Il dramma shakespeariano trasportato in una Sardegna arcaica e senza tempo. Un Macbeth che si esprime in sardo e, come nella più pura tradizione elisabettiana, interpretato da soli uomini, è l’originale e pluripremiato spettacolo di Alessandro Serra, MACBETTU, in scena dal 4 al 6 maggio al Teatro Argentina.
«Macbettu restituisce la natura profonda del testo shakespeariano», commenta il regista Alessandro Serra, sua la ideazione, scene, costumi e luci dell’immaginifica e originale rilettura del capolavoro del Bardo. Premio Ubu 2017 come miglior spettacolo dell’anno e premio Anct 2017 (Associazione nazionale critici di teatro), la pièce tradotta e adattata dall’inglese al sardo logudorese da Giovanni Carroni, sposta la cruenta tragedia dalla Scozia in Barbagia. Terra evocata, mai nominata, quasi luogo metaforico di un passato ancestrale con i suoi segni e simboli e la potenza di un linguaggio dove la parola diventa canto e conquista e emoziona lo spettatore con tutta la sua forza espressiva.
«Nel riscrivere il testo – racconta Serra – tutti i personaggi femminili sono stati omessi e la storia non sembrava subire alcuna ferita. Tutte le donne riassunte in un’unica dea madre reggitrice di morte: Lady Macbeth. Più alta e più forte degli uomini, come in una delle sue più antiche rappresentazioni, quella di Ozieri: filiforme, astratta, trascendente. L’idea nasce nel corso di un reportage fotografico tra i carnevali della Barbagia tra i suoni cupi prodotti da campanacci e antichi strumenti, le pelli di animali, le corna, il sughero. La potenza dei gesti e della voce, la confidenza con Dioniso e al contempo l’incredibile precisione formale nelle danze e nei canti, le fosche maschere e poi il sangue, il vino rosso, le forze della natura domate dall’uomo, soprattutto il buio inverno». Le sorprendenti analogie tra il capolavoro shakespeariano e le maschere della Sardegna diventano il fulcro di questo spettacolo.
La lingua sarda non limita la fruizione, bensì trasforma in canto ciò che in italiano rischierebbe di scadere in letteratura. «Abbiamo lavorato sulle analogie, sulla natura arcaica dei carnevali barbaricini, sui segni iconici, sugli archetipi, sui codici culturali, andando oltre la maschera e il folklore, quasi con un’operazione di ‘espianto di aura». Uno spazio scenico vuoto, attraversato dai corpi degli attori che disegnano luoghi ed evocano presenze. Pietre, terra, ferro, sangue, positure di guerriero, residui di antiche civiltà nuragiche. Materia che non veicola significati, ma forze primordiali che agiscono su chi le riceve.
Il risultato è uno spettacolo di meraviglia cupa, in grado di utilizzare elementi della tradizione, senza fermarsi a una contemplazione statica, ma utilizzando i segni in modo contemporaneo, quindi ambiguo, tragico, affascinante. La scena è curata in una stilizzazione puntuale: ogni oggetto – i costumi, le pietre, il sughero, i campanacci – è elemento coerente e contribuisce alla costruzione di uno spazio visionario e evocativo, in cui gli attori si muovono, seguendo precise traiettorie coreografiche. Macbettu inquieta con l’atroce bellezza di un racconto senza parole, in grado – come da tradizione barbaricina – di dire senza rivelare.
Parliamo del Macbettu con Leonardo Capuano, protagonista di questo kolossal teatrale, espressione e sintesi maestosa delle intuizioni geniali del Macbeth di Shakespeare e l’ispirazione del regista di fronte al Carnevale barbaricino.
Macbettu ph. Alessandro Serra
com’è nata la collaborazione con Alessandro Serra?
Leonardo Capuano ph. Alessandro Serra
In maniera del tutto normale, io e Alessandro ci conoscevamo di vista. Abbiamo fatto dei percorsi di lavoro a Castiglioncello dove magari ci siamo incrociati, salutandoci senza sapere chi fosse l’altro. Poi credo che Alessandro abbia saputo che io ero nato a Cagliari e aveva il progetto del Macbettu che non era ancora partito. Nel 2016 mi ha telefonato e mi ha parlato di questo progetto e io gli ho detto che l’idea mi sembrava molto bella da sviluppare. Poi mi ha richiamato e mi ha detto che ci sarebbe stata la produzione del Teatro di Sardegna, io ho accettato dopo aver visto cosa faceva attraverso dei video per capire in che modo lavorava così che potessi rendermi conto di chi fosse- perché non avevo mai visto niente. Ho visto qual è la sua forma di teatro e l’ho trovato molto bella, così ho preso un aereo e sono andato a Cagliari per lavorare quattro giorni. Ci siamo riconosciuti in qualche modo come persone che cercavano di lavorare sodo e seriamente cercando di fare al massimo delle nostre possibilità. Vedendo le cose allo stesso modo, è stato bello incontrarsi perché è difficile che questo possa succedere.
Che tipo di lavoro hai affrontato durante le prove?
Non è stato per niente difficile né tantomeno sgradevole, nel senso che ci siamo incontrati a lavorare e io ho riconosciuto immediatamente quelle che erano e anche quelle che sono le metodiche di Alessandro e riconosciuto in che modo lui approcciava al lavoro. Un modo che reputavo molto vicino al mio, c’è stato quindi un lavoro di creazione totale insieme a tutto il gruppo di attori – altri sette a parte me – e abbiamo lavorato giornate intere, 10 ore al giorno stimandoci a vicenda. Quando due persone hanno delle affinità, si incontrano e si rendono conto che parlano la stessa lingua e hanno una serie di desideri comuni tutto procede nel migliore dei modi. Abbiamo collaborato su alcune parti del testo, è stato un lavoro di creazione totale e di grande collaborazione. Naturalmente, via via che si manifestava la sua competenza è chiaro che c’è stata piena fiducia nei confronti del regista e piena fiducia da parte sua nei miei confronti rispetto a quelle che erano le mie competenze. Abbiamo capito durante le prove in che modo si poteva lavorare in scena, cercando di risolvere e di creare del materiale che potesse essere possibile all’interno di quello spettacolo.
A tuo avviso da dove nasce il grande successo del Macbettu?
Se dovessi indicare le motivazioni di questo grande successo, lo sminuirei. Io conosco tutta la fase di lavorazione essendo stato coinvolto in prima persona e ne ho anche delle responsabilità come tutti gli altri. Sarebbe limitante pensare che lo spettacolo è in lingua sarda e allora questa peculiarità garantisce un’unicità. Questo è vero, ma non è la sola motivazione. Posso considerare tutte quelli che sono i livelli che compongono lo spettacolo e so quali sono e quali potrebbero essere i motivi per cui ha riscosso grande successo però rischierei di smontare lo spettacolo e renderlo in qualche modo ridicolo. Invece quello che posso dire è che credo che ci siano spettacoli fortunati, non tutti sono così e questo è una sorta di mistero, così anche per i miei spettacoli alcuni dei quali sono stati fortunati; perché il pubblico ha decretato che fossero così fortunati? Non certo io posso dirlo. Quello che posso dire di questo spettacolo è che è il frutto di un incontro con artisti che si sono messi insieme parlando poco, lavorando molto e cercando di fare la cosa più bella che potevano riuscire a fare tutti insieme. Questo è molto difficile che avvenga ed è questo il modo con cui vorremmo continuare a lavorare con Alessandro. Nessuno di noi poteva pensare che sarebbe successo quello che è successo – alla fine non è che sia successo niente di trascendentale, abbiamo avuto la fortuna che lo spettacolo sia piaciuto a molti e che venga richiesto e noi siamo felici di questo. Prima di questo riscontro, non avevamo molto credito ma credo che questo sia il frutto di duro lavoro e di grande intelligenza e una certa dose di talento – la fortuna poi ha fatto il resto.
Leonardo Capuano condurrà un seminario a Roma a maggio: SCOPRI DI PIÙ
MACBETTU
di Alessandro Serra regia, scene, luci, costumi Alessandro Serra tratto da Macbethdi William Shakespeare con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini musiche pietre sonore Pinuccio Sciola – composizioni pietre sonore Marcellino Garau Produzione Teatropersona, Sardegna Teatro con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna
PREMIO UBU 2017 | Spettacolo dell’anno PREMIO ANCT 2017 | Associazione Nazonale dei Critici di Teatro
TITOLO TESI > Lo spazio femminile nel Titus Andronicus di Shakespeare ISTITUTO > Università degli studi di Napoli “L’Orientale” – Corso di laureain Lingue e culture comparate AUTORE > Immacolata Balestrieri
INTRODUZIONE DELL’AUTRICE
Nel corso le Quindicesimo secolo il teatro inglese ha subito degli enormi cambiamenti, acquistando una dignità sempre maggiore. Fino alla prima metà del secolo, infatti, il teatro si limitava ad accompagnare le cerimonie religiose – e in questo caso si parla di mystery plays – o civili utilizzando sia il latino che il volgare, mentre il teatro professionale faticava ancora ad affermarsi, con le compagnie costrette a spostarsi di villaggio in villaggio utilizzando gli spazi più disparati per le proprie esibizioni.
La seconda metà del secolo vide invece l’affermarsi del teatro professionale, con la nascita di numerosi teatri al chiuso e nuove compagnie teatrali; il protagonista indiscusso di questa fioritura artistica è William Shakespeare, senza dubbio il più celebre drammaturgo dell’età elisabettiana. Nel 1593 Shakespeare presenta la sua prima tragedia, The Most Lamentable Roman Tragedy of Titus Andronicus, conosciuta più semplicemente come Titus Andronicus. L’opera è ricca di numerosi riferimenti al mondo del teatro e della letteratura greci e romani, in questo breve articolo analizzo le principali fonti testuali che fungono sia da sfondo che da ispirazione per la tragedia, analisi a mio parere necessaria ai fini della comprensione dell’opera.
Immacolata Balestrieri nasce a Napoli l’8 maggio 1997. Si avvicina al mondo del teatro da piccola, frequentando alcuni corsi; negli anni universitari intraprende poi un percorso laboratoriale di recitazione per circa due anni presso il Centro Teatro Spazio. Ha studiato Lingue e culture comparate presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Ha trascorso un semestre di studio presso l’Uniwersytet Jagielloński di Cracovia. Insieme a Kathrin Komp-Leukkunen, Gustav Syrstad e Maria Varlamova, è autrice di Using experential knowledge in teaching about life-courses, pubblicato dalla Faculty of Social Science dell’University of Helsinki. Si è laureata con una tesi in Letteratura inglese dal titolo Lo spazio femminile nel Titus Andronicus di Shakespeare, da cui è stato tratto un saggio omonimo pubblicato sulla rivista online Aura. Attualmente studia Lingue e comunicazione interculturale in area euromediterranea presso lo stesso Ateneo.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
È curioso registrare come le uniche due opere musicali aventi per soggetto l’Otello di Shakespeare siano ad opera di due operisti italiani: Rossini e Verdi. Ancor più curioso è il fatto che poste ai due estremi dell’Ottocento, queste rappresentino l’inizio e la fine dell’opera italiana ottocentesca, dall’epoca rossiniana a quella verdiana.
Arrigo Boito e Giuseppe Verdi
Rossini a Napoli
È il 1815, Gioacchino Rossini ha solo 23 anni e fresco di qualche successo a Venezia, viene scritturato dall’impresario del San Carlo di Napoli Domenico Barbaja. Dopo il debutto con grande successo de L’Elisabetta Regina d’Inghilterra nel teatro napoletano, Barbaja e il letterato Francesco Berio di Salsa, impongono a Rossini un nuovo soggetto: Otello. Il 4 dicembre 1816, l’opera debutta riscuotendo grandi consensi tanto da entrare nel repertorio fino al 1870.
Un risultato straordinario per un’opera di quell’epoca, solitamente destinata ad essere dimenticata dopo una sola stagione teatrale. La sua fortuna si lega sicuramente agli ottimi cantanti a disposizione del San Carlo di Napoli tra i quali Isabella Colbran (Desdemona nell’opera) e il tenore Andrea Nozzari (futuro Otello nel melodramma).
Anche l’orchestra a disposizione di Rossini è una delle migliori d’Europa e, grazie a essa, potrà scrivere pagine di musica sorprendenti, come la tempesta presente nell’Otello, e anche innovare l’opera, optando per il recitativo strumentato – accompagnato da tutta l’orchestra – invece che per quello “secco” – accompagnato solo dal clavicembalo.
Questo espediente che può sembrare di natura tecnica, in realtà conferirà maggiore unione e coerenza tra il recitativo e l’aria che diventeranno quasi un tutt’uno, portando all’opera una nuova fluidità nell’azione scenica.
Rossini infatti grazie a un ruolo più centrale dell’orchestra, effetto dell’evoluzione dei tempo e della lezione mozartiana, amplia le forme del melodramma italiano, le rende più fluide e continue, rendendo l’azione avvincente e mai statica. Il compositore non stravolge le convenzioni dell’opera, accoglie le forme chiuse del melodramma, ma le utilizza sempre in maniera naturale e mai artificiale.A questa fluidità scenica si unisce il tipico linguaggio rossiniano improntato su sorpresa e velocità, che imprimono un nuovo timbro di modernità alla musica.
Il libretto
L’Otello di Rossini però non condivide molto con quello di Shakespeare: il teatro del bardo di Avon è ancora troppo cruento per le scene “neo-classiche” italiane. Berio di Salsa, il librettista, attinge infatti dall’adattamento del drammaturgo francese Jean-François Ducis e dalla traduzione italiana di Celestino Masucco. Il dramma è quasi completamente riscritto, qui l’argomento riportato nei libretti:
«Otello, africano al servizio dell’Adria (Venezia), vincitor ritorna da una battaglia contro i Turchi. Un segreto matrimonio lo lega a Desdemona figlia di Elmiro Patrizio Veneto nemico di Otello, destinata in isposa a Rodrigo figlio del Doge. Jago, altro amante sprezzato da Desdemona, ed occulto nemico di Otello, per vendicarsi de’ ricevuti torti, finge di favorir gli amori di Rodrigo; un foglio poscia da esso intercettato, e col quale fa supporre ad Otello rea d’infedeltà la consorte, forma l’intreccio dell’Azione, la quale termina colla morte di Desdemona, trafitta da Otello, indi con quella di se medesimo, dopo avere scoperto l’inganno di Jago, e l’innocenza della moglie».
Le uniche innovazioni apportate a livello drammaturgico sono l’articolazione in tre atti del dramma serio, invece di due, e la presenza di un vero finale tragico, con due uccisioni sulla scena– tra cui un suicida, giustificato probabilmente solo dal fatto che Otello è un Moro.
Gli elementi di successo nell’opera
Il culmine dell’opera è raggiunta nell’atto III, composto da un solo numero musicale che corre dritto senza interruzioni verso il finale. Al centro di tutto vi è Desdemona, vera protagonista della tragedia, tanto che in un primo momento le si voleva intitolare l’opera. L’atmosfera tragica è introdotta da dei versi danteschi declamati da un gondoliere fuori scena, unico intervento di Rossini nel libretto: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria» (Inferno, V canto, vv. 121-123).
L’ansia e la preoccupazione per Desdemona salgono fino a culminare nella Canzone del Salice: l’aria «Assisa a’ piè d’un salice» (Atto III, scena I) diventerà insieme alla preghiera seguente, uno dei pezzi più celebrati dell’opera italiana.
«Deh calma, o ciel, nel sonno
per poco le mie pene, fa’, che l’amato bene
mi venga a consolar.
Se poi son vani i prieghi,
di mia breve urna in seno
venga di pianto almeno
il cenere a bagnar».
Le parole di Desdemona hanno l’obiettivo di far rinsavire Otello affinché lui possa perdonarla, ma questa sarà l’ultima preghiera della donna; di lì a poco il Moro entrerà nella sua stanza per ucciderla e poi, dopo aver scoperto l’inganno di Jago, si darà anch’egli la morte.
L’Otello verdiano
Ben diversa è invece è la genesi dell’Otello verdiano. La proposta di un’opera sul Moro “cioccolatte”, come affettuosamente lo chiamerà Verdi, arriva nel 1879 da parte di Giulio Ricordi, l’editore e Arrigo Boito, che aveva già pronto il libretto. Il compositore di Busseto non è molto convinto di intraprendere la scrittura dell’opera, sia per il mutamento della scena teatrale italiana, sia per il letterato con il quale nel passato ha avuto alcune ruggini.
La svolta arriva nel 1881, il rifacimento del Simon Boccanegrain collaborazione proprio con Boito sembra convincerlo. Sul palco della Scala incontra inoltre Victor Maurel, baritono designato per il ruolo di Simon, ma soprattutto la voce perfetta per il suo Jago – si dice che Verdi gli abbia detto: «Se Dio mi darà la forza, scriverò per voi Jago». Da quel momento in poi la scrittura dell’Otello procederà, tra alti e bassi, fino al suo debutto nel 1887 alla “Scala”.
Boito e il libretto
Boito è un librettista eccezionale. Il letterato lombardo è uomo di teatro, diplomato al conservatorio, compositore egli stesso, ma di stile wagneriano (Mefistofele, 1868, la sua opera più famosa; il Nerone, rimasto incompiuto), librettista esperto – scrive, per Franco Faccio e Amilcare Ponchielli –, esponente della scapigliatura milanese, insomma un intellettuale a tutto tondo. La qualità del libretto dell’Otello è immensa, Boito usa una quantità sterminata di metri diversi e il ritmo della sua scrittura sembra quasi voler suggerire la musica a Verdi.
Il suo libretto per l’Otello attinge direttamente al testo di Shakespeare e al netto dell’eliminazione del I atto shakespeariano, la trama e i personaggi rimangono i medesimi. Il vero protagonista dell’opera, come nell’originale d’altronde, è Jago, crudele baritono che odia Otello per aver dato il posto da capitano a Cassio e non a lui. Il suo piano diabolico prevede di servirsi di Rodrigo, innamorato di Desdemona, per far crollare Otello:
Jago a Rodrigo:
«M’ascolta,
benché finga d’amarlo, odio quel moro…
e una cagion dell’ira, eccola, guarda. (indicando Cassio)
Quell’azzimato capitano usurpa
il grado mio, il grado mio che in cento
ben pugnate battaglie ho meritato;
tal fu il voler d’Otello, ed io rimango
di sua moresca signoria l’alfiere!» (Atto I, Scena I)
L’odio di Jago non ha quindi un fondamento razziale ma è legato al potere. Boito inventa per lui uno straordinario monologo passato alla storia come “Credo di Jago” (Atto II, scena II), una vera e propria confessione del suo essere abietto. Il pezzo, composto in versi liberi, secondo le regole operistiche sarebbe stato adatto per un recitativo, ma Verdi intuisce il potenziale del brano e stupisce: non compone la classica aria, ma una cosa del tutto nuova, un monologo musicale.
Tutta l’opera è costellata di costruzioni sofisticate ed espressive, l’ubriachezza di Cassio ne è un esempio; qui l’estro di Boito arriva a comporre versi enigmatici, divenuti celebri come:
«Chi all’esca ha morso
del ditirambo
spavaldo e strambo
beva con me!».
Verdi carica maggiormente la scena facendo cantare l’ubriaco Cassio totalmente fuori tempo, coprendo le parole di Jago (Atto I, Scena I). Infine Otello e Desdemona, coppia di sposi che crede di conoscersi e capirsi. Il primo duetto è rivelatorio e la splendida musica verdiana sembra quasi voler mascherare l’incomunicabilità alla base del loro rapporto, ma le parole del Moro tuonano esplicite: «E tu m’amavi per le mie sventure | ed io t’amavo per la tua pietà» (Atto I, Scena III).
Desdemona ama Otello per le sue avventure, Otello ama Desdemona per la sua pietà: lui dunque, la ama solo perché è amato da lei. Otello ama sé stesso, il suo essere un eroe tanto che quando Jago gli fa credere di essere stato tradito da Desdemona, egli dà l’addio non a sua moglie, ma a se stesso, alle sue «vittorie, dardi volanti e volanti corsier!» (Atto II, Scena V). Desdemona invece è veramente innamorata di Otello, è una figura pura, candida, tanto da accettare la morte senza capirne veramente il motivo, un vero e proprio “martirio”.
L’ultimo atto
L’ultimo atto, come in Rossini, è l’apice dell’opera grazie alla centralità di Desdemona e alla sua canzone del salice. L’atmosfera è tesa e già incombe il peso della tragedia finale, che viene ribadito dalle parole della protagonista: «Egli era nato – per la sua gloria, | io per amarlo…e per morir» (Atto IV, Scena I).
Queste parole accelerano, fanno correre il dramma verso la fine: Otello entra nella stanza, uccide Desdemona; Rodrigo è ucciso da Cassio e Jago, messo all’angolo rivela tutto il suo piano. Il Moro tradito e ingannato non può che suicidarsi rimpiangendo l’amore con Desdemona sui versi del primo duetto d’amore: «un bacio, un bacio ancora» (Atto IV, Scena IV).
La storia dell’opera in due Otello
Due opere immense, dunque, che sintetizzano il percorso di vari aspetti della storia della musica operistica: l’evoluzione dal melodramma italiano dell’età rossiniana strutturato in recitativo e aria al fluido e continuo dramma lirico verdiano; la figura del musicista che passa da mero artigiano, a vero e proprio artista; infine quello più complesso dell’autorialità dell’opera, con il completo ribaltamento delle figure del librettista e del compositore, passate dall’essere succubi vicendevolmente l’una dell’altra a essere co-autori dell’opera.
In scena al Teatro Vascello dal 18 al 27 Gennaio Who is the king da William Shakespeare – la serie (episodi 1 e 2), drammaturgia e regia di Lino Musella e Paolo Mazzarelli e con in scena Massimo Foschi, Marco Foschi, Annibale Pavone, Valerio Santoro, Gennaro Di Biase, Alberto Paradossi, Laura Graziosi, Giulia Salvarani, Paolo Mazzarelli, Lino Musella.
Truci, malvagi, assetati di potere, eroici, vittoriosi o inadeguati. Tutti i re shakespeariani, persino il glorioso Enrico V, non mancano di mostrare, nei loro comportamenti, ambiguità che svelano le complicate, eterne ed oscure trame del potere.
Who is the King. Da William Shakespeare – la serie è uno straordinario affresco storico e poetico dell’Inghilterra a cavallo tra il XIV e il XV secolo. Una saga di sconvolgente potenza e inquietante attualità; otto drammi shakespeariani (Riccardo II, Enrico IV parte I e II, Enrico V, Enrico VI parte I, II, III e Riccardo III) trasformati in quattro grandi episodi che racchiudono oltre un secolo di storia.
Il percorso sapientemente costruito da Lino Musella e Paolo Mazzarelli parte dal crollo mistico di Riccardo II, per arrivare alle vette eroiche di Enrico V e poi precipitare giù fino all’inferno di Riccardo III. Il teatro incontra la serialità televisiva dando il via a un grande viaggio che affonda le sue radici nella drammaturgia shakespeariana, la riscrive e la trasforma in un appassionante racconto ad episodi.
Ogni personaggio attraversa le diverse fasi della vita: è giovane, poi uomo e infine anziano che va incontro alla morte e lascia il campo ad un altro protagonista, un nuovo re. Si susseguono eventi efferati e confusi su cui non veglia nessun confortante sguardo dall’alto e in cui le migliori qualità umane trionfano o soccombono al fascino oscuro del potere. Gli episodi 1 e 2, che coprono gli eventi narrati in Riccardo II ed Enrico IV parte prima, sono l’inizio di questo grande viaggio.
PROMOZIONE PER I LETTORI THEATRON 2.0
Biglietto ridotto a 10€ anziché 23€ per i lettori Theatron 2.0 La promozione é valida dal 18 al 27 gennaio
Per prenotare i biglietti invia una mail a promozioneteatrovascello@gmail.com con oggetto WHO IS THE KING – Promo Theatron 2.0 indicando il tuo nominativo e il giorno in cui vedere lo spettacolo, oppure chiama direttamente al 065898031 – 065881021
WHO IS THE KING da William Shakespeare, la serie
Episodi 1 e 2 da Riccardo II-Enrico IV parte prima, di W. Shakespeare drammaturgia e regia Lino Musella, Paolo Mazzarelli con Massimo Foschi, Marco Foschi, Annibale Pavone, Valerio Santoro, Gennaro Di Biase, Alberto Paradossi, Laura Graziosi, Giulia Salvarani, Paolo Mazzarelli, Lino Musella luci Pietro Sperduti scene Paola Castrignanò musiche Luca Canciello costumi Marta Genovese
una produzione Teatro Franco Parenti – La Pirandelliana – Marche Teatro
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Un festival del teatro italiano nel Paese di Shakespeare. E’ una sfida nella sfida, quella della rassegna tricolore – la prima nel suo genere – che l’Istituto di Cultura promuove per fine agosto a Londra.
Spazio a una carrellata varia di appuntamenti, non senza nomi di richiamo. Fra il 30 e il 31 agosto troveranno spazio – sul palco del Coronet Theatre di Notting Hill – cinque spettacoli. Ad aprire, il 30, sarà Ritorno in Italia, di Paolo Sorrentino con Iaia Forte, seguito dalla versione teatrale di Novecento, di Alessandro Baricco, interpretato da Eugenio Allegri. Il giorno dopo tornerà Mistero Buffo di Dario Fo, con Matthias Martelli, in una versione affidata alla regia dello stesso Allegri. Sarà poi la volta di una conversazione sul rapporto fra romanzo e teatro a tre voci tra Gilles Aufray, Emanuele Trevi e il poeta e scrittore nigeriano Ben Okri. E a chiudere, The Walls, spettacolo messo in scena e interpretato da Marcello Magni, grazie alla collaborazione proprio con Gilles Aufray.
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