Il teatro come eccezione precaria: Intervista a Lisandro Rodriguez

Il teatro come eccezione precaria: Intervista a Lisandro Rodriguez

Lisandro Rodriguez
Lisandro Rodriguez

Lisandro Rodriguez è un regista, attore, performer argentino. Nel 2004 fonda il centro di ricerca teatrale Elefante Club de Teatro (recentemente rinominato Estudio Los Vidrios) a Buenos Aires, all’interno del quale prendono vita i suoi spettacoli, ma anche attività collaterali che vanno oltre la dimensione performativa e le divisioni canoniche della scena.

È proprio questa rottura della convenzionalità e l’allontanamento da tutto ciò che è già codificato, l’elemento da cui parte il corso di perfezionamento attoriale che sta svolgendo nella Scuola di teatro Iolanda Gazzero dal titolo Microdrammi in scena.

Sin dalla sua fondazione, la scuola si è sempre interessata ad una formazione artistica trasversale e critica, che fornisca gli strumenti giusti per interfacciarsi con le realtà sceniche alternative, acquisendo gli strumenti per innamorarsi di un teatro diverso e necessario, che non può fare a meno, come dice Lisandro, di vivere di precarietà, forza e tenerezza.

Per il laboratorio di perfezionamento attoriale hai deciso di parlare di Teatro in stato d’eccezione: andando oltre l’evidente situazione d’eccezione in cui ci troviamo, è possibile parlare di un teatro, come dice Giorgio Agamben, in uno stato di eccezione permanente?

Quello che dice Agamben è che il mondo in cui viviamo genera situazioni che decretano tutto il tempo stati straordinari, stati d’eccezione. Il teatro sarà sempre in stato d’eccezione e gioca con quest’idea. Non è importante che questo stato sia reale o no, ciò che importa è che questa condizione sia una potenziale lettura del mondo possibile e una buona scusa per pensare e riflettere sul nostro lavoro. Magari non esistesse l’arte, staremmo parlando di un mondo che funziona bene, ma il mondo non funziona bene ed è per questo che l’arte rappresenta la fuga da un mondo impossibile. 

Un nome ricorrente nel tuo percorso artistico è quello di Rainer Werner Fassbinder, il cui teatro è caratterizzato da una recitazione straniata e straniante. Guardando i tuoi spettacoli invece la ricerca sembra andare verso la direzione opposta. Puoi raccontare quindi dove hai trovato un punto d’incontro con Fassbinder?

Ovviamente lo avevo già incontrato e studiato, ma tutto ha avuto inizio con un lavoro che mi hanno commissionato in omaggio a Fassbinder. Mi era stata data libertà completa, avrei potuto prendere quello che volevo della sua opera, così nasce Todo es demasiado. Ho cominciato a fare ricerche focalizzando lo sguardo sulla produzione di questo autore e ho trovato un artista immenso, per ciò che è riuscito a fare in così poco tempo e su come questo troppo finisca per annichilirlo

Quel che mi connette al suo lavoro, mantenendo ovviamente le distanze necessarie, è il modo in cui la sua vita e la sua opera si intersecano. Fassbinder mantiene sempre la coscienza dell’artificio, nella sua opera teatrale quanto in quella cinematografica, ma anche nei suoi saggi: la consapevolezza di costruire opere, molto potenti artificialmente, ma che è sempre in grado di intrecciare con la sua quotidianità. Fassbinder ha lavorato in film storici, drammatici, combinando elementi contrastanti incredibili, come la musica elettronica e le ambientazioni melò. 

Sono lavori che continuano tutt’ora a essere di un’estrema validità,  pur mantenendo questa dimensione di scostamento dal centro della realtà. Era un uomo con tantissime contraddizioni, non riuscirei a immaginarmelo oggi, già estremamente polemico all’epoca, chissà come si incastrerebbe nel mondo odierno.

Per quanto riguarda il rapporto con lo spazio, è uno degli elementi più interessanti della tua regia: si passa dalla claustrofobia di Pudor en animales de invierno a Estas conduciendo un dibujio, in cui la scena diventa tutta una città. Quando lavori a uno spettacolo nuovo, la scelta dello spazio è protagonista nel momento di creazione?

No, non è né la protagonista né l’antagonista nel momento della creazione. È molto bello che dall’esterno sembri così, ma quando realizzo uno spettacolo nuovo non penso al luogo, anche se è possibile avviare una riflessione su questo aspetto, dal punto di vista dello spettatore. Ogni mio lavoro ha un suo punto di partenza. Chiaramente lo spazio è un elemento fondamentale del lavoro scenico e artistico. 

Lo spazio e il tempo attraversano sempre il lavoro artistico e saranno sempre protagonisti, non esiste lavoro artistico senza spazio, anche quando si parla di spazio virtuale. Lo spazio però che mi interessa di più è la proiezione che se ne produce nella testa dell’altro, come questa viene attraversata: che sia uno spettacolo che prende luogo in un pozzo, in una scenografia di un teatro all’italiana classico, sopra una motocicletta, quello che importa è la costruzione e decostruzione nella testa dell’altro, dello spettatore.

Spesso parlando del tuo teatro dici che all’interno di uno spettacolo chi è coinvolto può cambiare ruolo: diventare regista, attore, drammaturgo, partendo da altro. L’arte ha un unico linguaggio secondo te? Oppure va distinta in linguaggi specifici?

Mi considero assolutamente poco teorico e molto più focalizzato sulla pratica, nonostante sia ugualmente interessato alla teoria teatrale e non abbia la minima intenzione di sottovalutarla, però mi interessa fare questo distinguo perché il mio è un approccio sicuramente più intuitivo. Certo, ci sono molte componenti, se si analizza un’opera d’arte sotto questo aspetto, il linguaggio può dare delle possibilità infinite. Adesso si parla moltissimo di drammaturgia, perlomeno a Buenos Aires, ma a mio avviso di tratta tutto sommato di una rete che dà sostegno all’opera. 

Se dovessi dire cosa rende uno spettacolo tale, direi la forza. Per me forza è una parola molto interessante, a tal proposito cito una frase di Oscar Wilde che considero importante: Nell’arte come nell’amore è la tenerezza che dà la forza. La forza, quindi viene da questa combinazione tra duro e morbido, da questa zona di mezzo. Un po’ come quando si usa il tornio per fare un vaso di ceramica, c’è bisogno di equilibrio tra durezza e delicatezza. Per questo motivo, non mi interessa l’arte come una questione estetica, ma piuttosto in relazione all’umano che non fa altro che oscillare in questo binarismo. 

Non è che non mi interessi l’estetica dei miei lavori, non lo giudicherei un elemento primordiale, ma come qualcosa che sta sempre in dialogo con qualcos’altro. Non è un disegno che mi interessa di per sé, per quanto mi piaccia tantissimo lavorarci e immaginarlo, alla fine qualsiasi idea ambiziosa che progetto, si può realizzare in maniera più precaria, trovando un’estetica in questa precarietà.

Come stai adattando il tuo lavoro presso la Iolanda Gazzerro alle condizioni attuali, e come i ragazzi stanno lavorando sulla riscoperta dello spazio?

Non c’è nulla di predefinito, si scopre man mano che si va avanti. È come entrare in una caverna, in avanscoperta, con una piccola torcia in mano. È anche una sorta di demistificazione di tutto quello che è lo spazio virtuale, che in fondo è solo un altro spazio da capire, con le sue caratteristiche. Per quanto riguarda dunque la questione spaziale, quella che è la singolarità del virtuale non è altro che un allenamento in più. Poi è chiaro che abbiamo la voglia di vederci, incontrarci, stabilire un vincolo tridimensionale. Ma una cosa non esclude l’altra. 

Lo schermo è un dispositivo narcotizzante, tremendo e pericoloso, ma ci è capitato di conviverci. In questo senso, possiamo chiederci cosa fare con questa paura che la società di cui facciamo parte ci sta infondendo. La realtà ci obbliga a dialogare questa difficoltà, costringendoci a riflettervi in quanto artisti, come artisti-corpi che si stanno pensando e ripensando. In questi termini, l’elemento più interessante di tutti come docente, come regista, è che le persone si possano pensare e ripensare come persone.