Teatro, tra discriminazione e denuncia. Intervista ai Corps Citoyen

Teatro, tra discriminazione e denuncia. Intervista ai Corps Citoyen

Tra i primi spettacoli presentati a Santarcangelo festival 2050 – II movimento, Gli altri dei Corps Citoyen ha colpito per la capacità di mostrare in maniera cristallina la stereotipizzazione che la società occidentale applica costantemente a chi proviene da fuori, in questo caso un Paese arabo. Il nucleo della compagnia è composto da Anna Serlenga, regista e Rabii Brahim, attore. Vivono a Milano, dopo aver lavorato per anni in Tunisia, Paese di provenienza di Brahim. La rappresentazione è fortemente radicata nelle esperienze reali del gruppo, infatti l’angolo visuale è proprio quello del lavoro attoriale, nello specifico della violenza delle richieste nei casting e nella ristrettezza dei ruoli che vengono «permessi» ad un interprete arabo. 

Brahim incarna il continuo e frustrato tentativo di presentarsi per ciò che è e non per un prodotto subculturale precostituito. Sulla scena anche Marko Bukaqeja e Anja Dimitrijevic che, manovrando la telecamera, rendono possibile la riuscita interazione con il video, utilizzato per interpellare la cattiva coscienza degli spettatori e renderli parte del sadico gioco discriminante. 

Abbiamo parlato con la compagnia, fautrice anche di diversi lavori partecipativi sul territorio per abbattere le barriere colonialiste, al di qua e al di là del Mediterraneo.

Lo spettacolo trasmette molto dolore, perché di fatto parla di una violenza legata all’immaginario collettivo che però si scatena sempre su un singolo. Come avete maneggiato questa emozione nel costruire il lavoro?

Rabii Brahim: Abbiamo usato l’ironia, perché fa piuttosto ridere che ancora oggi parliamo di razzismo ed esclusione, per giunta nell’ambito della produzione culturale. Alcuni ci hanno detto che è sbagliato che lo spettacolo sia divertente, ma secondo noi era il modo giusto per affrontare queste tematica. 

Succede questo ancora oggi: quando vado a fare dei provini, i ruoli che mi propongono sono spacciatore, rider…in qualche modo siamo anche noi attori e attrici afrodiscendenti ad alimentare questa macchina tritatutto, perché non ci siamo mai rifiutati in massa di accettare queste proposte, trattandosi di lavoro. Personalmente però ho detto di no alcune volte. Ci siamo chiesti come denunciare la situazione che viviamo e il risultato è stato quello di fare lo spettacolo, non è stato il presupposto.

Anna Serlenga: Molti provini che Rabii ha vissuto poi sono confluiti nello spettacolo, tutto ciò che si vede proviene da esperienze reali. Questo lavoro ha avuto una gestazione molto lunga, innanzitutto perché siamo una compagnia indipendente senza nessun supporto produttivo. Questo progetto è stato possibile grazie a tante persone che ci hanno aiutato e ad alcune residenze, abbiamo provato anche in spazi occupati come il Conchetta a Milano. Poi c’è stata la pandemia, i materiali video presenti li abbiamo raccolti nel periodo delle chiusure, non potendo lavorare abbiamo pensato di lanciare questo finto casting a «gli altri», che poi sono amici e colleghe che vivono in giro per l’Europa. 

Volevamo partire dal nostro mondo, dalle nostre storie personali e dal contesto del lavoro teatrale, ma è un modo per raccontare la società intera. Lo stesso dispositivo di potere ed esclusione si replica ai colloqui di lavoro, alle poste, al bar. L’ultima residenza l’abbiamo fatta allo spazio indipendente Tatwerk di Berlino, promotore di un attento lavoro di cura e supporto delle compagnie. L’esito di quelle giornate è stato un esperimento su un canale digitale live, che ci ha permesso di far vedere lo spettacolo anche a tante persone che abitano in altri Paesi e che ci si sono ritrovate.

Dei tanti stereotipi che vengono evocati, colpiscono quello della ricerca insistente dell’attrice e dell’attore completo e la richiesta di aderire al folklore dei Paesi di provenienza, facendone un utilizzo umiliante.

R.B: Nei casting ci sono sempre delle richieste sottili non dichiarate. Noi le abbiamo esplicitate: pretendono che tu sappia cantare, ballare, suonare contemporaneamente, sostanzialmente devi fare la scimmia davanti a chi seleziona e poi chissà se ti prenderanno o meno. 

A.S: È il concetto di integrazione subalterna. A chi viene da fuori viene richiesto di integrarsi, ma per riuscirci deve fare moltissime cose che a noi italiani nativi non vengono richieste: conoscere tutta la costituzione, fare un giuramento eccetera. Loro devono essere «completi» e competenti, saper fare tutto, poi qualcuno deciderà cosa possono fare o meno. Amleto non gli verrà mai affidato come ruolo, se va bene Otello, mentre per lo spacciatore non ci sono problemi. Con Viviana Gravano, un’esperta di post-coloniale, abbiamo fatto un ragionamento molto interessante: quando ci rapportiamo alla cultura altrui, la consideriamo come immobile. Gli altri non sono nella linea del progresso o della storia, quindi dell’Africa ci si fa l’immagine del gonnellino di paglia o simili, se sei africano sicuramente saprai suonare il tamburo e avrai il ritmo nel sangue. 

Il punto è la cancellazione dell’individuo, dei suoi gusti e preferenze, perché viene ricondotto sempre ad uno stereotipo.

A.S: Esatto, infatti quando nello spettacolo viene chiesto a Rabii di raccontare la propria vita, le sue parole vengono stravolte per ricondurle al discorso desiderato. La biografia del singolo deve ricalcare una storia che è già scritta a prescindere. Perché la migrazione viene trattata come una questione di ordine pubblico, di sicurezza, di ingresso illegale in Italia. Quindi si sta già comunicando che è sotteso un pericolo e si crea un tipo di immaginario.

Si è concluso il primo anno di Milano Mediterranea, il progetto a cui avete dato vita nel quartiere Giambellino per intersecare lavoro sul territorio e ricerca artistica con un approccio post-coloniale. Andrà avanti anche il prossimo anno?

A.S: Sì, andrà avanti perché siamo riusciti a vincere un bando per finanziarlo. Faremo alcuni aggiustamenti ma il cuore del lavoro territoriale con le diverse anime che abitano il quartiere rimarrà. Stiamo ragionando sull’opportunità di dotarci o meno di uno spazio, la modalità nomade ci ha spinto a parlare con gli altri, abbiamo creato tante sinergie con realtà come Colorificio, Base, Marea Culturale. È un processo ancora in divenire.

Breviario di relazioni possibili e ibridazioni fantastiche. Intervista ai Motus

Breviario di relazioni possibili e ibridazioni fantastiche. Intervista ai Motus

Una festa lunga due anni: il cinquantesimo anniversario del Festival di Santarcangelo terminerà con la prossima edizione, l’ultima della direzione artistica dei Motus. Dall’8 al 18 luglio ci si riunirà ancora per immaginare un «futuro fantastico» che sia sempre più inclusivo, alle frontiere della sperimentazione non solo nel teatro ma anche nel pensiero e nelle relazioni.

Un programma con molteplici centri di interesse dove perdersi è forse il giusto approccio, perché l’artista affermato di casa nostra e la nuova proposta da un continente straniero possono dialogare alla pari in un contesto dove i valori tradizionali della scena vengono depotenziati in favore di sguardi nuovi. Il fulcro della ricerca sarà infatti nella relazione con ciò che è abitualmente più distante, affinché il contatto possa generare cortocircuiti e mutazioni: shapeshifter o mutaforma è la figura sotto cui l’egida prenderà vita il festival. Un’elaborazione che deriva dall’approfondimento dei temi già emersi lo scorso anno, il superamento dei generi diviene infatti messa in questione delle barriere tra umano e non umano.

Una costellazione di questioni che verrà affrontata collettivamente non solo attraverso i numerosi spettacoli e incontri ma anche con un esperimento ad hoc: l’accampamento How To Be Together. Un gruppo di persone selezionate tramite call (con scadenza il 23 maggio) passerà l’intero periodo del festival immaginando nuove forme di convivenza, sia nell’atto concreto del dimorare insieme che negli specifici percorsi di studio e ricerca.

Il rapporto con l’alterità non poteva non prevedere incursioni nei territori di mondi artistici affini, quest’anno il programma dei concerti sarà curato da Christopher Angiolini del Bronson e non mancheranno numerosi appuntamenti con il cinema. Arrivando alle performance e al teatro, possono essere individuati tre grandi nuclei: la partecipazione internazionale, quasi impossibile lo scorso anno, stavolta sarà rappresentata soprattutto da artiste provenienti da Paesi extraeuropei; la sezione dedicata ai «nuovi inizi» ospiterà i gruppi che avrebbero dovuto esibirsi nella finestra invernale Winter Is Coming; infine, i numerosi ritorni delle compagnie del cuore: Ermanna Montanari, Romeo Castellucci, Fanny&Alexander, Zapruder e molti altri, spesso impegnati in progetti collaborativi o creati appositamente per il festival.

Delle difficoltà incontrate nel realizzare queste edizioni, ma anche della peculiare idea curatoriale che ha guidato le scelte e del rapporto con le giovani generazioni, abbiamo parlato con i direttori artistici Daniela Nicolò e Enrico Casagrande.

Che tipo di esperienza è stata organizzare questo cinquantennale in tempi pandemici?

Daniela Nicolò: Sentivamo molto la responsabilità di questo appuntamento, considerato che abbiamo presentato al festival ventisei spettacoli nel corso di ventidue edizioni a cui abbiamo partecipato. Il lavoro di preparazione era già iniziato da diverso tempo quando ha fatto irruzione la pandemia. È stato, come per tutti, un evento inaspettato che era però in consonanza con i nostri interessi per i film e la letteratura di fantascienza, dove il 2020 era un anno al centro di visioni distopiche. 

La nostra carica a fare il festival però era molto forte, anche con un po’ di incoscienza abbiamo sempre voluto provarci, per cui è iniziato un lavoro di reinvenzione rispetto agli artisti e alle artiste invitate ma anche degli spazi, perché questa impostazione così improntata all’aperto è nuova e forse è stata la più grande rivelazione dal punto di vista organizzativo, scoprire la potenzialità di questi luoghi naturali. 

C’è stata poi la situazione difficile dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, noi siamo legati a quel movimento e abbiamo supportato le occupazioni dei teatri. Anche in quest’ottica abbiamo cercato di dare lavoro a tutta una serie di maestranze locali e l’équipe del festival si è fortemente coalizzata, potendo portare avanti le attività in un periodo così complesso. La risposta degli abitanti di Santarcangelo poi è stata bellissima, perché nessuno si aspettava in quel momento che potesse accadere qualcosa come l’edizione dello scorso anno.

Come nasce l’esperimento How To Be Together?

Enrico Casagrande: Si tratta di un campo che costruiremo all’interno di un bosco cittadino dove cinquanta individui cercheranno di vivere insieme, con l’aiuto di alcuni «facilitatori», per capire come intrecciare relazioni e come rapportarsi al qui ed ora in una maniera che sia anche utopica. Sarà un prototipo che spero proseguirà con la prossima direzione artistica, per la riappropriazione di uno spazio fisico in un momento in cui è ancora più urgente, dopo il grande utilizzo che abbiamo fatto del digitale. 

L’anno scorso è stato molto difficile, ma allo stesso tempo ci trovavamo in un momento in cui si credeva che il mondo potesse cambiare. Quest’anno sento un po’ più di stanchezza, perché c’è la sensazione che si stia cercando di tornare a tutti i costi alla «normalità» precedente. Il festival di luglio rifletterà su questi argomenti attraverso un approccio antropologico, sociologico, artistico.

D.N: La pandemia ha reso ancora più evidenti le disparità, è il momento di agire per mettere in discussione il modello a cui si vorrebbe tornare. Tutti gli incontri del festival proporranno  delle pratiche possibili, non solamente delle analisi, improntate alla solidarietà e alla comunanza. Altre forme di vivere insieme come «specie compagne», secondo il sottotitolo di questa edizione, per abbattere i confini non solo tra i generi ma anche nella relazione con gli altri esseri viventi, in linea con una matrice antispecista che ci appartiene. 

È importante per noi anche proporre degli eventi gratuiti negli spazi pubblici, una questione su cui c’è grande criticità perché il ministero non contempla spettacoli dove non vengono emessi biglietti, come sarà ad esempio per la performance Grand Bois di Bluemotion e Fanny & Alexander che si svolgerà sui tetti e sui terrazzi del centro storico.

Nello «statement artistico» di questa edizione scrivete che avete provato ad evitare ogni forma di forzatura nell’esposizione delle opere nate in quest’ultimo anno.

E.C: Questo festival si basa molto sulla fiducia negli artisti e nelle artiste che stiamo invitando. Ci siamo astratti da quell’idea curatoriale per cui prima si vede uno spettacolo, lo si valuta e poi lo si sceglie. Il teatro sta diventando un po’ un mercato e volevamo smarcarci da questa visione, concentrandoci su gruppi che propongono un discorso politico ed etico. Penso sia un grande atto di coraggio e di comunione, noi stessi in quanto artisti sentiamo il bisogno di porci in altro modo rispetto alla curatela classica.

D.N: Inoltre quest’estate accoglieremo tutte le compagnie che avrebbero dovuto esibirsi in Winter Is Coming, la sezione invernale che purtroppo si è potuta svolgere solamente online. Ci siamo chiesti molto come un festival possa tutelare questi artisti e artiste per non esporli in maniera brutale, considerato che durante quest’anno hanno avuto poche possibilità per lavorare e consolidare i propri spettacoli. Parliamo di gruppi giovani e poco conosciuti, senza sostegni e spazi adatti per le prove o per le residenze. 

Per loro quindi creeremo un palco apposito, più raccolto ed intimo, perché hanno bisogno di essere protetti. Mi sta molto a cuore perché anche noi veniamo da quel percorso: provavamo in una discoteca abbandonata agli inizi. Oggi ci sono anche molti meno centri sociali disponibili per accogliere le compagnie rispetto agli anni ’90. Mark Fisher l’ha spiegato molto bene: con la gentrificazione è cambiato un mondo e il turbocapitalismo rischia di gettare le giovani generazioni nella depressione se non gli si danno possibilità e strumenti.

Nella programmazione c’è grande spazio per realtà internazionali e al femminile.

E.C: C’è una grande presenza di artiste donne in tutti i ruoli e questo ci fa molto piacere, visto che le programmazioni vedono spesso numerosi registi maschi e bianchi. Abbiamo concentrato poi un’attenzione particolare sul Sud America, con gruppi provenienti dal Brasile, dal Messico, dal Cile. Nonostante la situazione difficile che vivono questi Paesi ci sono delle scene estremamente vive e quindi siamo contenti di condividere questo festival anche con loro.

D.N: Spesso poi queste artiste stavano già lavorando su tematiche affini alle nostre. Amanda Piña, coreografa e regista messicana, è interessata al rapporto con la Terra e al cambiamento climatico. La regista e drammaturga cilena Manuela Infante fa una riscrittura delle metamorfosi di Ovidio in chiave femminista, in sintonia con il concetto di mutaforma centrale per questa edizione. La performer brasiliana Gabriela Carneiro da Cunha è impegnata invece con i popoli dell’Amazzonia e tramite lei speriamo sarà possibile realizzare un sogno: entrare in dialogo con l’antropologo Eduardo Viveiros de Castro.

Santarcangelo Festival, attori nudi in piazza: Lega e Fi criticano lo spettacolo

Santarcangelo Festival, attori nudi in piazza: Lega e Fi criticano lo spettacolo

Multitud di Tamara Cubas, foto di Carlos Contreras

Multitud di Tamara Cubas, foto di Carlos Contreras

Non è la prima volta che il Santarcangelo Festival fa discutere per spettacoli secondo qualcuno provocatori o addirittura osceni. Quest’anno a creare polemiche è ‘Multitud‘, che ha aperto il 6 luglio la 48/a edizione del festival nel Riminese: ideata da Tamara Cubas, la performance vede una cinquantina di persone che corrono e danzano in una piazza, strappandosi i vestiti e alcune mostrandosi completamente nude.

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Come racconta il Resto del Carlino, critiche sono arrivate da esponenti locali di Lega e Fi, oltre che dal comico Alessandro Politi di Zelig, secondo cui non è arte. Eva Neklyaeva, direttrice del Festival, risponde al quotidiano: “Queste polemiche sono pura propaganda, tesa a manipolare le emozioni delle persone. Crediamo che non ci sia nulla di offensivo in un corpo nudo, la storia dell’arte ne é piena, anche in spazi pubblici”.

Al secondo anno di direzione artistica di Eva Neklyaeva – nata a Minsk e formatasi ad Helsinki come curatrice e direttrice di istituzioni artistiche internazionali, tra cui Baltic Circle Festival – e Lisa Gilardino – manager internazionale di performing arts e curatrice – il Festival si conferma (e riafferma) come una piattaforma intercontinentale dedicata alla scoperta di artisti emergenti, alla ricerca contemporanea, al potere innovativo e rivoluzionario della creatività con oltre 150 appuntamenti, realizzati da 54 formazioni da tutto il mondo, con più di 200 artisti e quasi 250 tra adulti, adolescenti e bambini coinvolti nei progetti artistici partecipati.

In programma: Alessandro Sciarroni con Don’t be frightened of turning the page, Anna Rispoli, Lotte Lindner&Till Steinbrenner – Belgio con Your word in my mouth, Asia Giannelli con RH negativo, Buhlebezwe Siwani & Chuma Sopotela – Sudafrica con Those Ghels, Chiara Bersani con Gentle Unicorn (coproduzione), Cristina Kristal Rizzo con IKEA, Deflorian/Tagliarini con Scavi, Dewey Dell con I am within, Ingri Fiksdal – Norvegia con Night Tripper & Diorama, Ligia Lewis – Repubblica Domenicana/Germania con Minor Matter, Mallika Taneja – India con Be careful, Michelle Moura – Brasile/Germania con FOLE, Muna Mussie con Oasi(coproduzione insieme a Ipercorpo di Forlì), Nana Biluš Abaffy – Australia con One hundred and five: Society for the Creatively Maladjusted, Nicola Gunn – Australia con Piece for Person and Ghetto Blaster, Panagiota Kallimani – Grecia/Francia conArrêt sur image, Sissi con Unravelling Vein, Tamara Cubas – Uruguay con Multitud, Tania El Khoury – Libano/UK con As far as my fingertips take me.

MAGGIORI INFO > https://www.santarcangelofestival.com/