Favole al museo – XIV edizione delle Favole davanti al camino. Intervista a Davide Gasparro
Abbiamo intervistato Davide Gasparro, co-fondatore della Compagnia BezoarT:
Nel 2014 dieci attori della Scuola del Piccolo Teatro di Milano fondano una compagnia e subito danno vita al Piccolo Festival Teatrale nel comune di Bagnara di Romagna…
Ufficialmente ci siamo costituiti come associazione nel 2015, ma informalmente siamo nati nel 2014. La compagnia è stata fondata da Lorenzo Demaria, Valeria de Santis, Davide Gasparro, Gilberto Giuliani, David Meden, Sylvia Milton, Daniele Molino, Nicolò Parodi, Laura Palmeri, Francesca Tripaldi. Eravamo tutti allievi del Piccolo, era l’ultimo anno di scuola e una nostra compagna, Laura Palmeri, aveva ricevuto la proposta, da parte del sindaco di Bagnara di Romagna, di realizzare qualcosa di teatrale in paese per quell’estate. Ci siamo quindi messi a lavorare intorno a quello che poi sarebbe diventato il Piccolo Festival Teatrale di Bagnara di Romagna. I nostri primi spettacoli sono stati Il Misantropo di Molière e Scherzi del caso, da due atti unici di Čechov. Abbiamo iniziato così, con un’edizione “banzai”: eravamo totalmente sprovvisti di esperienza organizzativa, ci siamo buttati a capofitto e sia il sindaco che noi siamo rimasti stupiti dalla partecipazione riscontrata a Bagnara in quei primi quattro giorni di festival. Nei due anni successivi abbiamo avuto un esponenziale incremento di pubblico, anche grazie ad un lavoro più capillare: ci siamo occupati di tutto quello che ruota intorno a un evento del genere, dal rapporto col pubblico alla ricerca di fondi. Sono tutte cose che abbiamo imparato sul campo, non a scuola, chiedendo sempre consiglio a chi ne sapeva più di noi, e sempre contando su collaborazioni virtuose.
Cos’è BezoarT?
Posso dire della compagnia quello che non è: non è una setta, non è un ghetto, non è una famiglia allargata. Noi fondatori siamo un gruppo di attori che si sono incontrati a scuola, si conoscevano molto bene sul piano lavorativo e personale e volevano intraprendere insieme un percorso professionale e umano, nella libertà assoluta dei percorsi individuali di ciascuno: abbiamo sempre incoraggiato e auspicato che ognuno crescesse e portasse avanti un proprio percorso e siamo sempre stati convinti che l’incontro con altre persone, vite e storie all’infuori della compagnia potesse portare nuova linfa al suo interno. Adesso siamo in una fase di passaggio, inevitabile a mio avviso: se dopo quattro anni ci si rende conto che la struttura, la forma, il modo di stare insieme, che erano soddisfacenti nel 2014, non lo sono più, occorre il coraggio di fare un bilancio: domandarsi da dove veniamo, chi siamo e dove andiamo. Non so ancora dire cosa sia BezoarT in questo momento. A me piace pensarlo come un territorio libero, vorrei che in futuro fosse una piattaforma, un ambiente che attori emergenti, anche più giovani, o attori che ci interessano, della nostra generazione o no, possano attraversare. Questo mi interesserebbe: creare un terreno di incontri e di collisioni. Del resto un bezoar (che ci ispirò per il nome della compagnia) è un accumulo, un calcolo, un insieme di elementi diversi che si incontrano. Per fare cosa? Per cercare di rispondere a una domanda fondamentale: di che tipo di teatro ha bisogno questo nostro tempo?
E voi di che tipo di teatro avete bisogno in questo momento?
Il mondo sta cambiando rapidamente sotto i nostri occhi, la comunicazione ha delle forme che si stanno evolvendo in maniera rapidissima e dobbiamo fare i conti con queste mutazioni. Come risponde il teatro a questa velocità? Come si pone il teatro rispetto ad altri contenitori di intrattenimento culturale? Noi siamo stati testimoni di un certo modo di fare teatro, perché abbiamo avuto dei maestri – Ronconi in modo particolare, ma anche tutti gli insegnanti che provenivano dall’esperienza strehleriana – che hanno tracciato un sentiero molto preciso davanti ai nostri occhi, avevano un modo di vedere il teatro – e la sua funzione – estremamente chiaro. Da una parte è come se noi avessimo il compito di custodire delle cose. Faccio un esempio: gli uomini dell’Umanesimo riscoprirono i testi dell’antichità perché per oltre cinque secoli delle persone all’interno dei monasteri si erano prese la briga di ricopiarli. Senza quel lavoro di ricopiatura perpetua, dell’antichità noi non sapremmo niente. Credo in quel tipo di vocazione “benedettina”: se ho ricevuto qualcosa di inestimabile, il mio compito forse è traghettarlo da qualche altra parte, portarlo altrove; io non so dove sia questo altrove, non so come sarà tra dieci anni il teatro che faremo, ma nel frattempo io custodisco. Poi si dovrebbe cercare di leggere il tempo che viviamo. Credo che oggi la gente abbia bisogno di ristabilire un contatto con la propria parte emotiva più profonda, e con “parte emotiva più profonda” intendo un enorme ventaglio di sfumature emotive che ognuno di noi possiede e che la maggior parte di noi ha dimenticato. Viviamo in una bolla in cui sembra tutto pervaso di appiattimento, cinismo, un livellamento tale che siamo sballottati tra estremi opposti: dall’odio più sfrenato all’amore più totalizzante, dimenticando che ci sono le sfumature. Certe volte ho la sensazione che la gente abbia timore di provare le emozioni nella loro complessità, cercare di dare un nome a quello che le attraversa, anche a teatro, anche davanti a una bella storia. Non mi scorderò mai ciò che mi è capitato a Bagnara di Romagna dopo una replica di Romeo e Giulietta: due uomini sulla cinquantina escono dalla rocca e uno sussurra all’altro, quasi fosse un segreto o qualcosa di cui vergognarsi, “oh, ma sai che mi sono emozionato e non me lo aspettavo?” Questi sono dei campanelli d’allarme, o perlomeno delle cose su cui riflettere. Secondo me resta fondamentale il rapporto tra lo spettatore e l’attore, e noi gente di teatro siamo i primi ad aver bisogno di ricostruirci come esseri umani per uscire dagli schemi degli intellettualismi e recuperare il valore dell’incontro, prima di tutto tra noi. A me più che lavorare con attori “bravi” piacerebbe fare incontri interessanti, umani, perché se io riesco a lavorare facendo incontri che mi fanno crescere come persona, inevitabilmente lo spettacolo si arricchirà e – forse – potrà presentarsi al pubblico in una forma il più possibile “vitale”.
Il vostro repertorio raccoglie spettacoli marcatamente eterogenei: a cosa credi sia da imputare questa varietà di linguaggi?
All’inizio l’approccio era molto libero, chiunque di noi poteva proporre un progetto e assumersi la responsabilità della regia. Questo ha comportato una diversificazione di estetica e di vedute e quindi anche del repertorio: da Saturazione, un esperimento di partiture fisiche piuttosto lontano dalla nostra formazione, agli spettacoli più classici di Bagnara, dai lavori di drammaturgia originale, alle Fiabe pensate per il pubblico più giovane… Tanti sguardi in un unico contenitore. Adesso invece la linea è affidata soprattutto a me. Ho appena cominciato a lavorare a un progetto su Paolo Grassi, una figura per me di riferimento. Mi sembrava un buon modo per ripartire con la compagnia, sotto la buona stella di un personaggio così straordinario. Tornerò in scena dopo un po’ di tempo perché ho voglia di mettermi in gioco esponendomi di più e perché avverto l’esigenza di raccontare questa storia in prima persona. Un progetto che debutterà prossimamente, invece, è una drammaturgia originale ispirata a Calvino, concepita insieme a David Meden, con il quale portiamo avanti il progetto dal 2015.
Attualmente siete impegnati al museo Bagatti Valsecchi per il progetto Favole al museo – XIV edizione delle Favole davanti al camino. Vi è capitato spesso di relazionarvi con spazi non propriamente teatrali: qual è il vostro rapporto con lo spazio scenico?
È il quarto anno che il museo Bagatti Valsecchi ci dà fiducia, il progetto funziona e noi siamo felicissimi, perché un pubblico composto da bambini è un banco di prova incredibile. Quest’anno presentiamo due delle Storie allegre di Collodi. Nel museo Bagatti Valsecchi abbiamo a disposizione un salone talmente bello che non abbiamo mai sentito la necessità di montarci su una scenografia. Usiamo degli elementi, sì, ma per il resto quello spazio racconta di per sé così tanto che fa da scenario naturale, proprio come la rocca di Bagnara. È sempre interessante lavorare con quello che si ha. Noi cerchiamo sempre di trasformare il meno possibile lo spazio. Se delle cose dello spettacolo non sono indispensabili nel luogo dove lo vai a rappresentare, conviene toglierle. Quando abbiamo portato Romeo e Giulietta al LAC di Lugano, invece, abbiamo dovuto riallestire uno spettacolo – nato all’aperto – in un palcoscenico con un’apertura di 20 metri. Lo spazio ti condiziona sempre, l’importante è averne rispetto e cercare di lavorare con lo spazio, non contro lo spazio. Posto che si può lavorare anche contro lo spazio, è una scelta. Grazie a Dio, in teatro si può fare tutto.