Intervista alla coreografa Floor Robert per Influenza di InQuanto Teatro

Intervista alla coreografa Floor Robert per Influenza di InQuanto Teatro

Nel prestigioso ambito di Romaeuropa Festival, il 3 Novembre 2017, andrà in scena presso il MACRO Testaccio – La Pelanda in Roma, INFLUENZA, opera prima della coreografa olandese Floor Robert per il collettivo fiorentino InQuanto Teatro. Finalista al concorso DNA – Appunti coreografici 2015 del Festival Romaeuropa e vincitore del bando SIAE – Sillumina, dedicato alle compagnie under 35, il progetto ha già ottenuto il sostegno di grandi realtà teatrali italiane. Concepita dall’estro di Floor Robert, INFLUENZA è una fuga indietro nel tempo, nella memoria e nella fantasia in cui le suggestioni del passato si materializzano sulla scena inseguendo le immagini che ci legano al mondo dei sogni, linguaggio universale – come la danza – di cui gli interpreti Francesco Michele Laterza e Giacomo Bogani sono l’espressione più vivida. Abbiamo parlato con Floor per approfondire il lavoro e la storia passata del collettivo inQuanto Teatro e per cogliere gli aspetti più intimi di questa nuova produzione.

Fotografia di Guido Mencari | www.gmencari.com

Come e con quali ambizioni è nato inQuanto Teatro?

inQuanto teatro nasce dal desiderio comune, mio, di Andrea Falcone e di Giacomo Bogani, di fare teatro. Si, eravamo presi semplicemente dalla stessa passione. Amavamo il teatro, nella sua forma più ampia, dalla rappresentazione spettacolare sul palco, alla sua funzione più sociale. Avevamo questa esigenza di comunicare ad un pubblico, per capire meglio il mondo che ci circondava e abbiamo messo alla prova la nostra amicizia diventando un collettivo. Pur essendo affascinati dai grandi classici del passato siamo partiti con quella sana presunzione di fare un teatro contemporaneo, mai visto, ma pieno di riferimenti storici.

Con un fortissimo bisogno di fare ci siamo buttati e nel 2010 è nato ufficialmente inQuanto teatro in occasione dell’edizione di Premio Scenario Infanzia in cui il nostro spettacolo Il gioco di Adamo è risultato finalista, mentre l’anno successivo abbiamo partecipato a Premio Scenario con il progetto Nil Admirari che ha ricevuto la Menzione Speciale della Giuria. Fin dal inizio abbiamo cercato di unire linguaggi molto differenti, soprattutto perché venivamo tutti e tre da percorsi completamente diversi e per abbracciare queste diversità la nostra mentalità doveva rimanere aperta. Negli anni abbiamo sempre cercato di collaborare con artisti esterni e ci siamo spesso anche allontanati dalla scatola nera.

Le nostre ambizioni nel tempo sono molto cambiate. C’è chi di noi ha intrapreso un percorso di studio autonomo più articolato allontanandosi per un po’, per poi tornare ad arricchire la compagnia. Da vari anni insegniamo in diversi ambiti, nelle scuole pubbliche e in laboratori privati. Realizziamo progetti che prevedono la partecipazione degli abitanti della nostra città, e ci siamo trovati di fronte a persone di tutte le età fortificando il nostro rapporto sul territorio.

Quali sono stati i momenti fondamentali della vostra sperimentazione artistica?

Direi che dal momento che abbiamo deciso di radicarci nella nostra città, il lavoro è diventato quotidiano, molto vivace. Un lavoro che cerca di rispondere alla realtà circostante e alle esigenze del momento. I nostri progetti, i nostri laboratori registrano una grande adesione, tante persone sentono il bisogno e hanno voglia di “fare teatro” o come piace dire a me “imparare a sapersi esprimere”. A ben guardare questa spinta diventa un’azione politica, perché la comunità ne ha così tanto bisogno. Come d’altronde è sempre stato, siamo tutti fruitori attivi e partecipi dell’avvenire.

E abbiamo tutti bisogno di dare una forma a qualcosa e di far sentire la propria voce. Questa libertà d’espressione individuale sta diventando sempre più rara, e complessa. Ci sono sempre più fattori esterni che disturbano questo richiamo primordiale che appartiene all’essere umano e bisogna insistere, per pretendere un posto.

Un altro momento fondamentale è stato quando ci siamo allontanati dall’idea della regia collettiva ed ognuno di noi ha capito meglio il proprio ruolo. All’inizio tutti facevano tutto! Dalla regia al montaggio delle luci. E tante energie si sprecavano. Ci abbiamo messo un po’ a capire dove ognuno di noi poteva dare il meglio, e tutt’oggi continuiamo ad aggiustare la nostra modalità di lavoro così che ognuno possa dare il meglio di sé.

Arte nella sfera pubblica: dal 2014 il gruppo è impegnato nell’opera di ricerca sulla memoria condivisa. Come avete concepito e realizzato lavori basati sull’interazione e il dialogo con la cittadinanza?

Per questi progetti siamo letteralmente scesi in strada con i nostri blok notes, i nostri microfoni e videocamere e abbiamo iniziato a fare domande. Domande preparate, domande giocose, domande a cui chiunque poteva rispondere se ne aveva voglia. Siamo entrati in punta di piedi nelle vite degli altri, e questo ovviamente ha arricchito il nostro lavoro e abbiamo imparato molto anche da un punto di vista umano. Abbiamo fatto un grande patchwork con tutto il materiale raccolto, dalle registrazioni audio a quelle visive.

Le performance e gli incontri finali che ne sono nati erano molto di più di una semplice restituzione del progetto; a volte erano delle installazioni visive, a volte degli spettacoli itineranti, altre volte erano salotti urbani dove parlare insieme, delle feste, dei ritrovi dove lavorare e passare del tempo con gli altri, disegnando, e scrivendo liberamente commenti, aneddoti e memorie sulla città. Con MAPS, per esempio, un progetto realizzato nel 2015 per Estate Fiorentina, la rassegna di eventi culturali e di spettacoli del Comune di Firenze, le suggestioni, le immagini e le parole raccolte sono diventate parte di un testo originale che ha accompagnato una performance urbana.

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Nei vostri lavori tornano spesso idee legate alla storia, ai ricordi, alla memoria. In che modo il tema del passato si inserisce nella ricerca estetica e poetica del collettivo?

La storia, i ricordi, la memoria sono temi che ci hanno sempre affascinato sin da quando abbiamo iniziato a lavorare insieme. Credo che chiunque che si presenti sulla scena si interroghi sull’epoca storica in cui vive, perché stare nella rappresentazione, essere interprete e al servizio dell’opera stessa è una condizione che ti fa vivere fuori dal tempo.
La dimensione “tempo” è stato uno degli elementi centrali dei nostri spettacoli da sempre. In alcuni di essi abbiamo fatto dei veri e propri viaggi nel passato, in altri ci siamo divertiti a proiettarci nel futuro.

Ci interessa tutto quello che non ci faceva stare nel presente. Proprio per dare un senso diverso, a questo presente, che è sfuggente. Il presente non ci appare chiaro, è pieno di imbrogli, difficile da afferrare. Così ci prendiamo la libertà di sognare e evadere, proponendo lavori che sono intrecci di storie, trame e brandelli di un altro tempo. Le immagini che proponiamo in scena provengono dal passato, soprattutto dalla storia dell’arte poiché è una materia che fa parte di noi, che abbiamo studiato a lungo.

Io personalmente sono molto legata al passato. Vengo da una famiglia di artisti, non vivo più nel mio paese natale da più di 15 anni. E sento di portare con me tanti valori che provengono dai miei nonni e bisnonni.

Influenza è una fuga indietro nel tempo, nella memoria e nella fantasia per scandagliare i ricordi dell’infanzia: quali prospettive di indagine vengono privilegiate in questa opera?

Più che scandagliare i ricordi dell’infanzia, che possono essere così personali e segreti, in questo lavoro chiedo semplicemente allo spettatore di abbandonare lo sguardo e di farsi trasportare dalle emozioni. Di non cercare significati, preconcetti o altre narrazioni, se non la propria interpretazione. Per me il lavoro proviene dall’infanzia, mi interessa una capacità di stare sulla scena priva di tecniche, trasparente e leggera. Senza sovrastrutture, esercizi di stile, maniera o bravure. È come inseguire qualche ricordo dell’infanzia, si. Ma non è così fondamentale che anche lo spettatore faccia questo viaggio indietro nel tempo. A me interessa di più che possa apprezzare qualcosa che assomiglia ad un sogno, un sogno dolce, collettivo, surreale e a tratti inquietante. Che possa sorprendersi e alleggerire il cuore.

A partire dalla tua capacità di immaginare e disegnare la danza, le figure in movimento, l’uomo in azione, quali sono stati i tempi e le modalità di produzione di INFLUENZA?

Per fare Influenza ci ho messo un po’. È un lavoro nato nel tempo perso, fuori dai tempi di produzione. Prima di tutto è stata necessaria una lunga ricerca personale, dove testavo come muovermi sulla scena e come incarnare e dare forma a quella sensazione che volevo dare. Ho cercato una dolcezza e una posatezza dentro di me che corrispondeva al primo impulso che avevo avuto. Da questa è nata un’immagine, una visione, e per capirla meglio, l’ho portata sulla carta. Successivamente ho pensato come realizzarla, quali materiali fossero adatti e sono arrivati i palloncini.

Ovviamente di quella prima immagine è rimasto poco, solo l’essenza.Anche se disegnare la danza e farla sono due cose completamente diverse, mi piace unirle. Spesso si dice che il danzatore si muove come un pennello sulla tela, e per me è così. Si compattano anima e corpo, interiore e esteriore si sfidano. Linee si muovono, qualcosa prende forma.

Tra uno e centomila…C’è nessuno. Intervista a Gioacchino Cappelli

Tra uno e centomila…C’è nessuno. Intervista a Gioacchino Cappelli

C'è nessuno

L’intervista con Gioacchino Cappelli inizia con la descrizione di un ambiente, come un set cinematografico. Il caldo torrido di Catania, l’aria del mare, i balconi chiusi che non lasciano passare la luce. “Casa di Dracula”, la definisce così,  lui che è l’autore, il regista e uno dei tre interpreti – insieme con Salvatore Tornitore e Sebastiano Sicurezza – di C’è nessuno.

Presentato al Centro di culture contemporanee Zo di Catania, lo spettacolo, prodotto dalla Mandara Ke Teatro con il contributo della S.I.A.E. all’interno del bando “ Per chi chi crea”, ha suscitato interesse tra i giovani e gli adulti che hanno potuto vedere in quale mondo agiscono e vivono i loro ragazzi. Una realtà che spesso sfugge alla comprensione di genitori ed insegnanti e che è emersa anche per il costretto isolamento determinato dalla pandemia.

Gioacchino Cappelli è figlio d’arte, di Marcello e Lucia Sardo. Si è trovato nella direzione del Teatro incontrandolo per la prima volta a un anno. Sua madre gli ripeteva spesso: «Un francese che vive in Italia parlerà sempre il francese. Tu sei nato a Teatro, la lingua la conosci, non hai bisogno di impararla».

Cappelli ha anche aggiunto: «Io sono sempre stato dietro ai miei genitori. Ho iniziato da piccolo, a sei anni, sul camioncino, con il teatro di strada. Facevo la pubblicità degli spettacoli serali e suonavo il tamburello. L’attività era iniziata ancora prima che io nascessi. I miei primi lavori in assoluto sono stati televisivi. Per quanto riguarda la drammaturgia questa è la prima volta che io tocco con mano la scrittura teatrale e sono stato affiancato in questa esperienza da una drammaturga, Elena Grimaldi, siciliana di Messina che ha studiato all’Accademia Silvio D’Amico di Roma».

Come è nato C’è nessuno, qual è stato il processo creativo e di realizzazione dello spettacolo?

C’è nessuno ha avuto origine cinque anni fa, un progetto concepito come una critica sociale mossa nei confronti dei social network. Contro quella che abbiamo chiamato la “nuova socialità”, la quale spinge sempre di più a rinchiuderci nell’immagine di un profilo, dell’avatar come essere reale, come una rappresentazione del sé e non come effettivamente siamo.

Lo spettacolo all’inizio era nato dall’idea di svelare l’inquietudine che c’era dietro la felicità di condividere ogni cosa. Dopodiché sono trascorsi degli anni, ho vissuto un’esperienza di reclusione, durata un anno, durante la quale ho fatto amicizia, ho legato con un ragazzo di Mantova che era diventato il mio migliore amico. Per uno scherzo del destino lui era uno che odiava i social: per un anno non l’ho mai visto, non ho mai saputo che faccia avesse perché non aveva Facebook, non aveva Instagram non ci siamo mandati una foto, parlavamo soltanto.

Al termine di questa esperienza, ho realizzato di voler cambiare il progetto. C’è nessuno racconta di due ragazzi che vivono in città diverse, diventano amici, ma non si conoscono. Il titolo è rimasto, suggerisce che c’è la condivisione ma c’è anche tanta solitudine. In scena ci sono dunque due ragazzi vicini emotivamente, ma contemporaneamente lontani perché sono in due stanze diverse. Successivamente lo spettacolo ha avuto un’altra trasformazione perché all’inizio volevo parlare soltanto del mondo dei videogiochi e della classe sociale dei giocatori. Con la pandemia siamo diventati tutti videogiocatori e almeno ci siamo dovuti confrontare con la realtà del computer, chi più chi meno. Durante il lockdown ho riscritto la drammaturgia perché nel frattempo era cambiato il mondo attorno a noi e dunque il testo si basa su una mia condizione reale.

Quali cambiamenti ci sono stati nella drammaturgia, nell’allestimento dello spettacolo e cosa li ha resi necessari?

La regia è molto complessa, non ho voluto adottare un livello che influisse sugli attori. I testi sono stati scritti durante fasi di improvvisazione in sala basati su argomenti legati allo spettacolo, all’idea di drammaturgia. Generalmente io prima scrivo il soggetto, poi andiamo in sala con gli attori e la drammaturga, presentiamo dei temi di improvvisazione, registriamo tutto, estrapoliamo e uniamo tra loro i materiali emersi durante le improvvisazioni e creiamo così le scene.

La regia è molto unita alla drammaturgia ed è sempre stata in continua evoluzione. Il lavoro registico che oggi c’è nello spettacolo è stato realizzato praticamente negli ultimi sette giorni prima di andare in scena, si tratta di rifiniture. Per me l’attore è il regista di sé stesso e il drammaturgo è il creatore di tutto quello che contribuisce a definire il sapore dei personaggi, dei monologhi e dei dialoghi.

La scenografia non è cambiata, consiste in tre pannelli bianchi che formano una stanza, un ambiente chiuso tutto il resto consiste in contributi digitali che esplorano e disegnano immagini: dalla stanza ai videogiochi, all’universo. Giochiamo con materiali reali, con proiezioni e con le luci.

Nella locandina c’è una visiera da realtà virtuale con lo slogan Born to kill. Cosa c’è dietro la scelta di quella frase/citazione?

Quando spiego alle persone chi è un videogiocatore, un ragazzo che trascorre quattordici ore davanti a un videogioco, mi piace fare un parallelismo con la guerra, con lo stare “in trincea”. Ho conosciuto un ragazzo che faceva il tiratore, il cecchino, mi ha raccontato che rimaneva fino a sedici ore fermo, immobile. Doveva usare addirittura il catetere, perché non si poteva spostare, non doveva farsi vedere.

Una cosa molto simile può succedere a un ragazzino di 16 anni davanti al computer, in un gioco di guerra, quando spende quattordici ore senza espletare i suoi bisogni fisiologici. I nostri occhi lavorano grazie al nostro cervello; attraverso l’intelligenza filtriamo ciò che è vero e lo separiamo da ciò che non lo è, anche se rimane sempre una percentuale di incoscienza del nostro cervello, un residuo di subcoscienza.
Un ragazzino che trascorre mezza giornata a giocare, sa benissimo cosa significa fare la guerra, riesce a immagazzinare e a capire anche l’angoscia di che cosa vuole dire essere soldati. 

Durante lo spettacolo e faccio un parallelismo con Moloch di Metropolis, in particolare la scena in cui gli operai vengono fatti entrare nella bocca del Moloch scortati dai soldati e accompagnati dagli uomini con le fruste. Anche noi entriamo dentro quella macchina, per nostra volontà. Come giocatori, come soldati, come nuova classe sociale che si va a immolare per la ricerca, per il “nuovo che avanza”, per il futuro. 

Ho voluto creare questo parallelismo tra giocatore e soldato, tra lo stare da soli in una stanza e andare in guerra. Volevo addirittura inserire la lettera di un militare, letta da uno dei due ragazzi davanti al computer, che recitava: «Mamma mi manchi. Non ti vedo da una settimana, sono qui chiuso al buio, sento solo le bombe».
Una situazione che potrebbe vivere un ragazzino giocando al computer, ma anche ognuno di noi che siamo diventati i nuovi soldati del potere. Ho messo in una copertina questa frase: «In guerra non per gioco, in trincea non davvero». Una suggestione ripresa da Full Metal Jacket. Nati per uccidere è come ci si sente quando si inizia a giocare e si è pronti a tutto.

Emerge il tema della solitudine che è una condizione che riguarda tutti, giovani, adulti, anziani. Attraverso la tecnologia, durante la pandemia, ritieni che sia stato possibile trovare un rifugio, sperimentare un’alternativa con la tecnologia alla solitudine fisica oppure pensi che sia aumentato maggiormente il disagio le problematiche psicologiche che erano preesistenti?

Sono sicuro che se oggi, a causa del Coronavirus, siamo arrivati a vivere tutto quello che abbiamo vissuto è perché già eravamo pronti. Non avrebbero chiuso se non ci fosse stata la presenza e l’influenza del computer che ci ha permesso di continuare a lavorare, di andare a scuola, di allenarci da casa.

Secondo me questo nuovo utilizzo della tecnologia non è stato dettato dal virus, ma semplicemente era già esistente. È molto difficile che la tecnologia possa risolverci delle cose, più che altro penso che ci avviciniamo sempre di più a dimenticare i luoghi della nostra città. Questo è quello che più mi spaventa di più: ritornare nei luoghi della mia infanzia che erano pieni di ragazzi e vederli vuoti adesso. Era già un processo che si stava avviando inevitabilmente prima della pandemia, adesso penso che abbia subito solo un’accelerazione
Per quanto riguarda il mio gruppo di lavoro, rilevo che la tecnologia ha evitato un ulteriore ritardo di un anno circa, in quanto un attore stava a Milano e un altro non abitava a Catania. Per parlarci e per lavorare abbiamo usato Skype, via internet abbiamo creato il nostro spettacolo. Il problema non è internet, ma è come la società sta affrontando questo cambiamento.

Un ragazzino italiano che usa a internet vede un mondo che è molto distante e diverso. La cosa che più mi preoccupa è che da noi non esistono quei ponti che fanno tornare alla realtà. Un appassionato di videogiochi in Inghilterra, per esempio, potrà, prima o poi, avvicinarsi alle case produttrici e potrà provare a lavorarci. In Italia non esistono realtà che utilizzano i videogiochi anche come lavoro. A differenza di altri stati c’è invece un gap, una distanza tra il mondo reale e quello virtuale, si percepisce molto di più. Secondo me dovremmo lavorare su questo, dovremmo creare un ponte per il mondo virtuale non il contrario.  

La casa è la rappresentazione, la proiezione del sé in psicoanalisi. Come abita questo spazio, ridotto in una camera, un ragazzo medio del post pandemia?

Molti mi hanno chiesto come far uscire i ragazzi dalle loro stanze. Io ho risposto che l’unica cosa da fare è entrare nelle loro camere. Se questi ragazzi si chiudono dentro, il motivo è che non sono ascoltati. Tirarli fuori dal loro guscio di protezione non li aiuta. Bisogna entrare là dentro e capire. Bisogna allargare lo spazio partendo da loro, non partendo da noi. Il mondo sta diventando sempre più piccolo: dalla stanza allo schermo, al cellulare. A un certo punto ci si dimentica addirittura della camera come ambiente, è solo il computer che non si deve bloccare, bisogna fare le pulizie di memoria, deve essere efficiente, funzionante, abitabile.

La prima idea del mio spettacolo voleva essere una denuncia: i bambini che non frequentano più i parchi, i ragazzini che non vanno a prendersi la birra di nascosto dai genitori. Noi parliamo tanto del futuro quanto del passato perché sono due dimensioni che non devono mai essere viste separatamente. Sembra che viviamo in questa condizione tecnologica da un’infinità di tempo, però non è così. È da meno di venti anni. Quaranta, cinquanta anni fa esisteva un altro mondo, un’altra realtà. 
Uno dei due personaggi nel mio spettacolo dice palesemente che non vuole crescere. Andare avanti è una paura, non lo galvanizza. Al contrario lui trova tutti i motivi per non uscire di casa. Una delle frasi dello spettacolo ripetuta più volte è: «Se là fuori è un’illusione, tanto vale crearsi la propria realtà».

Per ritornare al discorso dei ponti con la realtà io mi chiedo: dov’è il lavoro? Che scuole hanno i ragazzi? A me la scuola ha creato tutti gli scompensi di cui parlo nello spettacolo. Qual è il vero problema? La punta dell’iceberg o la parte di esso che non è emersa? Qual è il problema, un gesto estremo o il fatto che chi lo compie è uno che è socialmente escluso? Siamo nell’era dell’avatar, di quello che appare, però ci dimentichiamo sempre ciò che c’è dietro un’azione, un simbolo, una parola, un silenzio. I ragazzi fanno tanto rumore con i loro silenzi, quando si chiudono in camera e sembra che noi non li vogliamo ascoltare quando diamo la colpa alla pandemia, ai videogiochi, a tempo che non siamo riusciti a dedicare loro.

Allarme della Siae: eventi diminuiti del 69,29%, gli ingressi in calo del 72,90%

Allarme della Siae: eventi diminuiti del 69,29%, gli ingressi in calo del 72,90%

Dopo aver anticipato i dati sull’andamento dello spettacolo in Italia nel primo semestre dello scorso anno, l’Osservatorio dello Spettacolo SIAE pubblica le cifre relative ai dodici mesi del 2020

La crisi pandemica ha messo a dura prova l’intero settore dello spettacolo nell’anno che ci siamo lasciati alle spalle. I primi dati dell’Osservatorio dello Spettacolo SIAE relativi a tutto il 2020 confermano sostanzialmente le tendenze emerse dalle cifre relative al periodo da gennaio a giugno dell’anno scorso, che erano state pubblicate nel mese di novembre: complessivamente gli eventi sono diminuiti del 69,29%, gli ingressi hanno segnato un calo del 72,90%, la spesa al botteghino è scesa del 77,58% mentre la spesa del pubblico ha avuto una riduzione dell’82,24%.

Eppure nei primi due mesi del 2020, quando ancora non era scattata l’emergenza sanitaria, non solo gli eventi spettacolistici erano cresciuti rispetto all’anno precedente del 3,38%, ma si era registrato un aumento degli ingressi del 15,49% grazie ad una grande partecipazione del pubblico, disposto a spendere più di quanto avesse fatto nello stesso periodo dell’anno precedente (+17,23%). Nel periodo dal 1° gennaio al 22 febbraio 2020 hanno riportato il più alto incremento in termini di eventi le mostre (+ 9,51%) ed il cinema (+6,75%), grazie anche all’uscita in sala del film “Tolo Tolo”. I concerti, invece, hanno registrato una timida crescita in termini di offerta (+1,21%) ma un forte incremento della spesa al botteghino (+26,54%).

A seguito dell’emergenza Coronavirus, da marzo 2020 sono stati chiusi al pubblico tutti i luoghi della cultura e sono stati annullati gli spettacoli di qualsiasi natura, inclusi quelli teatrali e cinematografici. Solo a partire dal mese di maggio sono stati riaperti, a determinate condizioni, i musei e gli altri luoghi della cultura e da giugno 2020 è stato possibile lo svolgimento di spettacoli in sale teatrali, sale da concerto, cinema e in altri spazi, sebbene con una diminuzione della capienza massima. Tuttavia a ottobre 2020, in considerazione dell’andamento dell’epidemia e dell’incremento dei casi sul territorio nazionale, sono state nuovamente introdotte, progressivamente, le stesse limitazioni disposte nei primi mesi dell’anno. Tutto ciò ha determinato gravi perdite per il settore dello spettacolo con pesanti ricadute anche sui livelli occupazionali.

Il 2020, dunque, in termini spettacolistici è un anno impropriamente detto poiché, rispetto al 2019, le giornate sono diminuite del 67%. Durante la ripresa estiva (dal 15 giugno al 25 ottobre), il numero di giornate è pari al 51,9% dello stesso periodo dello scorso anno, segnale che non tutte le attività hanno comunque riaperto le porte dopo il lockdown: nel 2020 sono stati solo 46.724 i locali che hanno organizzato almeno un evento a fronte dei 94.687 del 2019. Nonostante ciò, le riaperture del periodo estivo hanno fatto registrare una repentina risposta in termini di offerta spettacolistica, con un picco massimo degli ingressi nel mese di agosto (6.837.576). Tuttavia agli inizi del mese di settembre alla resistenza dei gestori, che ha fatto mantenere il dato degli eventi in crescita, non ha fatto seguito la stessa reazione da parte del pubblico, con una flessione degli ingressi.

Analizzando i singoli comparti, l’attività cinematografica ha registrato una diminuzione del 70,86% degli ingressi e, parallelamente, un calo della spesa al botteghino del 71,55%. Da sottolineare che nel primo bimestre del 2020 l’attività cinematografica era in crescita rispetto all’anno precedente grazie soprattutto al successo del film di Checco Zalone “Tolo Tolo”, che con più di 7.000.000 di spettatori aveva mantenuto alti gli incassi in sala. Il periodo estivo, inoltre, ha segnato una ripresa dell’attività cinematografica che, seguendo il trend generale, è diminuita solo dal mese di ottobre.

Andamento analogo per le cifre dell’attività teatrale che ha perso il 70,71% degli ingressi rispetto al 2019 e ha riportato una riduzione del 78,45% della spesa al botteghino. Insieme al teatro, la musica è la forma artistica che forse più di ogni altra trova la sua ragion d’essere nella presenza. Ancora più consistenti sono infatti le perdite per il settore dei concerti, con una contrazione dell’83,19% degli ingressi a cui corrisponde un crollo dell’89,32% della spesa al botteghino.

La crisi provocata dalla pandemia ha travolto anche lo sport che, a partire da marzo 2020, ha visto la sospensione di eventi e competizioni di ogni ordine e disciplina e successivamente una ripresa graduale delle attività, anche se quasi sempre senza la presenza del pubblico. Di conseguenza, gli ingressi si sono ridotti del 77,50% mentre la spesa al botteghino è diminuita dell’83,96% rispetto al 2019.

Crisi profonda anche per le attività di ballo e concertini a causa dell’emergenza Coronavirus che ha cambiato molto gli stili di vita e le abitudini. Nel 2020 gli ingressi si sono ridotti del 78,53% con la spesa al botteghino che è diminuita del 78,03%.

Gli effetti negativi conseguenti all’adozione delle misure di contenimento del Covid-19 si sono fatti sentire anche nel settore delle attrazioni dello spettacolo viaggiante, sebbene in misura più contenuta: -58,75% per gli ingressi e -60,74% per la spesa al botteghino.

Un anno da dimenticare per mostre ed esposizioni, una delle filiere più colpite dalla pandemia, con una riduzione del 77,90% degli ingressi e del 76,70% della spesa al botteghino. Stessa sorte per le attività con pluralità di generi, con gli ingressi a -66,85% e la spesa al botteghino ridotta del 77,07% rispetto all’anno precedente.

“La crisi epocale determinata dall’emergenza sanitaria e dalle conseguenti misure per contrastarla sta facendo pagare un prezzo altissimo al settore dello spettacolo, di cui fanno parte quei creatori di felicità per la nostra collettività che sono i compositori e gli artisti della musica, del cinema, del teatro e della letteratura nonché i lavoratori che ne supportano l’attività – ha dichiarato il Presidente SIAE, Giulio Rapetti Mogol – La diffusione della cultura è essenziale non solo per l’economia italiana ma per la stessa qualità della vita e per questo rappresenta qualcosa di più di uno dei tanti settori da salvare nell’attuale situazione”.

“In un periodo in cui stiamo combattendo una battaglia durissima contro un nemico invisibile i nostri dati somigliano ad un vero e proprio bollettino di guerra. È importante capire anche quali conseguenze lascerà questa lunga e difficile fase sulle abitudini delle persone quando sarà possibile tornare alla normalità. Come Società Italiana degli Autori ed Editori è nostro preciso dovere assicurare che venga fatto tutto il possibile affinché il patrimonio artistico e culturale, che contribuisce sensibilmente alla crescita economica del nostro Paese, riceva la giusta attenzione in termini di strategie, programmazione e sostegno finanziario, per poter ripartire e riprendere il suo sentiero di crescita”, ha commentato il Direttore Generale SIAE, Gaetano Blandini.

La regolamentazione della formazione coreutica. Intervista ad Amalia Salzano, Presidente AIDAF

La regolamentazione della formazione coreutica. Intervista ad Amalia Salzano, Presidente AIDAF

Per chiunque si affacci, in diverse età anagrafiche e in diversi contesti alla formazione coreutica in Italia, c’è sempre un momento di presa di coscienza della confusione che da troppo tempo alberga in questo settore. 

Se è vero che con l’emergenza sanitaria, tutti i settori hanno conosciuto tragicamente la crisi con conseguenti misure governative per contrastarla, è anche vero che il settore della formazione artistica che riguarda la danza, in Italia, ha dovuto fare i conti – ancora una volta – con la mancanza di un quadro normativo limpido che riconosca le scuole di danza private e, quindi, in grado di tutelarle. 

Amalia Salzano è una coreografa e docente di danza jazz (discepola di Matt Mattox da cui ha ricevuto l’autorizzazione formale per insegnare la sua tecnica a livello professionale) ed è la Presidente di AIDAF, Associazione Italiana Danza Attività di Formazione all’interno di Agis Federvivo

Con il decreto del Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo n. 487 del 29 ottobre 2020, che assegna 10 milioni di euro a sostegno delle scuole di danza private, a valere sul Fondo emergenza spettacolo, introdotto dal decreto noto come “Cura Italia”, il settore della formazione coreutica in Italia ha assistito a un riconoscimento epocale, una svolta storica che abbiamo avuto modo di analizzare con Amalia Salzano, che in questa intervista chiarisce i futuri obiettivi dell’AIDAF

Prima di addentrarci nelle vittorie di AIDAF vorrei parlare della sua storia. Cosa è AIDAF e qual è la sua missione?

AIDAF è un’associazione nazionale di categoria all’interno dell’AGIS, che si occupa della tutela della formazione della danza privata. La sua mission, che costituisce il cuore di tutta la sua azione, è la tutela e la valorizzazione intesa come qualificazione della professione di insegnante di danza, il riordino delle scuole private di danza e la diffusione della cultura della danza. In questi anni di lavoro, abbiamo affrontato con le istituzioni tutte le problematiche relative a questo settore. Nel mio caso si tratta di circa 21 anni di esperienza all’interno di AIDAF durante i quali sono entrata in dialogo con le istituzioni per rivendicare le necessità, divenute sempre più improrogabili, dell’intero settore che sta alla base della filiera del sistema danza.

Necessità che si sono acuite con l’avanzare della pandemia e le sue conseguenze. 

La pandemia naturalmente ha accelerato il nostro lavoro di rappresentanza perché con il primo lockdown e le conseguenti chiusure sono emerse esigenze di primaria importanza. Purtroppo  un settore così  frastagliato e frammentato era anche  difficilmente riconoscibile come categoria da sostenere. AIDAF si è messa subito al lavoro instaurando rapporti serratissimi con le istituzioni, in primis con Mibact e parlamentari. Mai come ora si sono evidenziati i gravi problemi del settore. 

Il riconoscimento delle scuole di danza private è un passo molto importante. 

Il contributo riconosciuto alle scuole di danza con il decreto firmato dal Ministro Franceschini è un avvenimento epocale. Il settore della formazione privata della danza non è individuabile in un’unica categoria anche sotto il profilo dell’inquadramento giuridico-fiscale. Proprio per questo, a un certo punto, noi abbiamo concentrato le nostre forze sulle scuole di danza non afferenti allo sport, che non sono né A.S.D. (associazioni sportive dilettantistiche) né S.S.D (società sportive dilettantistiche). 

Questo non per una sorta di discriminazione, ma perché le scuole afferenti allo sport avevano potuto usufruire dei vari benefici messi giustamente a disposizione dal Ministero dello Sport. Benefici, questi ultimi, mirati a tutto lo sport dilettantistico configurato in ASD o SSD. Invece tutte le scuole che, per ragioni etiche e ideologiche, non hanno mai voluto riconoscersi come A.S.D. o S.S.D.r.l., e che pertanto si sono configurate nelle più svariate forme giuridico fiscali, restavano fuori da qualsiasi sostegno. 

Per assurdo, proprio questa fascia ideologicamente e fiscalmente virtuosa, è stata penalizzata fino al decreto del 29 ottobre 2020. Il Mibact, in questa occasione, prendendosi cura di noi ha riconosciuto l’identità artistica delle scuole di danza e ha confermato, finalmente,  di essere il nostro referente istituzionale.

Come funziona formalmente il contributo? Chi può richiederlo e in che modo?

Come già detto il ristoro è rivolto alle scuole che non sono afferenti allo sport configurate in qualsiasi altra forma giuridica. La gestione della procedura è affidata interamente alla SIAE, ente erogatore sulla base di un’apposita convenzione stipulata con il Mibact. Sul sito della SIAE sono riportate tutte le modalità e le scadenze per la presentazione delle domande di contributo. 

Tutte le scuole interessate – e in possesso dei requisiti – hanno potuto presentare domanda entro il 7 dicembre, utilizzando l’apposita modulistica. Le condizioni sono le seguenti: aver svolto attività didattica nell’anno 2019/2020, aver pagato l’abbonamento Siae per l’utilizzo della musica a fini didattici per l’anno 2019, essere in regola con i versamenti contributivi, se dovuti. Tutte le info sono consultabili in maniera agevole anche sul sito di AIDAF.

Quali saranno i prossimi passi? Come si può ovviare al problema della regolamentazione della formazione in ambito coreutico?

Il nostro lavoro è tuttora dettato dall’emergenza: quindi continueremo a batterci per sostenere economicamente il settore finché sarà necessario. L’obiettivo primario resta l’attuazione della legge 175/17, il codice per lo spettacolo dal vivo. All’interno di questa legge, grazie al lavoro di AIDAF, è stata inserita una norma che contiene tutti i principi che servono a regolamentare il settore, ovviamente attraverso un decreto attuativo.

In primis dare una dignità professionale alla figura dell’insegnante di danza, attraverso un titolo proveniente dallo Stato,  obbligatorio, per poter insegnare danza nel privato, con conseguente inquadramento giuridico-fiscale e previsione di tutte le tutele mai ricevute finora. In questo modo si avrà anche un livello qualitativo più alto dell’insegnamento, anche a tutela degli allievi.

In secondo luogo, riordinare le scuole di danza. Tale riordino è necessario sia dal punto di vista dell’idoneità delle strutture stesse, che devono avere determinate caratteristiche tecniche, sia sotto il profilo dell’inquadramento giuridico-fiscale. Il sistema danza è composto da tre comparti, che formano una filiera: formazione, produzione e promozione. Se migliora il livello della formazione, ne beneficeranno anche gli altri due segmenti. 

Da una situazione drammatica si possono ottenere risultati più velocemente perché l’emergenza, paradossalmente, accelera tanti processi. Il governo, attraverso il ministero preposto – che, nel nostro caso, è il Mibact in quanto le scuole di danza si occupano di formazione artistica – ha dovuto prendere atto che esistono tante categorie da ascoltare e da tutelare, la norma giuridica pertanto è una tutela e l’esercitazione di un diritto. Lo spettacolo dal vivo in toto preme, attraverso l’AGIS, affinché riprenda al più presto l’iter della legge. 

Aggiungo, inoltre, che sarebbe un peccato pensare di fare un’altra legge, sia perché questa legge esiste già, sia perché l’iter per un nuovo disegno di legge sarebbe lungo e significherebbe iniziare daccapo. All’interno della norma che ci riguarda, c’è tutto quello che ci occorre per regolamentare il settore.  

Occorre soltanto attuarla. C’è fiducia al riguardo da parte di Agis e AIDAF?

La legge sullo spettacolo dal vivo è una legge delega, che quindi rinvia ai decreti attuativi.  Purtroppo la sua attuazione ha subito diversi rallentamenti per avvenimenti politici. Devo dire però che la volontà di portarla avanti c’è sempre stata. Durante la pandemia sia il Ministro Dario Franceschini che altri funzionari in seno al Mibact hanno sostenuto pubblicamente la necessità di attuarla quindi sono molto fiduciosa, insieme all’Agis. Noi di AIDAF abbiamo lavorato già da tempo ad una bozza del decreto attuativo. 

Quali sono i modelli internazionali ai quali poter guardare per prendere esempio? 

Il lavoro di AIDAF negli anni si è basato anche sul confronto con i paesi esteri. Abbiamo preso a modello principalmente la Francia, dove c’era una situazione analoga. Sicuramente il modello perfetto non esiste, tutto è migliorabile. Del resto l’arte, e la danza ovviamente, sono mutevoli, sotto vari punti di vista. Ma il sistema francese è costruito con una certa consapevolezza e fluidità di gestione. 

In Francia, per esempio, il diploma di stato nel settore artistico è gestito dal ministero della cultura e non da quello dell’istruzione, come è giusto che sia. Abbiamo fatto dei confronti anche con modelli inglesi, poiché AIDAF annovera tra gli associati R.A.D Italia Royal Academy of Dance e  ISTD – Imperial Society of Teachers of Dancing. Con loro c’è stato un grande lavoro di confronto.

Quando il decreto attuativo sarà realtà che tipo di scenario si può prevedere per tutta la categoria? 

Abbiamo previsto un percorso, delle modalità ben precise e in questo modo il titolo sarà unico, frutto di una visione unitaria proveniente dallo Stato. Non c’è intenzione da parte di nessuno di spazzare via l’esistente, tutt’altro. Come tutte le leggi, anche questa prevederà delle norme transitorie per consentire l’adeguamento graduale di tutto l’esistente.  

In questo periodo che consiglio si sente di dare ai giovani danzatori e alle giovani danzatrici? 

Esorto chiunque a essere responsabile e a impegnarsi al massimo per raggiungere i propri obiettivi.  Mai come oggi abbiamo visto che il senso di responsabilità del singolo ricade inevitabilmente anche sulla collettività. In Italia, abbiamo stimato che esistano circa 30mila scuole di danza per un totale di oltre 3 milioni di allieve e allievi. Il ruolo della scuola di danza è quindi primario nella formazione individuale delle persone, il docente è un formatore che incide sulla crescita culturale, sugli stimoli intellettuali, sui valori sociali.

Il mio consiglio è quello di affidarsi alla serietà dei docenti e delle strutture. Diffidare da chi offre il 3×2, cioè costi troppo bassi che non possono garantire professionalità e da chi promette risultati in poco tempo. Mai farsi ingannare dalle facili promesse.

Liliana Cosi, artista straordinaria oltre che un’amica, che, da anni mi onora di essere vicepresidente vicaria di AIDAF, dice sempre che la danza non fa regali a nessuno. Ecco, i giovani devono essere consapevoli che la danza richiede dedizione e impegno costanti e che ogni piccolo progresso è frutto di caparbietà e di lavoro strenuo. Nelle arti in genere il risultato si vede soltanto con il tempo e l’impegno serio e totale. Supereremo questo momento e confido che ne usciremo più forti.

Bandi Siae per la creatività under 35: quasi 28 milioni di euro per 927 progetti

Bandi Siae per la creatività under 35: quasi 28 milioni di euro per 927 progetti

La Società italiana autori editori (Siae) ha pubblicato sul proprio sito web uno studio (scarica a questo link) curato dall’Istituto italiano per l’Industria Culturale che propone una prima valutazione di impatto dei bandi per la creatività giovanile under 35 affidati dal ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo alla Siae nel triennio 2017-2019.

Lo studio è stato diretto da Angelo Zaccone Teodosi, presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale. “Senza dubbio – osserva quest’ultimo – i bandi Siae-Mibact hanno contribuito a mettere in moto migliaia e migliaia di progettualità, soprattutto giovanili, che probabilmente non avrebbero avuto chance di svilupparsi, a fronte della nota rigidità dello strumento storico di intervento dello Stato nel settore, il Fondo unico per lo spettacolo (Fus). Basti osservare che il Fus sostiene circa 2 mila iniziative l’anno, e che il fondo Siae per la creatività giovanile sostiene circa 330 progetti l’anno”.

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Siae ha assegnato nell’arco di 3 anni circa 28 milioni di euro a 927 progetti vincitori, a fronte di ben 5.250 progetti concorrenti. Sono stati coinvolti 8 mila giovani artisti e 27 mila studenti. Il perimetro degli interventi Siae è stato ampio: arti visive, performative e multimediali, cinema, musica, teatro, danza, libro e lettura. Sono state finanziate tutte le fasi della filiera e tutti i settori: libri, opere cinematografiche, dischi e concerti, performance teatrali e di danza, festival, traduzioni, interventi di rigenerazione culturale territoriale. I bandi, denominati Sillumina nelle prime due edizioni e Per Chi Crea nella terza, hanno registrato un impressionante flusso di proposte progettuali: nell’arco dei tre anni ben 5.250 progetti, corrispondenti a 1.750 proposte l’anno, ovvero una media teorica di 5 progetti al giorno. È risultato vincitore il 18 per cento dei progetti presentati. Il contributo medio assegnato da Siae ai 927 vincitori è stato di 29mila euro a progetto.