Nuovo Cinema Palazzo, cronaca di una resistenza culturale

Nuovo Cinema Palazzo, cronaca di una resistenza culturale

Nella sua decennale vita, il Nuovo Cinema Palazzo ha rappresentato e continua a rappresentare per il quartiere San Lorenzo e per la città di Roma, un hub culturale, una fucina di idee, un laboratorio esperienziale e il fulcro di un processo partecipativo capace di abbracciare età anagrafiche diverse.

La storia di questo spazio è divenuta, nel tempo, la storia di una resistenza culturale. Resistenza, perché il fiorire del Nuovo Cinema Palazzo e il suo affermarsi come considerevole punto di riferimento cittadino, ha dovuto subire — e sventare con il sostegno del tessuto sociale romano tutto —, numerosi attacchi.

Per ripercorrere questa esperienza e per dar voce a coloro che animano le mura del civico 9 a di Piazza dei Sanniti, abbiamo chiesto al collettivo del Nuovo Cinema Palazzo di condensare in un Editoriale quanto ancora necessita di essere ribadito circa il ruolo ricoperto da questo avamposto culturale.

Nuovo Cinema Palazzo

Il 25 novembre 2020, mentre a Roma, nel quartiere di San Lorenzo, decine di blindati dei reparti della Celere sgomberavano il Nuovo Cinema Palazzo come se si trattasse di un covo di pericolosi criminali, in Italia migliaia di persone morivano per gli effetti della pandemia di Coronavirus, molte di più avevano perso il lavoro, altrettante erano in attesa della cassa integrazione, chissà quante erano rassegnate a non poter avere nulla perché lavoravano in nero, le scuole erano chiuse, gli uffici erano chiusi, gli ospedali quasi al collasso.

Il piano su cui giaceva il già torbido sistema economico italiano vacillava da mesi, e la cosiddetta “seconda ondata” dimostrava che la pausa estiva che il virus ci aveva concesso non era stata usata per riorganizzare o migliorare i settori più in crisi, ma semplicemente per posporre il problema. Se in primavera ne dovevamo uscire tutti “distanti ma uniti”, con una sorta di slancio collettivo (che ha dato anche molti esempi positivi), in autunno era già chiaro che non c’era più molto spazio per l’ottimismo.

Dunque, mentre il Paese soffriva la chiusura degli esercizi commerciali, gli stipendi dimezzati, il collasso delle reti sociali con gli adolescenti chiusi nelle loro stanze tutto il giorno e i genitori in grave difficoltà, il futuro segnato da una nefasta incertezza e chissà quante persone affrante per la perdita dei propri cari, a Roma gli illuminati dirigenti dell’Ordine Pubblico cittadino, nella loro infinita saggezza, hanno pensato bene che l’unica priorità in quel momento fosse distruggere un luogo di cultura e sgomberare il Nuovo Cinema Palazzo.

Entrava in scena l’ottusità, la grettezza dei governanti romani, che in dieci anni non avevano saputo né valorizzare e né tanto meno capire la spinta vitale che alimentava un luogo come quello. Sembrava quasi che nessuno si fosse domandato per quale motivo nel 2011 un gruppo di cittadini avesse deciso di impedire che, in barba a tutte le norme vigenti, si aprisse un casinò in un quartiere già segnato da molti problemi.

Che si ignorasse deliberatamente che un cinema-teatro a ridosso del centro costituisse una ricchezza per tutti, una fucina di idee e di cultura in grado di attirare artisti internazionali, di ospitare rassegne di ogni tipo, dibattiti, assemblee, mostre e concerti. Inoltre, e su questo non si può che essere diretti, sembra che ai tutori della legalità non interessasse affatto che nella realtà quotidiana, quella vissuta dalle persone al di fuori degli scandali proclamati a mezzo stampa, il Cinema Palazzo costituisse un argine all’imbarbarimento dettato dalle logiche di mercato, della criminalità e della gentrificazione.

No, tutto ciò non è interessato. Poco importa se gli stessi tribunali dello Stato si erano pronunciati contro le autorizzazioni che avevano concesso, tutt’ora non si sa come, a una ditta di iniziare i lavori per aprire una sala bingo dove, secondo il piano catastale, tale attività non avrebbe mai dovuto aprire. Non è stato giudicato rilevante che le sale slot, come dichiarato dalla Commissione Antimafia:

“nei periodi di crisi economica si denota ancor più tale fenomeno degenerativo (gioco d’azzardo ndr) in quanto, nella impossibilità di un aumento della tassazione, si accentua il ricorso ad incentivazioni della malattia del gioco, un meccanismo che, quanto più cresce, tanto più è destinato a favorire forme occulte di prelievo dalle tasche dei cittadini, mascherando tale prelievo con l’ammiccante definizione di gioco, divertimento e intrattenimento”.

Oltre a essere da sempre un valido strumento di riciclaggio del denaro sporco e di usura per ogni tipo di organizzazione criminale.
Eppure, lo sanno anche i bambini che nella “Sala Palazzo”, come la chiamano gli abitanti di San Lorenzo, dieci anni fa stava per compiersi un atto di “genocidio sociale”.

Volevano farci ammalare, inquinarci di ludopatia, e lasciarci marcire. Volevano costruire un orrendo Moloch a due passi dal più grande ateneo d’Europa, a meno di cinquanta metri da una scuola elementare. Ma questo processo criminoso nel 2011 era stato arrestato dalla ferrea volontà di uomini e donne che, armati della loro etica, vi si erano opposti. Il quartiere di San Lorenzo si era rifiutato di divenire una Cartagine dopo il passaggio dei romani, non aveva voluto soccombere ma invece aveva dato vita così ad una delle più straordinarie realtà socioculturali dei nostri tempi.

Non è necessario soffermarsi a ripetere i nomi degli artisti né tanto meno elencare l’altissimo numero di iniziative che in dieci anni hanno preso vita in quel teatro, per questo gli attivisti hanno prodotto un dossier che si sforza di restituire l’impronta del Nuovo Cinema Palazzo sulla realtà storica e circostante. Fin dalla sua nascita il NCP è stato plasmato per dare voce a tutte le discipline della produzione del cosiddetto “immateriale” e tale si presentava, seppur con tutte le difficoltà della contingenza, il 25 novembre 2020.

Ora, tutti si chiedono, di chi sono le responsabilità? Chi ha dato l’autorizzazione a quest’atto scelerato? Come si può attaccare chi durante la pandemia organizza pacchi per le famiglie più in difficoltà, chi organizza spettacoli per bambini, chi resta aperto per accogliere lo sport popolare e gli anziani del quartiere? Il sindaco di Roma, dopo aver esultato per il trionfo della legalità al mattino, essersi resa conto dell’errore alla sera e aver scaricato tutte le responsabilità sulle forze dell’ordine, ha poi riconosciuto che si poteva evitare.

Quest’ultime si sono presentate con un’imponente quanto insolito dispiegamento di mezzi (circa quaranta camionette e chissà quante centinaia di agenti allertati) che ha messo un tragico punto su ogni possibilità dialettica. La cosiddetta “società civile” ha risposto nei fatti, accorrendo in massa e riempiendo per ore le strade del quartiere gridando con decisione “giù le mani dal Cinema Palazzo”.

Ma le istituzioni culturali e politiche perché hanno taciuto per tutti questi anni? È mai possibile, che l’idea che la cultura sia sempre relegata a materia da museo, o al massimo da evento mondano esclusivo, sia spesso alla base del dibattito pubblico sul tema?

Sembra ormai scontato che cultura e arte “non possano farcela da sole” e quindi necessitino dei finanziamenti dello Stato e delle fondazioni private come un corpo necessita d’aria. Tale ragionamento sottende due importanti, quanto drammatiche, implicazioni: la prima è che siccome si tratta (secondo questa logica) di un investimento infruttuoso, non si può destinare a questo settore se non una parte marginale del bilancio di spesa delle Istituzioni.

E qui, spesso, vince la retorica, che in Italia funziona sempre, della scala di valori: gli ospedali vanno ristrutturati, le scuole sono in sottorganico, le infrastrutture devono essere ammodernate…come si può pensare a un teatro in un contesto generale così difficile? Tale obiezione è, per lo meno, tendenziosa, in quanto la situazione difficile di molti dei settori dello stato non dipende sicuramente dai pochi fondi residuali destinati al Mibact, né dal finanziamento straordinario per puntellare le case romane che rischiano di crollare a Pompei.

La decadenza è lenta e spesso subdola, non te ne accorgi fin quando non esplode un’emergenza che ti porta ad aver bisogno di quello stesso servizio che per anni il tuo Paese ha de-finanziato nel silenzio generale. A quel punto si prova a rimediare, spesso goffamente, e si finisce per agire sempre nello stesso modo, vale a dire spostando risorse da un settore all’altro in una sorta di gioco delle tre carte che finisce per impoverire tutto e acuire i problemi di ogni singolo settore. La seconda implicazione riguarda il merito di quanto viene prodotto.

Lo stato comatoso implica la dipendenza dai farmaci e dai macchinari, il pericolo che il corpo sia dato per spacciato e che qualcuno stacchi la spina è sempre dietro l’angolo. Ed è proprio così che muoiono festival storici, che si depauperano rassegne internazionali, che si orienta la produzione artistica secondo le preferenze di un personaggio piuttosto che di un altro. Allo stesso modo, come piccoli fuochi fatui, lo stesso meccanismo, ma all’inverso, fa sì che si creino fotocopie di scarsa qualità solo perché tale sindaco voleva la sua dose di prestigio o perché il ministro aveva bisogno di dimostrare che l’Italia è un Paese che ancora conta nel contesto culturale internazionale.

Si perde il valore in sé della cosa a discapito del valore attribuito dalla convenienza, dall’idea politica, dalla risonanza mediatica e da tutta una serie di fattori esterni che impoveriscono fino alla miseria l’intero segmento. I tagli strutturali al Fus degli ultimi anni sono solo la punta dell’iceberg in questo discorso che avrebbe bisogno di molto più spazio per essere sviluppato ma che a noi interessa contestualizzare in termini di fruizione e produzione culturale.

Iniziamo con una domanda: se la cultura è una terra arida, poco attrattiva, vecchia e infruttuosa, com’è possibile che esperienze come il Cinema Palazzo siano in grado di raccogliere migliaia di persone? Forse, i profeti del pragmatismo assoluto, quelli che professano che le nostre società non sentono più il bisogno di uscire di casa per assistere a uno spettacolo teatrale, ballare a un concerto o prendere parola a un seminario non hanno chiaro il contesto. Potrebbe anche darsi – manteniamo il beneficio del dubbio, s’intende – che forse l’offerta culturale non sia adeguata.

D’altronde, l’idea che gli eventi culturali siano generalmente noiosi perché condotti secondo una logica scolastica o ministeriale potrebbe avere una parte di colpa. Allo stesso modo, la necessità di agire al ribasso per la mancanza di fondi e di adeguarsi a una sorta di estetica del bisogno (legata a chi tali fondi li eroga), che fa oscillare il prodotto finale tra la cosiddetta “cultura istituzionalizzata” e la ripetizione di modelli che hanno funzionato in passato, non può non influire sulla scarsa risonanza di tali eventi. O ancora, il fatto che intorno alla cultura, se non per rare eccezioni che pure esistono, non si riesca a creare socialità né temporaneamente né in modo duraturo, potrebbe essere un altro aspetto da considerare.

Da ultimo, il circolo vizioso che ha portato i biglietti degli eventi culturali a costare cifre proibitive forse avrebbe bisogno di una revisione che lo riporti a livelli accettabili, togliendo all’uscita culturale quell’aurea da evento isolato da permettersi una volta al mese quando possibile.
Noi sappiamo che tutte queste ipotesi sono in realtà postulati nel contesto italiano e romano, le abbiamo confutate direttamente in nove anni di attività culturale continuativa e le abbiamo condivise con chi si occupava di arte e spettacolo da prima di noi e continua a farlo oggi, nonostante le difficoltà e i tempi grami.

Siamo coscienti del fatto che se l’individuo è reso parte integrante di qualcosa che in cambio gli chiede solo di essere sé stesso e di portare la propria storia, i processi diventano giocoforza partecipativi. Da ciò si genera socialità, condivisione, azione collettiva, che non rima con un detrimento della qualità ma istituisce dinamiche differenti. Ospitare residenze teatrali non in cambio di un pagamento ma di un processo condiviso di restituzione alla collettività, è un esempio lampante di questa pratica.

Per questo rivendichiamo l’esperienza e la pratica del Nuovo Cinema Palazzo e invece di piangere sul corpo di un amore morto leviamo alto il grido che ci ha spinto a continuare per dieci anni e ci spinge tutt’oggi: “la cultura e l’arte sono uno strumento attivo di cambiamento sociale”.