con un pittore giapponese trasferitosi in Italia. Con lui, Cavadenti decide di aprire un’associazione per la diffusione della cultura giapponese in Umbria senza alcuno scopo di lucro.

Nel contatto con il Giappone che deriva da questa amicizia, si rivela qualcosa di profondo della natura del Dottor Cavadenti: il suo più grande obiettivo non era la ricchezza economica ma l’incontro con la bellezza sconosciuta, con l’ignoto lontanissimo che riesce a riconoscere come simile e amico. Così, il Giappone è diventato in qualche modo l’”orizzonte poetico” di tutto il lavoro.

Da qui la scelta, maturata nel tempo insieme alla pittrice e artista Federica Terracina, di affiancare alla narrazione la costruzione in scena di un mosaico che si rivela essere un paesaggio umbro disegnato con uno stile astratto che ricorda la pittura giapponese, unendo così idealmente i due mondi e creando uno sfondo a tutto il racconto che non è tanto un paesaggio realistico quanto un “paesaggio dell’anima”, sul quale si stagliano le varie figure della storia, principali e non.

Inoltre, il contatto col Giappone riverbera anche in un momento di danza che richiama varie figure dell’iconografia giapponese, da Hokusai fino a Super Mario e Dragon Ball, oltre che nella scelta musicale. All’interno dello spettacolo, il Giappone assume un ulteriore significato: intitolare un lavoro “C’era una volta qualcosa” significa anche inserirlo all’interno di una tradizione cinematografica, quella che va da C’era una volta in America e Giù la testa (il cui titolo originale era C’era una volta la rivoluzione), a C’era una volta a Hollywood.

Tutti questi film hanno in comune il fatto di raccontare la storia di un’amicizia virile che cresce e si consolida, mentre il mondo in cui è nata sta giungendo al declino. Nel caso di C’era una volta in Umbria si tratta del micro-mondo della Foligno del dopoguerra e degli anni ‘70 ma la dinamica è simile.

La coppia di amici storica e inossidabile è rappresentata da Cavadenti e Slender, suo amico d’infanzia e compagno di scorribande per tutta la vita, sorta di “ronin” del Partito Comunista che al momento del declino di quest’ultimo si ritrova senza una causa per cui combattere. Yomi, e quindi il Giappone, rappresentano l’elemento altro, l’imprevisto che fa prendere una piega diversa alla vicenda e che ne offre al tempo stesso una chiave di lettura.

L’11 ottobre, a concludere il focus Umbria e a chiudere l’edizione 2020 di Strabismi Festival, lo spettacolo Gianni, di Caroline Baglioni e Michelangelo Bellani. Il ritrovamento di cassette contenenti le registrazioni della voce dello zio di Caroline Baglioni, si fanno, in questo monologo, schegge di memoria da cui si dipana l’universale sofferenza dell’uomo.

Umbria
Gianni – Baglioni/Bellani

Qual è stato il percorso di costruzione drammaturgica e scenica avviatosi con l’ascolto delle tracce audio registrate da Gianni? 

Caroline Baglioni: Le tre audiocassette incise da Gianni alla metà degli anni ‘80 contengono, una “materia” drammaturgica potente. Si entra in contatto con l’intimità di una persona realmente vissuta, il suo disagio, l’isolamento, una voglia smisurata di vivere e comunicare al mondo un profondo desiderio di ascolto.

Ma c’è anche molto altro: la voce di Gianni, le sue lucide analisi, la sua autoironia, la musica che ascolta, i libri che legge, i commenti sulle situazioni di vita o le critiche dei film, ci fanno sentire il respiro di un’epoca e i contrasti di un’intera generazione. L’epoca è quella dei favolosi anni ’80 ovvero la splendida  promessa di un gigantesco spettacolo che durerà per sempre. I contrasti sono quelli dell’individuo che non riesce ad aderire ai modelli dominanti del paese dei balocchi, al successo imposto dagli eroi della carta patinata e del telecomando.     

Michelangelo Bellani: Quando hai la grazia di trovare una storia di questa forza e intensità, non è facile immaginare il modo di “tradurla” senza farle violenza. Il percorso drammaturgico, infatti, non è stato così immediato come la certezza che quella di Gianni sarebbe stata una grande avventura teatrale. Dovevamo infrangere un certo numero di Tabù. Primo fra tutti quello che la voce di Gianni non poteva essere violata. All’inizio, infatti, per noi si trattava soltanto di darle una cornice e lasciarla all’ascolto.

Ben presto però ci siamo resi conto che nessuna cornice, per quanto suggestiva e rifinita, poteva frapporsi alla sua intraducibile autenticità. Per cui abbiamo deciso di, letteralmente, dargli corpo e fare in modo che Caroline non raccontasse la storia di Gianni come accadrebbe in una classica narrazione, ma che incarnasse direttamente la voce di Gianni. Abbiamo quindi cercato di reinventare lo spazio classico del monologo permettendo a Caroline di far vivere le parole di Gianni, con tutte le imperfezioni presenti nelle incisioni, gli intercalari, il dialetto, i colpi di tosse, le infinite sigarette fumate.

Gianni è racconto biografico della fragilità umana che, in scena, si fa universale. Qual è il trait d’union tra l’interiorità di Gianni e il mondo fuori che troppo a lungo non ha saputo ascoltarlo ma che, oggi, si riconosce in lui?

CB: Quando si racconta una storia così intima e personale il rischio è sempre altissimo. Poiché l’intensità che si avverte in vicinanza, non è detto che rispecchi integralmente chi quella storia la riceve da estraneo. Ma come accennavamo sopra, Gianni non riflette solo il sé di un disagio personale, racconta qualcosa di ancora aperto e irrisolto da un punto di vista esistenziale. Quelli che ci pone sono interrogativi fondamentali in cui, almeno una volta nella vita, tutti ci siamo finiti dentro.

Non si tratta dell’esito tragico della vita di Gianni, ma di quel bisogno di umanità che spesso ci costringe a giudicare la profondità dei nostri sentimenti, delle nostre scelte, o semplicemente un leale confronto con i nostri desideri. Per questo, Gianni riesce a parlare ancora a molti di noi. Il suo dolore che è il dolore dei tanti emarginati, esclusi delle nostre iper-società, ci parla anche di una follia collettiva sulla quale spesso non troviamo il tempo di soffermarci abbastanza. 

Cosa vorremmo davvero di tutto quanto accade nelle nostre giornate? C’è una solitudine che non riguarda solo i depressi, i malati di mente, ma si annida nelle nostre case, nelle nostre cose, negli oggetti che compriamo e in cui spesso ci nascondiamo. Sta nel modo in cui creiamo il mondo.