Le atmosfere drammatiche di Sarah Kane. Intervista a Giorgia Filanti e Serena Borelli
Tre guerriere indomabili, combattive e visionarie. Giorgia Filanti, regista e creatrice dello spettacolo teatrale Performing 4:48, definisce così sé stessa, Serena Borelli, protagonista e interprete del monologo e Caterina Guida, coproduttrice della performance e direttrice insieme a Stefano Roselli, della Ka.st, associazione culturale che produce spettacoli ed eventi.
Dopo le repliche al Teatro Due, programmate dal 23 al 26 giugno, Performing 4:48 andrà in scena il 5 e il 6 agosto durante la rassegna R.Estate in scena, organizzata dall’associazione Ka.st in collaborazione con Fondazione Città di Terracina e Parco Oasi.
Performing 4:48 è un ritorno a quella data, il 9 marzo, in cui tutto è stato drammaticamente interrotto. Come è nato questo spettacolo e cosa significa per voi?
Giorgia Filanti: Non voglio usare i termini rinascita e resistenza. Performing 4:48 rappresenta una novità. La sera del debutto, durante il momento dei ringraziamenti, ho detto che io, Serena Borelli e Caterina Guida siamo tre guerriere. L’ho fatto pensando a tutte quelle persone che ci hanno prese per pazze nel voler ritornare a teatro, in un clima postatomico. Come delle superstiti, con le nostre ansie e le paure, con la voglia di fare, di creare qualcosa di nuovo, con autenticità. Non sapevamo neanche come, quando e se poter andare in scena, ma alla fine ci siamo riuscite e il pubblico ci ha sostenuto. Io e Serena abbiamo lavorato insieme a vari spettacoli. Da più di un anno avevamo in mente di lavorare a stretto contatto su un monologo, partendo dalle atmosfere e dalle suggestioni di Sarah Kane. Il progetto è iniziato poco prima del lockdown, successivamente le prove sono state interrotte.
Lo spettacolo è un universo femminile in movimento tra drammaturgia, regia, recitazione e produzione. Partendo da Sarah Kane, quale profilo di donna viene a delinearsi tra teatro e società?
Serena Borelli: Teatro e società per Sarah Kane sono un binomio molto forte, all’interno di quello che può essere considerato come un testamento letterario, pubblicato dopo la sua morte. Mi viene da pensare che lei abbia avvertito la necessità e l’urgenza di comunicare qualcosa di forte. Ci ha lasciato diversi testi, diversi spaccati di vita più o meno crudi, più o meno poetici. È come se avesse piantato dei semi che giungono alla fioritura finale, nell’ultima opera. È come se lei stessa fiorisse, rinascendo a nuova vita. Sarah Kane è stata molto osteggiata come drammaturga. Il suo primo, irruente testo ha avuto delle reazioni contrastanti. Il suo punto di vista, la sua visione è insieme mortale e vitale. Però c’è stata e c’è una connessione molto potente con la società, tra quello che lei ha scritto e vissuto.
GF: Essere in corrispondenza con un drammaturgo è qualcosa di molto particolare. Comprendo perfettamente tutto ciò che ha scritto Sarah Kane anche se non ho la sua capacità di scrittura e la sua creatività immaginifica. Serena e io, in precedenza, avevamo percorso le sue atmosfere, da Phaedra’s love a Crave. La Kane parla da outsider più che da donna, trascende il suo genere, perchè lei si è sempre sentita così. Una provocatrice. Trovo riduttivo, nel suo caso, parlare solo di “invettive liriche”. La sua capacità letteraria è altissima, non è solo provocazione. In questa performance ho chiesto a Serena Borelli di entrare nella mente di Sarah Kane, usando il corpo e le parole. Proprio perché l’attore, drammaturgicamente parlando, è voce e gesto.
Elementi che hanno entrambi la stessa potenza e importanza. Tutte le opere della Kane sono collegate, si trovano le stesse battute in testi differenti e c’è un legame tra di loro. Più si studia il suo mondo e più lo si comprende. Parla dell’incapacità dell’essere umano di comprendere qualcosa che è differente dai clichè e che fa paura perché il disagio, la malattia mentale, l’indipendenza sessuale o intellettuale creano disturbo.
SB: Lui, lei, ”l’ermafrodito ferito” parlano all’uomo e alla donna. A tutti, ai reietti, a chiunque nella vita ha ricevuto un no, una porta chiusa in faccia. A chi ha provato dolore, vergogna o una gioia profonda e tutto ciò è universale. Parla di umanità, della fragilità, della forza. Dell’essere e del non essere. Quello che dice ci tocca e ci appartiene. Ci commuove nel senso di “muoverci con”, trasportati dalle sue parole. All’inizio, ho trovato incomprensibili, dure quelle battute che contengono dei controsensi. Noi siamo questo: siamo tutto e il suo contrario, la bellezza e la bruttezza. Siamo il buio e siamo l’ombra, in un gioco di equilibri e di disequilibri che rappresentano la nostra vita.
La sua poesia è questa, pian piano senti che qualcosa o qualcuno si muove dentro di te. È stato magico entrare nella mente di Sarah Kane. I movimenti non sono stati studiati o imposti, sono arrivati spontaneamente. La frenesia come la stasi, accadevano e fiorivano elementi che si sono rarefatti. Assistere a questo prodigio è stata un’epifania per noi, come l’immagine di un puzzle. Cominciando dal bordo, pezzo dopo pezzo, siamo andati verso il centro e da un’altra parte ancora. Alla fine è arrivata l’immagine, ma non siamo partiti dalla forma.
Il corpo come linguaggio espressivo. Che tipo di ricerca e di uso è stato fatto?
SB: Le parole risuonano, diventano materiche e colpiscono i sensi, non solo l’udito. Diventano tridimensionali. Il lavoro materico è stato quello di spezzare la parola per darle maggiormente corpo e sostanza. Abbiamo fatto un lavoro sulle emozioni con Giorgia. Mi ha detto: «Lasciati attraversare, non cercare di essere arrabbiata o disperata, ma senti come risuonano quelle espressioni. Muoviti con loro». Da questo movimento è nata una struttura che sembra rigida,ma all’interno di essa mi muovo liberamente. Mi aiuta avere una griglia perchè non mi fa perdere, ma quelle parole non hanno una forma che mi imprigiona, non è un’armatura. È come un trampolino, un elastico che mi aiuta ad arrivare ad altre immagini, altre suggestioni, creando nuove forme all’interno della struttura.
Uno dei nuclei tematici ricorrenti nelle opere di Sarah Kane è la famiglia. Come lo avete sviluppato?
GF: È un argomento ricorrente in tutte le opere di Sarah Kane: dalla famiglia incestuosa di Phaedra’s love, dove c’è la rivisitazione del mito di Fedra, la matrigna che vuole concupire il figliastro, fino a Crave dove non si capisce chi è (e se lo è) il genitore di chi e chi ha rapporti con chi. La Kane gioca molto con l’ambiguità, ma leggendo i suoi testi, tutto ha un senso. Alla base ci sono i rapporti familiari con gli archetipi: il padre e la madre. Molto spesso, come autrice, lei utilizza l’invettiva rabbiosa nei confronti delle figure genitoriali. La cosa che più mi piace di Sarah Kane è il suo sarcasmo, l’ironia e l’autoironia. Le relazioni nel contesto familiare sono esattamente come gli strumenti del gioco, i cambi di ruolo nel teatro.
SB: Mi viene da dire che per la Kane si tratta di una forma di sacrificio. Forse è come se avesse utilizzato la sua ironia e il suo sarcasmo anche per proteggersi. Perché per lei, evidentemente, il dolore è stato tanto. Il riferimento alla famiglia è forte e chiaro. L’incomprensione, quella che investe e coinvolge i reietti della società, forse comincia da lì. Per tutti quelli che sono stati rifiutati, la non comprensione ha origine proprio dal nucleo familiare.
GF: Nella normalità delle cose, per me, anche chi reietto non è, ha o ha avuto un rapporto nefasto con i propri genitori. Nella misura in cui non è cosciente di ciò. Il reietto è un outsider che esprime il suo rifiuto. Chi invece è connivente in situazioni e in rapporti deliranti, tenderà a sguazzarci dentro per tutta la vita. In questo senso la ribellione di Sarah Kane non è stata salvifica, ma l’ha portata alla morte.
“Scompaio, guardatemi” scrive Sarah Kane. È l’urlo disperato, il bisogno di accettazione?
GF: Per il bisogno di essere accettato, riconosciuto dalla società, ogni essere umano continua a essere ingannato. Unitamente a questo, c’è l’esigenza di essere visti, rispettati. Nel momento in cui ognuno si mostra agli altri per ciò che è, senza manipolazioni o finzioni, dovrebbe essere riconosciuto, accolto. Invece, ciò non avviene spesso. Chi arriva al punto di suicidarsi è rimasto nudo, privo di quel riconoscimento. È anche una modalità, quella del suicida di scaricare la responsabilità da se stessi: riconoscimi – salvami- aiutami perché io non mi riconosco. C’è anche questa ambivalenza in Sarah Kane, ogni cosa non ha mai un solo significato.
SB: Con Sarah Kane si scende sempre più verso il nucleo. «Covalidatemi, autenticatemi, guardatemi, amatemi», è ciò che lei scrive e chiede. Guardare è un atto esteriore, amare è un atto interiore. Tutti i suoi testi hanno una continua ambivalenza. «Tu avrai per sempre un pezzo di me perchè hai avuto la mia vita tra le mani questo mi distruggerà». Il suo è un grido che perde potenza ma ha una forza dirompente fino a diventare muto. La sua è una richiesta d’amore che arriva a uccidere gli altri. Un aspetto insopportabile di chi si toglie la vita è come fai stare chi resta. Un atto dilaniante, a tratti incomprensibile come la mente umana. Si arriva a preferire la morte quando si è incapaci di sentire, e la Kane vuole sentire tutto.
Il vostro binomio artistico è ricco di esperienze e di momenti condivisi. Cosa vi unisce?
SB: Con Giorgia ci siamo conosciute in uno spazio artistico, durante un momento di prova, per un progetto che poi non andò in porto, ma per incontrarci artisticamente, i tempi non erano ancora maturi. Abbiamo fatto uno spettacolo insieme come attrici ed è stata una bellissima esperienza. Successivamente non ci siamo più ritrovate, come atomi che non si incontrano. Giorgia mi chiamò per i provini dell’Amore di Fedra a cui ho partecipato. Ho avuto difficoltà a entrare nel nero dell’anima della protagonista, una donna perturbata: «Pensavo che non ci fosse qualcosa di più nero del desiderio». Secondo me Sarah Kane non salva nessuno perché ama tutti. Dopo ancora c’è stata l’esperienza con Crave che porto con me, nel mio cuore. Già da quel momento avevamo iniziato a dirci che avremmo lavorato insieme. Avevamo bisogno di tempo di maturazione per arrivare al nostro binomio artistico.
GF: Il mio è un metodo di lavoro fondato sulle immagini. Ogni interprete deve avere capacità attoriali, una formazione e preparazione dal punto di vista fisico e vocale, ma anche un grande immaginario, una capacità di innocenza. Un attore, un’attrice completi, con i quali si possa lavorare sulla creatività. Crescendo insieme e andando verso i territori inesplorati della sperimentazione, in maniera autentica, spontanea, sincera.
C’è un vuoto secolare, nel teatro classico, per ciò che riguarda la drammaturgia e la regia al femminile. Nel tempo presente, invece, pensi che sia stato realizzato un percorso di ascolto, dialogo, contaminazione tra i generi?
GF: Penso che nel mondo dello spettacolo il sessismo sia presente in misura maggiore rispetto al maschilismo. Secondo me le donne del mondo del teatro, almeno qui dove vivo, a Roma, fanno fatica, sembra che debbano sempre dimostrare qualcosa. Nel mio modo di concepire e fare regia c’è un gusto squisitamente femminile. Non mi piacciono quelle situazioni in cui sembra che una donna debba dimostrare o difendersi. Fondamentale è avere la possibilità di esprimersi liberamente. Può sembrare scontato, ma non lo è.
Per me l’arte è di chi la sa percepire, cogliere, apprezzare e amare. Ogni scelta, ogni situazione nasce dalla necessità di affermarsi come individuo e io penso che la sfera sessuale faccia parte dell’identità di un individuo; è una delle sfere fondamentali che riguardano l’esistenza.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.