Raccontare nella sua totalità l’edizione appena conclusa di Short Theatre 2021 non è semplice per la molteplicità di traiettorie che l’hanno caratterizzata. Ci sono stati i numerosi interventi nello spazio pubblico, le affissioni che hanno modificato l’ambiente interno della Pelanda e i muri della città, oppure la performance di Amanda Piña che si è svolta in Piazza Testaccio. Ci sono state le presentazioni di libri e le sonorizzazioni, l’inaugurazione di un nuovo palco per i dj set e i concerti, la formula Cratere per abitare WeGil, le proiezioni, i laboratori partecipativi e naturalmente gli spettacoli, tra cui l’attesissimo debutto dei Motus con Tutto Brucia.
Volendo scegliere un filo per sorvolare le giornate trascorse crediamo però di non tradire lo spirito del festival dando risalto alla forte presenza di artiste africane e afrodiscendenti che ha caratterizzato questa edizione. Performer che teniamo insieme più che per la semplice origine geografica per la condivisione di un problema, di un ostacolo, di un’ingiustizia ereditata. Short Theatre negli ultimi anni si è andato caratterizzando per l’attenzione e il coinvolgimento verso quel brulicare di istanze emancipative entrate in rotta di collisione con le arti performative, ospitando gruppi, progetti e persone che se ne sono fatte portatrici. Riprendendo quindi il titolo di questa edizione ovvero «The voice this time» e le parole della co-direttrice Piersandra Di Matteo — che nella nostra intervista affermava l’importanza di garantire uno spazio di ascolto — ci concentriamo sulle loro voci stavolta, che urlano spesso un’accusa nei confronti della cattiva coscienza occidentale.
L’accensione al festival l’ha data Sofia Jernberg, con un’operazione dal significato potente. L’edificio WeGil, situato tra Trastevere e Testaccio, è un lascito del fascismo i cui segni parlano in maniera fin troppo esplicita delle aspirazioni imperialiste della dittatura made in Italy. Ebbene, sotto la scritta «Necessario vincere, più necessario combattere» Jernberg si è affacciata dal balcone — le sue origini etiopi rendono l’atto ancora più pregnante — dando un assaggio del suo percorso di ricerca sulla vocalità, sotto il titoloChasing Phantoms. Un momento toccante tutto all’insegna del détorunement: del bel canto, della tradizione canora africana, della pesante eredità coloniale fascista; non possiamo far finta che i fantasmi non esistono, ma la loro evocazione deve servire a scacciarli, a depotenziarne il lascito.
Muna Mussie è una performer bolognese con origini eritree. Questa doppia identità è alla base del lavoro Curva Cieca, un viaggio alla riscoperta della lingua materna tigrina con la guida della voce di Filmon Yemane, ragazzo non vedente anch’egli eritreo. Gli excursus di Yemane per spiegare i termini sono estremamente affascinanti, rimandando all’inevitabile intraducibilità e allo stesso tempo al terreno comune tra le lingue, mentre Mussie in scena invita a riflettere sui confini con movimenti minimali ed enigmatici. Indossa una maschera, come a simboleggiare l’involucro che ogni cultura costituisce, quando poi la maschera si fa doppia è evidente il richiamo alle due identità di cui si parlava sopra, ma anche un riferimento a Giano, dio delle soglie e dei passaggi, non sarebbe fuori contesto.
Quella di Cherish Menzo, artista olandese di origini surinamesi, era forse una delle performance più attese per il suo linguaggio estremamente attuale. Il bersaglio critico di Menzo inJezebelè infatti l’immaginario sessista dell’hip hop e se i codici sono cambiati rispetto a quelli di vent’anni fa, non sono certo pochi i trappers di oggi a ricalcare ancora quegli stereotipi. Nella prima parte dello spettacolo Menzo corre forse il rischio di farsi risucchiare da quello stesso immaginario giocando sul lato provocante e attraente, il twerking però viene spinto all’estremo delle possibilità fisiche così come il testo della canzone cantata rigorosamente in autotune è un’esplicita dichiarazione di sottomissione al maschio alfa gangster rap.
La musica è sicuramente una parte importante della performance, estremamente curata rispecchia questo stare nella contemporaneità pur contestandola; non c’è infatti un’alternativa nello spettacolo di Menzo ma piuttosto una critica interna. L’artista comunque non risparmia le energie sul palco fino alle ultime scene, in cui si trasforma in una enorme bambola gonfiabile dorata.
Nadia Beugré è una coreografa e danzatrice ivoriana che a Short Theatre ha portato una rivisitazione del suo lavoroQuartiers Libres originariamente concepito nel 2012 ma adattato stavolta alla specifica architettura della Pelanda. È una performance che può avere molteplici letture, quella che forse più ci affascina è l’intralcio dell’eredità. Beugré fa il suo ingresso in abito da sera e tacchi a spillo, intonando dei canti tradizionali africani, prima di scoppiare in una fragorosa risata. Il cavo del microfono si confonde con le treccine e diventa presto un legaccio in cui la danzatrice rimane impigliata.
Con rabbia e allegria allo stesso tempo si scaglia contro i politici, cercando il coinvolgimento attivo di un pubblico a dire il vero piuttosto restio. Come elemento di passaggio per la seconda parte, Beugré inserisce tra le labbra e spinge in profondità una busta dell’immondizia. L’eredità che ostruisce così potrebbe essere anche quella dei rifiuti di cui siamo sommersi, poco dopo infatti lei e alcune ragazze e ragazzi che hanno partecipato al suo laboratorio nei giorni precedenti, si ricoprono di bottiglie di plastica mentre intonano «A far l’amore comincia tu». Un’interrogazione stimolante che rimane gioiosa nonostante incorpori momenti di segno opposto.
Tra la fine del festival e il suo inizio c’è un ideale punto di contatto, perché le ultime battute sono riservate ad artiste con radici africane, ma soprattutto perché come in apertura si parla di fantasmi legati alla storia coloniale, seppure di ispirazione diametralmente opposta.
Dopo l’appuntamento conclusivo alla Pelanda, il dj set massimalista di Crystallmess, francese dalle origini guadalupe-ivoriane, è andato in scena il gran finale, l’opera Nehanda di Nora Chipaumire al Teatro Argentina (mostrarla in quel contesto ha senz’altro un valore importante). Un grande progetto diviso in otto capitoli di cui abbiamo visto l’ultimo, incentrato appunto sullo spirito Nehanda venerato nello Zimbabwe in cui chipaumire è nata e cresciuta.
L’opera è fortemente politica perché ad incarnare lo spirito alla fine dell’800 fu una leader rivoluzionaria che lottò contro l’occupazione e lo sfruttamento dei britannici. All’inizio assistiamo ad un concerto con degli abilissimi musicisti e una corista che ripete incessantemente «No justice, no peace», il potente slogan utilizzato da diversi anni nelle proteste degli afroamericani diviene quasi un mantra. Nel frattempo chipaumire al microfono intreccia la storia con pungenti invettive, anche indirizzate specificamente a noi: «L’Italia ha una particolare relazione con l’Etiopia», ricorda. Sul finire va in scena una vera e propria manifestazione di piazza, il cui messaggio e la cui energia arrivano forte e chiaro: lo spirito di Nehanda non si assopirà fin quando giustizia non sarà fatta.
Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.
Giunto alla sedicesima edizione, l’audace festival romano dei linguaggi contemporanei Short Theatre è pronto a un cambio di pelle. Il passaggio del testimone alla direzione artistica si è concretizzato in una curatela condivisa tra la direttrice uscente Francesca Corona e quella futura Piersandra Di Matteo, connotando l’appuntamento come un momento di passaggio ma anche come una summa di quanto proposto negli ultimi anni.
Abbiamo intervistato Di Matteo durante le giornate conclusive del festival per misurare la temperatura di quanto vissuto in questa fine d’estate 2021 e per cogliere qualche intuizione per le stagioni a venire.
Ph. Claudia Pajewski
Ph. Claudia Pajewski
Iniziamo dal titolo di questa prima edizione del festival da lei co-curata con Francesca Corona, «The voice this time». Perché lo avete scelto?
È una frase pronunciata senza un verbo, con una parola che apre a una moltitudine di significati. Lo intendo come un tentativo di spostare l’attenzione sulla dimensione dell’ascolto, un’ecologia della risonanza. Pensiamo al festival come a uno spazio vibrazionale in cui i corpi si rinviano reciprocamente, questo comprende tanto i corpi di chi performa quanto quelli del pubblico, le superfici urbane e gli ambienti che abbiamo attraversato: WeGil, Pelanda, Teatro India.
Ci è sembrato importante intrecciare questa connessione con la città lavorando per echi, rimandi fantasmatici, sommovimenti tellurici. L’ascolto è uno spazio in cui poter rivendicare qualcosa dal punto di vista politico, perché anche in quella dimensione possono attivarsi forme di agonismo, è un campo elastico e dinamico che può anche interdire e ostruire l’ascolto di altre voci.
C’è qualche aspetto in particolare del suo bagaglio di esperienze che vorrebbe introdurre in questo festival?
Sin da giovanissima ho sentito l’urgenza di essere a contatto con i linguaggi più innovativi attraverso un’attitudine teorica, di studio e di ricerca, ma anche con una conoscenza molto pratica e operativa di cosa significa stare in scena e di che cos’è una drammaturgia. In quest’ultimo caso mi riferisco in particolare alla grande palestra che ha rappresentato per me il lavoro con Romeo Castellucci e il mondo operistico, quindi con grandi macchine di produzione che però permettono di vedere con chiarezza quali sono le necessità.
Le due dimensioni interconnesse, la teoria e la pratica della scena, sono quindi ciò che porto con me in un festival come Short Theatre, che in questi anni è stato un bacino importante per rilanciare i nuovi linguaggi che avrebbero avuto difficoltà ad arrivare in Italia. Inoltre il lavoro curatoriale che ho svolto negli ultimi anni per il Teatro Nazionale ERT ovvero Atlas of transitions biennale, un progetto che metteva in relazione arte, migrazione e cittadinanze, mi ha permesso di approfondire questo nesso importante. Ci siamo messe in contatto con una serie di associazioni diffuse nella città, come Matemù, Lucha y Siesta, Asinitas, Carrozzerie n.o.t, per immaginare insieme ad alcuni artisti internazionali progetti che potessero creare delle forme di meticciato e di incontro indipendenti dagli spettacoli.
Nella programmazione ci sono molte artiste afrodiscendenti ed extraeuropee, dal suo punto di vista cosa stanno immettendo nel campo delle arti performative occidentali?
Sì, ci sono Chipaumire, Beugré, Menzo, Mussie, Piña e altre. Credo che il loro sguardo, la loro concezione del corpo e della presa di parola nello spazio pubblico sia in grado di mettere a problema il sistema collaudato del privilegio e della subalternità, ridisegnando i confini dell’immaginario e proponendo una critica nei confronti della neocolonialità. In particolare poi sono tutte donne che lavorano sulla rappresentazione del corpo femminile nero e su cosa significa portarlo in scena, con delle posture e delle possibilità di manifestazione impreviste.
Roma è considerata una realtà piuttosto difficile per l’azione culturale, com’è andata fin qui e qual è la sua relazione con la città?
Sicuramente è una città complessa e straordinariamente ricca sotto tutti i punti di vista, di informazioni, input e possibilità. È a questa Roma che mi piace rivolgere lo sguardo, ad una metropoli con un immaginario stratificato, che ha delle specificità a seconda dei quartieri in cui la vita urbana si definisce. Bisogna imparare a conoscerla giorno dopo giorno e nei mesi passati ho intensificato la mia conoscenza che pure avevo già. Poi credo comunque che oggi si possa lavorare artisticamente soltanto se si è in molti e se si è insieme, in una collettività.
In questa edizione del festival c’è stato qualche momento che l’ha colpita in particolare?
C’è un continuum di intensità, WeGil convoca delle pulsioni molto chiare per la natura del luogo, abitare quell’edificio in stile fascista richiede ogni volta una strategia. Abbiamo inaugurato la rassegna con l’affacciarsi al balcone di Sofia Jernberg, un’altra artista afrodiscendente con un discorso tutto declinato vocalmente, lei è una cantante sperimentale che mescola il bel canto con la tradizione dell’Etiopia. Mi è sembrata una giusta accensione per questo festival. L’intensità si è andata poi snodando tra quelli che sono i momenti intercapedine ovvero ciò che accade tra le performance, tra gli spettatori, tra uno spettacolo e un talk, in quello spazio vibrazionale che costituisce la relazione.
Sta avendo delle idee per i prossimi anni, qualche elemento su cui agire e rilanciare?
Le idee arrivano in continuazione, ci sono delle linee di tensione che mi animano e questa edizione ne ha alcune tracce come il progetto ReciproCity, che vuole intrecciare un rapporto sempre più stretto tra i linguaggi della performance e la città. Mi interessa anche comprendere il nesso tra teatro e poesia, dopo tanti anni in cui la centralità è stata posta sul teatro di narrazione; infine lavorare su formati aperti, che da un punto di vista organizzativo sono più complessi, ma per me è molto importante creare situazioni in cui le persone siano coinvolte e possano condividere uno spazio e un tempo.
Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.
Presso l’Auditorium di Spin Time Labsdi Roma, all’interno della programmazione artistica organizzata dal collettivo di Spin OFF,va in scena il 2 e il 3 Marzo Nessuno può tenere Baby in un angolo.
Secondo progetto della compagnia Amendola/Malorni, dopo il grande successo de L’uomo nel diluvio, lo spettacolo – come scrive Anna Barenghi di Rai Cultura – è uno di quei gialli in cui non è tanto importante trovare il colpevole, ma farci respirare l’odore della benzina, il buio di una stazione, l’emozione di poche battute scambiate con una cliente; una storia d’amore tutta in potenza, spenta prima di nascere.
L’autore Simone Amendola risponde ad alcune domande in merito alla creazione dello spettacolo e al relativo percorso produttivo al TAN di Napoli e a Carrozzerie N.O.T, e ai felici esiti scenici ottenuti in diverse oasi teatrali quali Attraversamenti Multipli, Short Theatre, Kilowatt e Todi Festival.
Un giallo. La colpa della normalità, non solo la ricerca dell’assassino.
Alla cronaca arrivano i fatti, ma la verità è sempre più complessa.
Gli indizi stringono su un solo uomo: uno che poteva fare tante cose e fa il benzinaio.
Nessuno può tenere Baby in un angolo
Genesi creativa di Nessuno può tenere Baby in un angolo
Avevo letto un trafiletto di cronaca in cui scrivevano del ritrovamento di un corpo di una donna senza testa in una pompa di benzina sulla via Casilina di Roma. Questa notizia mi è rimasta in testa fluttuando, una cosa molto forte che mi ha segnato. Successivamente un attore mi ha chiesto un testo per una nuova produzione. Così un giorno senza pensarci troppo ho iniziato a scrivere questa storia. Ho immaginato la storia di un uomo che prima viveva una vita normale, a cui, poi, rovinano la vita incolpandolo di un omicidio brutale. Un uomo a cui, forse, danno anche la possibilità di guardarsi più a fondo.
Di base avevo un forte interesse personale nello scrivere questa storia in un periodo in cui mi ero avvicinato alla psicoterapia per migliorare il mio modo di stare al mondo e anche di amare. Quindi in qualche maniera quella è diventata una storia paradigmatica, non soltanto nella ricerca di un assassino ma per vedere come alla fine un uomo sta al mondo, come si rapporta con le donne o come le esperienze vissute all’apice della passione in adolescenza riescano a continuare a essere vive. Volevo provare a vedere in profondità attraverso il racconto di una storia, non attraverso delle riflessioni filosofiche.
Essendo il testo composto da tre atti, nel primo passaggio produttivo abbiamo messo in scena il I atto al festival Attraversamenti Multipli dove ci hanno invitato. Questo è stato un buon modo per costruire insieme a Valerio Malorni un nuovo immaginario rispetto all’idea precedente attraverso la creazione di una relazione coll’oggi e lavorando molto sul personaggio. Dopo ci sono state queste due residenze: prima a Napoli al Tan e a Start/Interno 5 e poi a Roma a Carrozzerie N.O.T.
Lo spettacolo è cresciuto piano, e poi, come succede spesso, continua a crescere. Abbiamo fatto un’anteprima a Short Theatre che aveva dei punti tematici messi a fuoco ma che durava 95′ minuti. Invece lo spettacolo di oggi si è ridotto. Nelle ultime repliche, Nessuno può tenere Baby in un angolo durava venti minuti di meno.
L’immagine ideale di toccare il fondo chiaramente è molto più a fuoco perché diventa una freccia non nei termini di velocità ma di intensità. Per quanto riguarda l’allestimento, molte delle idee sono venute stando nelle residenze. Come nel caso del I atto dello spettacolo, dove il protagonista sta su una sedia gigante, fuori misura rispetto a Malorni. A partire dalla relazione con questo elemento scenico, Valerio, nel tempo, ha preso sempre più confidenza col personaggio fino rendere labile il confine fra l’attore e il personaggio.
Era una sensazione che già avevamo, ma soltanto stare in un posto che ha un magazzino pieno di roba, ci ha fatto trovare ciò che cercavamo, inducendoci a fare le prove utilizzando una sedia molto grande: in effetti era l’oggetto scenico che rappresentava la nuova condizione in cui si trova il protagonista. Una persona normale in una situazione più grande di sé che lo costringerà a portarsi fino alla tomba il peso di un’accusa di omicidio.
Nessuno può tenere Baby in un angolo
Il lavoro registico e attoriale con Valerio Malorni
Valerio Malorni è cresciuto tanto dentro il personaggio portando molti elementi del teatro contemporaneo, attraverso il confronto con la storia reale di una persona che ha nome e cognome, studiando un modo di stare al mondo che attinge dalla realtà. In questo Malorni è riuscito a lavorare sul personaggio apportando tutta la sua qualità performativa, un lavoro attoriale che molti artisti, provenienti dalla scuola di prosa più classica e che sono abituati a lavorare con personaggi altri da sé, non riescono a fare. .
Questo testo è nato prima che l’attenzione mediatica sul femminicidio e sulla violenza delle donne si intensificasse. Nessuno può tenere Baby in un angolo nasce dall’esigenza di ragionare intorno a queste tematiche, andando anche a capire che uomo è colui che esercita la violenza sulle donne. Così, ne parliamo non attraverso la cronaca ma partendo dall’involuzione e anche dall’evoluzione spirituale di una persona.
Con 6 prime assolute, 9 prime nazionali, 2 produzioni originali, 4 co-produzioni, 2 progetti in residenza, 9 laboratori e 2 progetti site-specific, torna a Roma dal 5 al 15 settembre Short Theatre, uno dei più importanti appuntamenti sul piano internazionale con le performing arts e la creazione contemporanea, giunto alla sua XIII edizione. In 10 giorni, fra La Pelanda, il Teatro Argentina, il Teatro India, le Biblioteche di Roma e alcuni spazi urbani, le creazioni di 55 fra artisti, gruppi e compagnie nazionali e internazionali con oltre 250 artisti presenti per un totale di 120 appuntamenti e uno spazio, decisamente ampio, dedicato alla formazione. Un programma multidisciplinare che spazia dal teatro alla danza, dalla performance alle installazioni audio-video, dai concerti ai dj set e che si apre a progetti “fuori formato”, dispositivi multimediali, incontri, workshop e alcune importanti novità come il focus Panorama Roma, la programmazione musicale di Controra e la sezione Tempo Libero dedicata ai laboratori e ai percorsi formativi. Non un semplice festival ma una preziosa occasione di incontro fra artisti, pubblico, critici e operatori che creano ogni anno una vera e propria comunità e attivano un sistema di relazioni virtuose.
“Provocare Realtà” è il titolo di questa edizione: più che un tema definito e imposto, una chiave con la quale invitare il pubblico a leggere tra le righe del programma, ritrovandone le tematiche e le sfumature di senso. “Provocare realtà” esprime la rinnovata volontà del festival di accogliere al suo interno percorsi artistici che sappiano interrogare il reale e il suo racconto, osservandone i meccanismi, mettendone in discussione le rappresentazioni, ponendo l’accento sulla capacità che i linguaggi del contemporaneo hanno nel generare delle “nuove oggettività”. A quali storie non stiamo prestando attenzione? Quali le forze che premono a cui non stiamo dando parola? Modificare la realtà attraverso la scena, riscrivere la narrazione del futuro, rivedere la relazione con gli spazi urbani, riflettere sul corpo e sulle sue implicazioni politiche e sociali sono le traiettorie principali attraverso le quali si può provare a rispondere a queste domande.
TBBFR Ajmone Ricca foto Andrea Macchia
Fra gli appuntamenti principali di questa edizione, l’anteprima il 5 settembre al Teatro India con Tiago Rodrigues che presenterà in prima assoluta l’esito finale dell’École des maitres 2018 e, nei 2 giorni successivi, 6 e 7 settembre alla Pelanda in prima nazionale, Antonio e Cleopatra, spettacolo che ha segnato l’edizione 2016 del Festival d’Avignone. Attore, regista, produttore e direttore del Teatro Nacional D. Maria II di Lisbona, Rodrigues mette in scena una riflessione su amore e politica fra echi shakesperiani e ricordi del colossal hollywoodiano di Joseph L. Mankiewicz con Liz Taylor e Richard Burton. Tiago Rodrigues terrà anche una masterclass gratuita e aperta al pubblico il 7 settembre alla Pelanda. Doppia replica anche per Gala di Jérôme Bel in prima nazionale il 9 e 10 settembre al Teatro Argentina: dopo aver coinvolto nei 2 precedenti spettacoli i disabili mentali e il pubblico comune, il coreografo francese torna a sovvertire le gerarchie costruendo uno spettacolo di danza che coinvolge chi normalmente è escluso dal dispositivo dello spettacolo dal vivo istituzionalizzato, ovvero dilettanti e corpi non conformi. Gala è presentato in co-realizzazione con il Teatro di Roma – Teatro Nazionale – nell’ambito di Grandi Pianure – Gli spazi sconfinati della danza contemporanea, la rassegna che lo Stabile capitolino dedica alla coreografia contemporanea a cura di Michele Di Stefano–e nell’ambito de La Francia in scena, la stagione artistica dell’Institut français Italia e dell’Ambasciata di Francia in Italia. La collaborazione di Short Theatre con La Francia in scena prosegue con un’altra prima nazionale: il 15 settembre alla Pelanda la coreografa, danzatrice e ricercatrice di origini brasiliane Ana Pi, con Le tour du monde des danses urbaines en dix villes accompagnerà il pubblico attraverso 10 città del mondo in una conferenza-spettacolo concepita con Cecilia Bengolea e François Chaignaud, rivolta a un pubblico di adulti e bambini a partire dagli 8 anni, che ripercorre i diversi stili di danza urbana, mettendo in relazione la costruzione dei corpi e delle identità urbane con i movimenti politici e le lotte sociali. La realtà indagata attraverso la danza è la prospettiva dentro la quale si inserisce ancheHope Hunt (and the ascension of Lazarus)della coreografa di Belfast Oona Doherty, in scena il 7 e l’8 settembre. Inoltre, Markus Öhrn– artista svedese di base a Berlino, restituisce un inconsueto sguardo sul colonialismo e sulla diversità nelle prospettive culturali con Bergman in Uganda, un’installazione dal doppio punto di vista, che seziona la borghesia bianca narrata da Bergman nel film Persona del ’66 attraverso la voce del veejay che accompagna le proiezioni dei classici del cinema nelle baraccopoli in Uganda, sempre il 7 e 8 settembre alla Pelanda.
In co-realizzazione con Romaeuropa è invece The Quiet Volume, la performance, che unisce ascolto e letteratura, di Ant Hampton e Tim Etchells (fondatore della compagnia Forced Entertainment) che dal 10 al 15 settembre, per essere poi ripresa dal 20 al 29 settembre al Romaeuropa Festival 2018, sarà ospitata in alcune biblioteche romane: al centro della performance riservata a 2 spettatori per volta, la lettura come gesto intimo e quotidiano. Fra arti visive, performance e letteratura si muove anche la belga Sarah Vanhee, rivelazione delle ultime edizioni del Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles. In Oblivion, in prima nazionale il 14 e 15 settembre alla Pelanda, la Vanhee mette in scena una sorta di “negativo” della propria vita privata e professionale, attraverso l’archiviazione dei rifiuti che l’artista stessa ha conservato per un anno. Questo tentativo di riscrivere la realtà investe anche i drammi attuali come nel caso di The Art of a Culture of Hope, progetto ad ampio respiro del duo Jessica HubereJames Leadbitter (The Vacuum Cleaner), che intende rigenerare gli immaginari del futuro. In collaborazione con Baobab. Experience, i 2 artisti svolgeranno un laboratorio con un gruppo di richiedenti asilo nel tentativo di scrivere una nuova narrazione rispetto a una questione dominata oggi da paura e rassegnazione. L’esito verrà presentato l’11 settembre alla Pelanda in prima nazionale.
Sei e dunque perchè si fa meraviglia di noi – Fortebraccio Teatro – foto Angelo Maggio
Frutto di una residenza artistica e produzione originale di Short Theatre sono i 2 progetti presentati in prima assoluta il 13 e 14 settembre alla Pelanda da Bogdan Georgescu e Mihaela Michailov, 2 autori rumeni selezionati nell’ambito diFabulamundi – Playwriting Europe: il primo lavora sull’influenza che i media italiani hanno esercitato nell’immaginario dei cittadini rumeni mentre la Michailov si concentra sulle testimonianze di alcune donne rumene che vivono a Roma. Prima assoluta è anche Combattimento, la nuova creazione dei Muta Imago che debuttail 13 e 14 settembre alla Pelanda: esplorazione dei concetti di amore e desiderio ispirata dalla musica di Monteverdi e sviluppata attraverso il filtro del corteggiamento nel mondo animale. Ancora alla Pelanda e sempre in prima assoluta, dall’11 al 15 settembre si potrà assistere a Leave The Kids Alone, installazione/performance dedicata al delicato tema del bullismo firmata da VicoQuartoMazzini, compagnia vincitrice del bando di PAV, Short Theatre e Teatro i nell’ambito di Fabulamundi – Playwriting Europe.
Proseguendo fra prime assolute e prime nazionali, l’installazione Little Fun Palace della compagnia OHT, in residenza a Short così come Bad Peace, artefici di un concerto e di un progetto radiofonico fuori formato ispirato al “bed in” di John Lennon e Yoko Ono; la performance In between of what is no longer and what is not yet dello spagnolo Juan Dominguez; e quella di Claudio Stellato, 7, frutto del progetto di cooperazione europea SOURCE che vede coinvolti il Théâtre National di Bruxelles, il Festival di Avignone e il Trafo di Budapest; e i progetti site specific che raccontano gli spazi urbani (L’uomo che cammina di DOM, una produzione di PAV nell’ambito dell’Estate Romana, e The End del collettivo milanese Strasse), fino ad arrivare all’opera di live expanded cinema Sanctuary di Carlos Casas, alla Pelanda in prima nazionale il 12 e 13 settembre. Artista visivo e filmaker spagnolo, Casas conduce lo spettatore in un viaggio onirico che segue attraverso le immagini e il suono – curato da uno dei più grandi sound designer e sound recorder internazionali Chris Watson – il destino di un gruppo di elefanti.
A completare il quadro di una programmazione così densa, le creazioni fra danza, teatro e performance di alcune delle realtà più importanti del panorama italiano come Annamaria Ajmone e Alberto Ricca Bienoise (To Be Banned from Rome), Babilonia Teatri (Calcinculo), Claudia Castellucci e Chiara Guidi (Il regno profondo. Perché sei qui?), Claudia Catarzi (A Set of Timings), Filippo Michelangelo Ceredi (Between Me and P.), Fortebraccio Teatro (Sei. E dunque perché si fa meraviglia di noi?), Jacopo Jenna (If, If, If, Then), Sotterraneo (Overload).
Filippo Ceredi – Between me and P.- foto Michela Di Savino
Saranno i Ninos du Brasil insieme a Carlos Casas (live visual) invece ainaugurare il 6 settembre Controra, la programmazione musicale di Short Theatre 2018. In programma anche Gegen, storica serata dell’underground berlinese in collaborazione con il Festival di Santarcangelo, il concerto del duo pop-wave franco-israeliano Winter Family (nell’ambito della Francia in scena), il live set della taiwanese Jing, prima anticipazione del progetto Soniche – le signore dell’elettronica che prenderà il via la prossima primavera, il dj set della producer londinese Debonair in collaborazione con Spring Attitude, la serata – fra musica e letteratura – dedicata all’arab futurism realizzata in collaborazione con Nero e i dj set di Lady Maru, St. Robot , Ubi Broki del collettivo Strasse e Martina Ruggeri ed Erika Z. Galli della compagnia Industria Indipendente.
Fra le novità di questa edizione, le sessioni di lavoro di Panorama Roma. Nell’ottica di un consolidamento del dialogo fra i protagonisti della scena romana, artisti e autori come Alessandra Di Lernia, Federica Santoro, Giorgina Pi, Industria Indipendente, Artisti Innocenti, Timpano/Frosini, Salvo Lombardo, Dynamis si confronteranno il 9 settembre sulle rispettive ricerche a partire dai materiali di lavoro delle loro nuove creazioni.
Infine, si svolgeranno al Teatro India i laboratori di Giorgia Ohanesian Nardin, Hugo Sanchez, Teatro e Critica, Da.Re, Modulo Arti – Master in studi di genere dell’Università di Roma3 e Dominio Pubblico Summer Moving 2018, a ribadire l’importanza della formazione nel complesso ambito dei linguaggi del contemporaneo.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
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