Il fallimento di Saul, tra Gide e l’Antico Testamento. Intervista a Giovanni Ortoleva
Se questo è il migliore dei mondi possibili, allora dove sono gli altri?
(Voltaire – Candido)
Era il 1759 quando Voltaire scrisse Candido. Prese di mira e ribaltò la concezione secondo cui la bontà divina sceglie sempre la migliore tra le infinite combinazioni delle monadi, le sostanze costitutive del mondo.
Prendendo le mosse da riflessioni analoghe, Giovanni Ortoleva e Riccardo Favaro hanno riscritto la vicenda di Saul, personaggio biblico in forte connessione con il declino e le ossessioni della contemporaneità. A ispirare il processo di scrittura sono stati il Sauldi André Gide, un dramma in cinque atti, e l’Antico Testamento. In quest’ultimo, Saul viene presentato come il primo re d’Israele, eletto da Dio e da Lui successivamente ripudiato. Il giovane David, mandato a palazzo, riesce a risollevare il sovrano dal dolore in cui è precipitato con il suono della sua cetra che diventa, nella chiave interpretativa di Ortoleva e Favaro, una tastiera elettrica. Non è l’unica variazione che coinvolge il personaggio: da pastore accondiscendente diventa un iconico performer, il ragazzo emergente, la “guest star” in una pianificata collaborazione artistica.
In questa drammaturgia il frontman al crepuscolo vive il declino della sua leadership in una camera d’hotel. Suo figlio Gionata è diventato una sorta di segretario personale; un manager assistant con un’alta resistenza allo stress che sacrifica qualche pezzo importante della sua vita privata. Saul cerca di resistere al cambiamento che procede verso la fine ineludibile, ma è una star, un padre, un uomo che cade e che fallisce. In questo triangolo si inserisce David che in breve tempo, conquista l’attenzione dei due uomini. Quando però il giovane sconfigge il gigante Golia, il suo ruolo diventa più grande di quello per cui è stato annunciato.
Al re sembra quasi di non riconoscerlo più, come se fosse un’altra persona, ed è proprio questo il taglio originale della storia raccontata da Giovanni Ortoleva eRiccardo Favaro: il fallimento individuale diventa il paradigma di un sistema sociale. Condensato nell’apice di una battuta di Saul: “Sono nel posto in cui non sono ora e mai sarò”. Rappresenta la dimensione del tempo presente con il vuoto di identità e delle relazioni. L’interrogativo filosofico di Voltaire allora potrebbe essere così riformulato: « Se questo è il migliore dei mondi possibili, perché non sembriamo tutti così felici? ».
Menzione speciale alla Biennale di Venezia 2018, concorso “Registi Under 30” lo spettacolo, diretto da Giovanni Ortoleva con in scena gli attori Marco Cacciola, Federico Gariglio e Alessandro Bandini ha debuttato a luglio 2019 proprio alla Biennale di Venezia iniziando una tournèe nazionale.
Parliamo dello spettacolo con il regista Giovanni Ortoleva a partire dalla genesi del progetto artistico presso La Biennale Teatro di Venezia.
La Biennale Teatro di Venezia ha caratterizzato una fase molto importante della tua carriera?
L’esperienza della Biennale è stata molto lunga e complessa. Tutto è iniziato con il concorso registi Under 30, le sue varie fasi di selezione fino a quella finale, a inizio Agosto 2018; in quell’occasione abbiamo ricevuto la menzione e un anno dopo è avvenuto il debutto. È stato un percorso di crescita molto importante. Ogni step mi ha portato a confrontarmi con qualcosa di diverso. Il primo passo è stato quello di convincere il mio interlocutore che avevo qualcosa da dire. Il secondo, quello di farglielo vedere in 10 minuti. Il terzo in 30. Ogni fase ha portato delle grandi crisi che, come si sa, sono sempre molto formative. È stato un percorso lungo, faticoso ma arricchente in un modo incredibile. Non solo per l’opportunità di debuttare di fronte a quel pubblico, in quella sala, in quel contesto, ma anche per tutto quello che mi ha fatto capire di me e del modo in cui lavoro.
Un’esperienza formativa molto importante è stato il laboratorio con Antonio Latella. Che ricordo hai di quei momenti?
Quell’incontro è stata la miccia che ha fatto scattare tutto. È come se fosse stata la chiave giusta per me in quel periodo in cui il teatro era un interesse ma non una professione (studiavo Neuroscienze, all’epoca). Il laboratorio metteva al centro la drammaturgia, mostrando come in essa può confluire non solo la parola ma anche la musica, il movimento, l’immagine… È stato importante per me conoscere subito quella forma di drammaturgia “ricca”, perché la cosa che mi interessava di più in teatro non è mai stata solo la parola. Quell’incontro mi ha fatto intravedere delle strade, delle possibilità per il teatro che io non conoscevo.
Il processo di scrittura e di composizione drammaturgica per te è qualcosa che nasce ed emerge in modo istintivo?
Saul è stato un lavoro a quattro mani. Ho collaborato con Riccardo Favaro, il quale ha creato la prima parte. Io ho composto la seconda, la terza l’abbiamo realizzata insieme scrivendo indipendentemente vari pezzi che poi abbiamo unito in una sorta di collage. È stato molto eterogeneo come processo; mentre sui primi due atti ci eravamo confrontati, prima che ognuno di noi li scrivesse, c’era stata una pianificazione insomma, sul terzo abbiamo improvvisato. Abbiamo deciso che avremmo usato la forma frammento e ci siamo rivisti dopo un paio di settimane. Abbiamo messo tutti i segmenti sul tavolo e cercato l’ordine, la composizione migliore. Ci siamo mossi in libertà ma dentro gli schemi molto stretti che ci siamo dati. Darsi una griglia il più rigida possibile per cercare di scardinarla, di andare oltre; nella disciplina più stretta si trova una grande libertà.
Ci sono degli elementi, dei temi ricorrenti che caratterizzano la tua scrittura la tua visione registica?
Parlo spesso di fallimento, nel precedente spettacolo Oh little man ho parlato di un tracollo finanziario, in Saul parlo della disfatta dell’anima, dell’artista, dell’uomo di potere. Mi interessano sicuramente molto le ascese e le cadute, ciò che rende una persona quella che è, ovvero ciò che dà a quella persona identità. Per questo mi interessano le crisi, i fallimenti; perché causano delle rivoluzioni all’interno. Mi interessa molto il modo in cui gli eventi “esterni” entrano “dentro” le persone, influenzano il loro modo di definirsi. In questo senso dico che bisogna parlare di soldi, perché li abbiamo in testa in un modo ossessivo ma non riusciamo a parlarne. Oppure lo facciamo sempre male: con esibizionismo, o con vergogna, o in modo morboso… È diventata una sorta di tabù parlare delle proprie condizioni economiche in modo limpido, il che è disgustoso.
In che modo vengono sviluppate le dinamiche di empatia tra i protagonisti di Saul e il pubblico?
Una cosa che mi ha sempre incuriosito è che è David, colui che di fatto prenderà il potere alla fine, che crea empatia con il pubblico, mentre Saul è una figura respingente verso il quale si prova una sorta di fastidio; è un fallito, posseduto dai demoni, un personaggio repellente che non vorremmo essere. Abbiamo difficilmente accesso alla sua “umanità”, fino alla fine, in cui ne dà una prova che, credo, arriva a spiazzare. In ogni caso il pubblico “sta” con quello che tradizionalmente sarebbe l’antagonista. È una vicenda in cui è molto difficile stabilire chi sia il protagonista, nonostante il titolo ne inquadri uno in modo chiaro.
Oltre a quello materiale e politico sembra esserci un’altra forma di potere, quello dei sentimenti, in un rapporto a tre. Era quello che volevi analizzare?
Il tema dell’omosessualità deriva da Gide il quale ha avuto una grande intuizione, ha letto bene quello che nella Bibbia è solo accennato ma con grande precisione. Più che sull’omosessualità per me è uno spettacolo sull’amicizia. La storia d’amore tra David e Gionata in realtà è un prolungamento della loro amicizia fraterna. La loro è un’affinità elettiva. Non concordo con Houellebecq, il quale scrive che l’amicizia è una sorta di “amore light”, un sentimento debole. Penso tutto il contrario. Quella che si instaura tra David e Gionata è una dinamica che fa sì che Saul sia il perdente: il loro legame li porta in una dimensione cui Saul non può accedere, nonostante ci provi disperatamente. Lo spettacolo ha in calce una frase che deriva da uno standard blues di Jimmy Cox, “Nobody knows you when you’re down and out” (Non piaci a nessuno quando sei a terra e finito). Trovo che sia vero il fatto che quando hai successo sei più bello, e che quando o se cadi quell’allure si perde. È una cosa spaventosa, in realtà. Non so se viene dal fatto che andiamo dietro e ci attacchiamo alle persone di successo perché è lì che vogliamo arrivare, o dal fatto che siamo più belli quando abbiamo successo perché siamo più felici. Non è una cosa che critico, però, come diceva Rainer Werner Fassbinder: “Se non la puoi cambiare la devi almeno provare a descrivere”.
In Saul ognuno dei protagonisti reca in sé un dramma interiore; c’è un flusso di parole, di azioni, tanti linguaggi. Che tipo di ricerca e di utilizzo hai fatto sui movimenti?
Mi interessa molto la dimensione del movimento nel teatro di prosa. Noto che sta diventando centrale anche a livello formativo, per cui molti attori che escono delle scuole adesso sono molto più forti da quel punto di vista e questo è molto importante. In Saul il lavoro sul movimento è avvenuto in modi diversi. Per la scena della cena, ad esempio, era già in scrittura. In un certo modo il ritmo della narrazione dettava anche il movimento, tanto che lo abbiamo scritto e montato nell’arco di neanche un’ora, perché già dalla lettura era chiaro a tutti come girava la scena. Nella parte finale, invece, non c’era nessuna idea inscritta nel testo. Allora abbiamo iniziato a pensare a questo concerto. Tutti noi abbiamo una grande fascinazione per la Videodance e ci sembrava giusto che la potenza di Davide potesse essere espressa non solo con la spada ma anche con la danza, un movimento contemporaneamente vigoroso e molto femminile, in alcuni casi anche fragile. È padrone di quelle movenze ma al tempo stesso ne è posseduto; deve eseguirle, “per contratto”.
Un altro ingrediente di Saul è il meccanismo della ripetizione…
L’elemento di ripetizione deriva dalla Bibbia, dove gli eventi sono replicati diverse volte perché assumono significati diversi. Per esempio Saul conosce David due volte. Dopo che ha sconfitto Il Gigante, Saul chiede in giro chi sia quel ragazzo, dopo averlo in realtà già incontrato e aver stretto con lui una forte amicizia. Questo potrebbe essere letto come un errore, ma l’altra possibile e interessante lettura è che quando diventa evidente che il ragazzo prenderà il trono, in quel momento il re vede un’altra persona. Non più l’amico ma il nemico. Noi allora abbiamo esasperato l’elemento di ripetizione, facendolo diventare linguaggio scenico.
Ne Il Visconte dimezzato Calvino dichiarava che “Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane”. Qual è il tuo pensiero?
Non per dire che non mi appartiene questa frase, ma la ribalto dicendo che l’incompletezza non si cura con l’età. Con l’avanzare degli anni si smette probabilmente di cercare, si smette di sentirsi incompleti forse, non di esserlo. Ci si accetta. E poi non ho un problema con il sentirmi incompleto, perché per quanto sia sgradevole mi tiene vivo. Sentirsi inadatti è una grande spinta a fare, a cercare. Insomma è un trucco, ma funziona.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.