Bianca come i finocchi in insalata. Intervista a Silvia Marchetti, direttrice artistica della Compagnia del Calzino

Bianca come i finocchi in insalata. Intervista a Silvia Marchetti, direttrice artistica della Compagnia del Calzino

In occasione della X edizione di Stazioni D’Emergenza al Teatro Galleria Toledo di Napoli, torna in scena il 15 e 16 Ottobre Bianca come i finocchi in insalata scritto e diretto da Silvia Marchetti e con in scena l’attore Andrea Ramosi.

INFO EVENTO 

Bianca, scialba maestra elementare, non più giovane, né ricca né bella, vive una passione tardiva con Antonino, il preside della scuola. Una improbabile rivincita amorosa che tra entusiasmi e farfalle nello stomaco sembra farla sentire di nuovo viva e felice. Una condizione che si rivela però ingannevole (l’amante latita, gli alunni le mancano di rispetto, il disagio la tormenta) sin dalle prime battute del testo. Bianca come i finocchi in insalata – messo in scena dalla Compagnia del Calzino e selezionato per il Torino Fringe Festival 2018 – è un divertente eppure tragico monologo sulla solitudine scritto e diretto da Silvia Marchetti e interpretato “en travesti” da Andrea Ramosi. Un testo che strizza l’occhio alle migliori pagine di Bennett, Cocteau, Ruccello. Un «dialogo di cui si sente solo una parte» lo definisce l’autrice: l’unica voce che si ascolta è infatti quella di Bianca, impegnata in un incessante quanto vano blaterare sulle mancanze dell’amante, sui torti subiti dalla famiglia, dagli alunni svogliati, dal mondo ostile. Strampalata e banale, confusa e dispotica, sottomessa e intransigente, materna e spietata, donna e non solo, Bianca «è saltuariamente docile e arrendevole ma capace di coltivare odio e risentimento che la corrodono dall’interno». Sempre sull’orlo di una crisi di nervi e dello sdoppiamento di personalità, è l’emblema degli abusi «che siamo capaci di infliggere a noi stessi e alla nostra natura, mediante rinunce, compromessi, appagamenti fasulli».

Abbiamo intervistato Silvia Marchetti, autrice e regista dell’opera, nonché direttrice artistica della Compagnia del Calzino.

Come nasce la Compagnia del Calzino e chi sono i suoi principali promotori?

La Compagnia del Calzino è nata col mio primo spettacolo da regista. Avevo 21 anni ed ero alla ricerca di un teatro fatto non di forme ma di sostanza, di messaggi semplici, veri, diretti e universali. Un giorno, nella provincia teatrale parmense – molto avanti e consapevole – che bazzicavo io, mi sono sentita dire “Oh, fi, ma fai teatvo senza scavpe? Ma secondo te?”. Io, che cercavo soluzione all’incomunicabilità umana e che ero cresciuta vedendo Beckett e Pirandello, ho capito che la MIA compagnia sarebbe stata esattamente quello: la Compagnia del Calzino. Niente di altisonante o pomposo, ma una cosa piccola, intima, vera, e indispensabile, capace di accomunare tutti.
Anni dopo ho incontrato Andrea Ramosi, con cui è nato il sodalizio artistico più profondo ch’io mai avessi potuto sperare, e dopo il diploma alla “Galante Garrone” abbiamo progettato di costituire una nostra piccola realtà indipendente attraverso la quale portare in scena solo ciò che ci sembrava indispensabile rappresentare. Ricordo quando gli ho detto di avere da anni nel cuore il progetto della Compagnia del Calzino, e lui ha risposto solo “Perfetto! Costituiamola!”.
Quindi la Compagnia del Calzino siamo fondamentalmente io e Andrea. Poi c’è mio marito Marco che ama definirsi “Capo della logistica” perché è lui che va a scaricare la macchina in magazzino quando rientriamo a notte fonda da qualche spettacolo; e mio padre, che Marco chiama “lo stagista” perché viene spesso coinvolto (e mai pagato, ovviamente) nei momenti più complicati e sempre all’ultimo minuto (“Papà, potresti costruirmi un confessionale per dopodomani?” Per la cronaca mio padre è un sistemista informatico… nulla a che vedere con il teatro). E poi ci sono le nostre mamme, che si occupano e preoccupano che restiamo sempre ben nutriti – come dimostrano foto di lasagne nei camerini “per riprendervi quando finite le prove”. E i tanti colleghi attori, che nel corso degli anni hanno preso parte, spesso con tutto il cuore, ai nostri progetti, dalla cara Alessandra Frabetti a Gabriele Tesauri a Davide Pedrini (per citarne solo alcuni).

Bianca, la genesi di questo testo e la tua linea registica

“Bianca” è nato quasi di colpo. Abbiamo lavorato per diversi anni su testi di autori contemporanei che trattavano della condizione dell’uomo moderno, tra solitudine, emarginazione, incomunicabilità e smarrimento esistenziale, sfiorando spesso il tema dell’identità sessuale. Lo abbiamo fatto sempre con leggerezza e ironia, componenti imprescindibili del nostro lavoro. Sentivamo tuttavia di non essere ancora riusciti a dire esattamente ciò che volevamo; non trovavamo il testo “giusto”, che avesse tutto, che riuscisse a essere profondo e disperato e allo stesso tempo divertente e dissacrante. Così ho detto “lo scrivo io” e in una settimana avevamo il testo. Ricordo che la sera prima di presentarlo ad Andrea l’ho letto a mio marito. Lui è rimasto zitto, poi mi ha guardata e mi ha detto “stai scherzando, vero? Non puoi mettere in scena una roba del genere”. Bianca è un testo crudo, violento, schietto, scorretto. Andrea piangeva dal ridere mentre lo leggevamo insieme. Era perfettamente… nostro.

Che esigenza ti ha spinto a scrivere Bianca come i finocchi in insalata?

Quando ho scritto “Bianca come i finocchi in insalata” sentivo fortissima l’urgenza di parlare di negazione di sé; e la negazione della propria sessualità ne era, a mio avviso, la rappresentazione più forte e disperata, il rifiuto del proprio essere più intimo in quanto centrato proprio là dove carne e anima si fondono. Negare sé stessi significa annientare tutto di sé, nel tentativo di trasformarsi in un’aberrazione socialmente più accettabile, amabile. Per me Bianca non è la storia di un travestito in senso stretto, bensì il fantoccio di tutti i nostri travestitismi e le nostre maschere, e nello stesso tempo lo specchio delle disperazioni dell’uomo contemporaneo. Bianca travalica i confini delle tematiche LGBTQ per diventare ognuno di noi, cercando di trasmetterne la profonda universalità e la bigotta e incomprensibile ipocrisia che ci costringe ancora a dover lottare (e, solo per ricordarlo, morire) per poter essere ciò che siamo davvero. In qualunque ambito!

Cosa vorresti che ogni singolo spettatore portasse a casa dopo aver visto questo lavoro?

Io ho dedicato Bianca alle mie tre bimbe, perché vorrei per loro che avessero il coraggio di essere sé stesse. Ogni volta che Bianca approda in un nuovo teatro, io mi sento grata e onorata di potermi confrontare e poter parlare delle mille Maestre Bianca che abitano, in forme anche molto differenti, in ognuno di noi; e allo stesso tempo di riuscire a sentirci tutti uniti nello stesso dolore e nella stessa risata, farci sentire che non siamo soli nella stessa lotta (quant’anche abbia forme magari differenti), e che abbiamo tutti lo stesso sangue. Soprattutto in un momento come questo, caratterizzato spesso da ignoranza e demagogia, da rifiuti e slogan propagandistici che esauriscono immediatamente il loro valore, da conquiste sudate quanto precarie, da una millantata libertà che assomiglia incredibilmente a conformismo travestito.

Un aneddoto simpatico durante il processo creativo con l’attore e protagonista della pièce Andrea Ramosi?

Alcune cose non possiamo rivelarle: il testo, come dicevo, è molto nostro e in esso ci sono nascosti suggestioni, fatti, persone, incontri e scontri che abbiamo fatto in questi quasi 10 anni insieme (tra l’altro abbiamo attraversato anche noi la crisi del settimo anno ma per fortuna siamo ancora qua).
Ciò che posso dire è che Andrea ha delle gambe stratosferiche, che ha spezzato molti cuori nel corso dei 55 minuti di spettacolo (Bianca/Andrea sembra davvero una donna con poche tette e un gran bel posteriore) e che cammina sui tacchi meglio dei due terzi delle donne che conosco (si sarebbe sotterrato quando l’ho trascinato per negozi per provare e comprare prima i mitici “stivaletti tronchetto” della maestra Bianca e poi il corpetto intimo in pizzo color carne: “Silvia, mi raccomando, dì che è per te!”… Vi lascio immaginare il resto, sempre nella meravigliosa e “avantissima” provincia emiliana)

Progetti futuri?

Tanti, tantissimi a dire il vero. Sicuramente oggi come oggi vorremmo che Bianca potesse girare sempre di più e confrontarsi con un pubblico sempre più vasto. Nel frattempo però stiamo iniziando a lavorare a due nuove produzioni. Ad oggi non sono abbastanza concrete da poterne parlare, ma stanno maturando pian piano in noi, e sono sicura che prestissimo sconvolgerò nuovamente mio marito con una nuovo testo.

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