L’arte del racconto fra il gioco e la tragedia. Intervista a Ivano Picciallo

L’arte del racconto fra il gioco e la tragedia. Intervista a Ivano Picciallo

Con Ivano Picciallo, capofila della Compagnia Malmand Teatro, autore, attore e regista dello spettacolo “A Sciuqué”, vincitore della VI edizione del Roma Fringe Festival in collaborazione con i Nuovi Scalzi e di Gran Ghetto, premio della giuria dei giornalisti al Giovani Realtà di Udine, abbiamo attraversato il suo percorso artistico, a partire dalla virtuosa formazione con maestri indiscussi nel campo della Commedia Dell’Arte, analizzando le importanti tematiche sociali trattate nei suoi spettacoli fino ad arrivare a toccare le criticità presenti nel circuito teatrale in cui gli artisti e gli spazi stentano a sopravvivere. Una discussione avvincente che mette in luce la storia e le idee che guidano la poetica di un artista capace di valorizzare le tecniche e i principi teorici della tradizione in un continuo lavoro di innovazione e di ricerca dentro e fuori il palcoscenico.
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“Non temo niente, non spero niente, sono libero”, intervista ad Alberto Fumagalli

“Non temo niente, non spero niente, sono libero”, intervista ad Alberto Fumagalli

Alberto Fumagalli
Alberto Fumagalli

Poco più di un anno è passato dalla vittoria del premio Miglior Spettacolo al Roma Fringe Festival. Era gennaio, era La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza, era la compagnia Les Moustaches, erano altri tempi. In gioco c’era anche un po’ della loro storia, le storie delle loro vite. 

Diplomato attore all’Accademia Stap Brancaccio di Roma e laureato in Scienze dei beni culturali all’Università degli Studi di Milano, Alberto Fumagalli scrive per il teatro e l’audiovisivo. Ha partecipato come drammaturgo al progetto Les Clinique Dramaturgiques nell’ambito del festival europeo Short Theatre. È stato finalista al Premio Hystrio, attore in diverse tournée teatrali, cantautore per il gruppo musicale Cane Maggiore.

Quello con Alberto Fumagalli, oggi, è un incontro che rinnova le tracce e i sapori di un caffé letterario. Dissertazioni filosofiche ed esistenziali senza essere filosofi o artisti maledetti. In un ritrovo tecnologico e in una sera di febbraio, si è realizzata la perfetta armonia tra Il vecchio e il Mare di Ernest Hemingway e Il giovane Holden di J.D. Salinger. E nel raduno si sono aggiunti Nikos Kazantzakis ed Eva Cantarella. Un necessario soffio di anticonformismo e di eretica utopia che abbatte qualche muro, ma contemporaneamente costruisce un ponte verso la bellezza.

Parafrasando la celebre opera della Letteratura americana, Il vecchio e il Mare di Hemingway, il nostro potrebbe essere l’incontro tra Santiago e Manolin. Ti riconosci nell’anziano pescatore con gli occhi che “avevano lo stesso colore del mare, allegri e indomiti” o nel giovane discepolo, amico e affezionato? Sei l’uno, sei l’altro, entrambi o nessuno dei due?

Andando oltre il dato anagrafico, non avendo più un’età con il numero due iniziale, scelgo sicuramente il vecchio. Tendo a non credere nella figura del maestro, confido nel fatto che esistano incontri più o meno luminosi. Credo che affidarsi alla figura di un ipotetico saggio sia il grande male dell’uomo moderno contemporaneo, soprattutto del lavoratore dello spettacolo, dell’arte. 

Mi permetto di parlarne in quanto è il campo dove “zappo la terra”, metaforicamente parlando. Ritengo che non esistano più i saggi, i maestri; esistono le persone, delle fonti di ispirazione ma non dei riferimenti, secondo me. Il mio è un punto di vista che non vuole essere assolutistico

La vita di un autore, attore e regista tra sconfitte e tante piccole morti… Hemingway scrisse: “Un uomo può essere distrutto ma non sconfitto”. Come hai vissuto tutto questo?

La citazione è molto azzeccata perché cade proprio a pennello, accompagna – secondo me – la quotidianità di chi come me ha scelto o forse si è ritrovato dentro questo mestiere bellissimo o mestieraccio. Sono propenso a esorcizzare il concetto dell’autore, dell’attore maledetto, pazzo, che arriva al punto di strapparsi il cuore. Anche questa ritengo che sia una sopravvalutazione, ognuno deve parlare per quello che sente e che prova

Penso che la colpa non sia del singolo del soggetto, ma di un sistema zoppo, bizzarro, egoista che non dà la possibilità a chi fa questo mestiere di farlo veramente e, quindi, in certi giorni arrivi a sentirsi il nuovo Jimenez, il nuovo Coelho oppure il nuovo Galliazzo – citando alcuni degli autori che mi solleticano.

In altri giorni, invece, ti senti una nullità perché non hai un consistente rapporto con la società. Sentirsi come un parassita della società è una sensazione molto brutta, ma accomuna molti lavoratori dello spettacolo. C’è chi, come me, si pone la domanda: uno scrittore, uno che si occupa e che studia le parole, a chi deve chiedere dove e come lavorare? Questa è una domanda che distrugge i miei pomeriggi, le mie giornate. Non solo per poter andare in scena all’Argentina piuttosto che all’Elfo Puccini.

Non c’è neanche la consapevolezza di come si scrive una fiction televisiva. Di come far domanda alla Rai, per una serie web, per poter scrivere, per poter vivere di quello che siamo capaci di fare, di quello per cui abbiamo studiato. È sicuramente un’inclinazione molto soggettiva, la tua citazione tuttavia ha aperto un mio canale di sconforto e di entusiasmo. Il segreto è sempre quello di trovare l’equilibrio. C’è un verso di Nikos Kazantzakis che mi ha colpito molto perché è un po’ una forma di raggiungimento della calma, dello zen e recita: «Non temo niente, non spero niente, sono libero». 

Noi non siamo liberi, chi fa questo mestiere è schiavo di qualcosa che non c’è, di un padrone inesistente. Posso avere l’idea più bella del mondo ma se non ho qualcuno che mi permetta di renderla tangibile, di darle una dignità, noi non siamo niente, non siamo nessuno.

Salinger ne Il giovane Holden scrive: «Si capisce subito quando i ragazzini ce l’hanno con voi. Non ridono, niente da fare». Si delinea un mondo diviso in due macro categorie che non comunicano più tra di loro, non si mescolano. Gli adulti e i giovani vivono assorbiti in un contesto di insoddisfazione, di rabbia e allora sono più diversi o simili tra di loro? 

A me non interessa tanto fare riferimenti personali, nel senso di alimentare l’ego mania dell’autore che parla sempre e solo di sé. C’è un’altra riflessione molto bella, un punto di vista sviluppato nel saggio Non sei più mio padre di Eva Cantarella che ho appena finito di leggere e che raccoglie proprio questa considerazione, portandola indietro fino alla notte dei tempi.

Il continuo conflitto tra le diverse generazioni, il vecchio e il nuovo che non si capiscono a vicenda e quindi non c’è mai un vero dialogo tra di loro. Sicuramente è cosa buona raccontare perché noi viviamo tutto questo oggi, un sentire nutrito da una linfa rabbiosa, che noto sia da parte del giovane sia da parte dell’anziano. 

Il primo non ha più il coraggio di essere sé stesso. Questa è una cosa che mi fa arrabbiare: rincorrere la speranza di diventare velocemente adulto. Sposarsi, avere un figlio, una casa con un divano, diventando docili e accoglienti. Io credo che non debba essere una caratteristica del giovane questo tendere verso l’anzianità quando si è giovani, per poi rimpiangere la giovinezza quando la si è persa. Ogni generazione è divorata da una rabbia continua da involuzione della specie.

Il tema del sogno è sempre presente e ricorrente, lo sottolinea Hemingway in un passaggio: «In cima alla strada, nella capanna, il vecchio si era riaddormentato. Dormiva ancora bocconi e il ragazzo gli sedeva accanto e lo guardava. Il vecchio sognava i leoni». Quali erano i tuoi sogni?

Ho sempre sognato tanto, come probabilmente racconta anche Ciccio Speranza, il nostro ultimo spettacolo. Il sogno è la benzina al motore delle nostre giornate. I miei sono sempre stati dei sogni giganteschi, anche un po’ fuori portata. Alla fine dei conti credo di aver sognato sempre un palcoscenico. All’inizio era quello calcistico, quando giocavo. Subito dopo, c’è stato quello dello spettacolo. Penso che ci sia una parte egocentrica o comunque molto viva in ogni persona che fa il mio mestiere e, al tempo stesso, il grande sogno di poter cambiare qualcosa. Qualcosa che cresce contemporaneamente con la persona. I cambi della vita trasformano anche i sogni. 

La carriera può essere determinata da un colpo di fortuna, dal cognome che porti o dal carattere che è un veicolo formidabile per conoscere, per entrare nei circuiti del meccanismo. Credo di non avere mai avuto la pazienza adatta nella preparazione, per arrivare a essere inattaccabile. È una cosa che ho constatato e ho capito nel corso del tempo. Tanto la formazione, l’allenamento, quanto una certa solidità permettono di fare dei passi in avanti. Bisogna fare un lavoro molto antropologico: conoscere esattamente il contenitore ed esserne il cuore, il contenuto pulsante.  

Holden Caufield, per mano di Salinger recita così: «Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando. È una cosa che odio. Che l’addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no, ti senti ancora peggio». Quanto tristi o brutti sono stati i tuoi addii, al teatro o nella vita?

Credo che l’addio sia necessario, lo è anche per poter rinascere, per ricominciare, per respirare. La vita a un certo punto inizia a prendere una direzione, è come seguire un filo rosso. Che sia l’amore, il lavoro o l’amicizia, quello è il percorso principale. Penso di aver detto addio, di aver lasciato almeno una cinquantina di fili rossi. Come una sorta di Ulisse io vivo l’impossibilità di dire addio verso la mia casa. 

Sono nato a Fara Gera d’Adda, che è un po’ la Spoon River del Nord Italia, abitata criminali, puttane, farisei, angeli, demoni, preti, bigotti, c’è di tutto. Un ambiente che surclassa Roma perché c’è una densità di umanità gigantesca. Io non sono mai riuscito a dire addio a questo posto, andavo a Roma ma poi tornavo lì per coltivare la mia compagnia. Ho fatto il pendolare per cinque anni. Mi sono innamorato di una ragazza di Roma ma non mi sono mai trasferito là a viverci. 

Il cordone ombelicale dei miei affetti non mi molla. Si dice che è fondamentale morire a casa propria e credo che sia una frase molto bella. La morte, inoltre non è solo quella del corpo, ci sono tante piccole morti nella vita e ogni volta si rinasce, si ricomincia. Dopo aver vissuto un fallimento che cosa si fa? Si torna a casa, sempre. Io non piango mai sul divanetto che ho qui a Milano, per esempio. L’addio è fondamentale, il grande distacco non l’ho mai cercato, forse, non ho alcuna intenzione di farlo.  

Cosa non abbiamo capito o fatto nostro, cosa si può fare con quello che c’è oggi, a teatro?

Il concetto chiave di questa domanda, secondo me, è legato a una risposta che non devo dare io, da un punto di vista teorico. Ci si dovrà assumere la responsabilità nella rinascita. La storia insegna che una ripresa, un risveglio avviene – retorica a parte – dopo una disfatta, una distruzione. 

Non si può negare che quello che abbiamo vissuto sia stato un anno devastante e ancora adesso stiamo vivendo questa realtà tragica. La risposta deve essere consapevole, non ci si può nascondere dietro niente. Questo è quello che noi ci aspettiamo dal teatro di domani più che da quello di oggi. Io spero che il teatro possa rinascere ed essere nuovo e coraggioso e che soprattutto esista, poiché adesso è morto.

Confrontandoci con la Francia, la Germania, la Spagna, l’Inghilterra, la Svizzera si evince che siamo indietro anni luce per coraggio, per pazienza, per ricerca della bellezza. La maggior parte delle nostre rappresentazioni riguardano autori che sono morti o autori che riescono a entrare in un piccolo e ristretto giro. Serve un atteggiamento responsabile, l’ammissione del fallimento, una presa di coscienza verso il positivo. Il che vuol dire ricercare, dare fiducia perché per creare bellezza ci vuole del tempo, sempre, e questo coefficiente non viene mai dato. 

Bisogna lasciare che la nuova drammaturgia abbia un posto in cui potersi esprimere in modo libero. Questo secondo me sarà fondamentale ed io lo attendo. Spero veramente ci possa essere una rinascita perché laddove dovesse ricominciare tutto con i monologhi o gli spettacoli che costano milioni di euro significherebbe continuare qualcosa di vecchio. Significherebbe essere poco coraggiosi, pavidi. 

Ritorna, in conclusione, Hemingway e il marinaio Santiago il quale elabora una lucida riflessione: «Nel buio, e senza luci in vista e senza chiarori, e soltanto col vento e la spinta regolare della vela, gli parve di essere già morto, forse. Congiunse le mani e si tastò le palme. Non erano morte e gli bastava aprirle e chiuderle per risuscitare il dolore della vita». È possibile o immagini si possa resuscitare dal dolore della vita?

Gli scrittori tendono sempre a scrivere le loro più grandi opere partendo dal dolore. Affidandosi alla scrittura, rimangono in vita partendo dal dolore dei loro rapporti distruttivi con il padre, con la madre. Questa è una scorciatoia, quasi un alibi, un tabù che vorrei superare. Sono queste cose che allontanano questo mestiere dalla sua possibile universalità, dalla sua dignità. La mia risposta, legandomi alla tua domanda, è sì. Si può rinascere da una morte, io ho avuto tante micro morti nella mia carriera o quantomeno nella mia vita, un po’ come il serpente che cambia la pelle. Non ho più le gioie, gli interessi di quando avevo diciotto anni, ne ho altri. 

Il teatro supera qualsiasi arte, il cinema, la televisione, è talmente gigantesco che non permette paragoni o confronti. Noi di Les Moustaches siamo in fase di ricerca, stiamo ricercando il nostro modo per poter raccontare e capire il nostro Teatro, probabilmente sarà una ricerca lunghissima. Altra cosa per me importante è il fatto di aver abbandonato qualsiasi forma di laboratorio teatrale. Prima di fare un corso teatrale bisogna ricercare tanto, altrimenti è un’associazione a delinquere. 

C’è una mancanza di dignità del mestiere, già il nostro sistema scolastico non permette di fatto di inserirsi con facilità nel mondo del lavoro. Il fatto che non lavoriamo, che non esistiamo come drammaturghi piuttosto che come lavoratori, come ricercatori dello spettacolo, è sintomo che il Teatro non esiste nel nostro Paese. Un errore di coscienza che riguarda ciò che effettivamente è il Teatro e quali sono le sue potenzialità. Come Compagnia teatrale, questo è ciò che ci spinge a fare un passo indietro per cercare poi in futuro di farne due in avanti. È il nostro obiettivo.

La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza: Intervista a Les Moustaches

La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza: Intervista a Les Moustaches

«Le aspettative erano molte, cercavamo da tanto tempo una risposta positiva perché, dopo aver lavorato a lungo sul nostro progetto, per noi era una tappa importante, anche per riprendere fiato». Ludovica D’Auria riassume così la “difficilissima storia” della vita di una giovane compagnia teatrale, Les Moustaches, vincitori del premio miglior spettacolo del Roma Fringe Festival con La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza.

La menzione recita che il riconoscimento viene assegnato: “Per la compiutezza del lavoro, per l’innovazione di una lingua, per l’equilibrio dei rapporti tra gli attori, per una regia accurata che ha saputo costruire anche con pochi elementi scenografici un’opera suggestiva ed evocativa del contesto poetico della storia”.

La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza – Les Moustaches

Sul palco del Teatro Vascello, Ludovica D’Auria, regista dello spettacolo insieme ad Alberto Fumagalli, ha presentato gli attori Francesco Giordano, Giacomo Bottoni e Antonio Orlando. Insieme a loro erano presenti anche Giulio Morini, direttore di scena che ha realizzato anche i costumi e Tommaso Ferrero che si è occupato di luci e suoni. 

È un periodo favorevole per Alberto Fumagalli e Ludovica D’Auria, i quali hanno recentemente vinto anche il Milano Off Fringe Festival con l’opera Il giovane Riccardo. Nel suo discorso durante la premiazione, ringraziando la giuria, D’Auria ha ricordato che i tre premi ricevuti nella serata del 24 gennaio rappresentano una vittoria dal sapore speciale. Tutte le difficoltà incontrate durante il percorso sono state superate grazie alla perseveranza e alla tenacia di un gruppo solido che non ha mai smesso di credere nella validità e nella forza di questo progetto. E, come testimonia Ciccio Speranza, sognare rappresenta una possibilità, per tutte le donne e gli uomini, in qualsiasi tempo e contesto sociale. 

Iniziamo la nostra intervista con una riflessione a posteriori sulla vittoria del Roma Fringe Festival 2020 e sul vostro  spettacolo La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza

Ludovica D’Auria:  Ricevere una conferma dall’esterno è un obiettivo importante che volevamo raggiungere. La nostra vittoria al Roma Fringe Festival è stata come un’iniezione di sicurezza, di stima e di certezza sul lavoro. Ci ha dato tanta adrenalina e la voglia di ricominciare a lavorare.

Alberto Fumagalli: Questo spettacolo non porta soltanto la firma di un drammaturgo, di un regista, di un direttore di scena o un tecnico delle luci. È firmato da una squadra, senza la quale non si va da nessuna parte. È la capacità di remare nella stessa direzione, l’essere tutti convinti del progetto da portare in scena. Con Giacomo Bottoni, Antonio Orlando e Francesco Giordano è stato un amore a prima vista. Loro erano i profili perfetti per interpretare i tre personaggi. Ci siamo sentiti telefonicamente, li abbiamo visti in scena, c’è stata una condivisione molto umana e una simpatia immediata. A loro ho dato le chiavi della mia macchina: il nostro è stato un corteggiamento molto veloce prima di innamorarci per tutta la vita.

“La campagna è un compito, una tradizione, un volere di Dio”. In questa battuta c’è l’essenza dello spettacolo?

Alberto Fumagalli: Volevamo raccontare la campagna lombarda, un luogo non così vicino dalla città, dalla metropoli. Una periferia poco descritta, poco conosciuta. Se nasci lì, in una fattoria della mia provincia, ti viene assegnato fin dalla nascita un compito, che è quello di portare avanti il corso di quella fattoria. Dal coltivare la frutta e gli ortaggi, all’allevamento del bestiame. Sembra una cosa un po’ retrò, ma esistono ancora luoghi così che non hanno tanti microfoni. Per questo noi, con un certo orgoglio, abbiamo voluto narrare una periferia che è raccontata poco. Faccio un esempio: Suburra e Gomorra sono periferie lontane dal cuore della città, però hanno una visibilità che rivela la loro esistenza. I luoghi che noi abbiamo portato in scena, invece, non hanno microfoni né telecamere. Sono un po’ come L’albero degli zoccoli, però esistono e ci sono tante persone che gravitano intorno a quel micromondo. 

Il concreto e l’astratto, la fame e la speranza, scandiscono il passaggio dalla vita alla morte?

Alberto Fumagalli: La speranza è sicuramente il filo conduttore, oltre a essere il cognome dei tre personaggi. Aggancia il correre delle stagioni, dall’estate sfortunata con la moria delle bestie e un caldo molto pesante, fino all’autunno molto generoso. La speranza appartiene a tutti e tre, ma solo uno di loro ha anche qualcosa in più, ovvero un sogno.

Ludovica D’Auria:  Secondo me più che di un passaggio si tratta di una convivenza, nello stesso momento, della vita e della morte che è anche una costante, una caratteristica peculiare della fattoria. Noi, a proposito di questo, abbiamo fatto un’esperienza molto bella, siamo stati ospiti di una famiglia di contadini che abita a dieci minuti da dove abita Alberto, avendo la possibilità di vivere la vita di campagna. 

Giacomo Bottoni:  Si è trattato di vedere come realmente lavorano, capire che tipo di sensibilità hanno quelle persone. Come affrontano quella linea sottile tra la vita e la morte: abbiamo assistito alla nascita di un vitellino. Per noi era una cosa meravigliosa, per loro era normale come lo era il fatto che, il giorno dopo, lo stesso vitellino sarebbe andato a morire. Quella normalità delle cose ci ha aiutato a capire i sentimenti di quelle persone, il legame con la terra, il loro modo di lavorare. E quanto la vita e la morte siano importanti per ognuno di loro, perché mandano avanti la storia.

La ricerca di tre attori con differenti fisicità ha favorito e implementato l’utilizzo del corpo come vettore di linguaggio espressivo?

Ludovica D’Auria: Cercavamo delle fisicità molto precise e le abbiamo ritrovate in maniera perfetta nei nostri tre attori che hanno incarnato altrettanti personaggi molto diversi l’uno dall’altro. 

La regia è molto fisica sia per l’ambientazione del nostro spettacolo sia per le modalità di sviluppo e di lettura da parte del pubblico. Ogni attore ha realizzato il suo percorso a seconda delle caratteristiche del personaggio. Pian piano, durante le prove, ognuno ha trovato il modo di esprimere al meglio la propria fisicità in connessione con le energie che venivano portate all’interno dello spettacolo. Il lavoro fisico più specifico è stato fatto su Ciccio, Francesco Giordano, che doveva confrontarsi con il ballo, qualcosa che non aveva mai fatto fino ad allora. All’inizio cercavamo delle coreografie che a livello di emozioni, di sensazioni portavano pochissimo perché non avevamo davanti un ballerino, ma un attore. Abbiamo capito che Francesco/Ciccio doveva trovare dentro di sé la sua danza e quindi il “moto”, per capire come il corpo può liberare quel che si prova. 

Francesco Giordano: Il percorso per trovare le movenze è stato meraviglioso. Siamo partiti con l’idea di una coreografia che però ha un po’ ingabbiato i movimenti. Con Ludovica ci siamo interrogati a lungo su quello che volevamo esprimere. L’idea è stata quella di trovare una modalità di comunicazione con la gestualità di un attore: recitare con il corpo. La danza è un linguaggio che mi ha sempre affascinato, ma non mi appartiene perché non sono mai stato un danzatore. Io e Ludovica abbiamo fatto le prove in una fredda biblioteca per ragazzi di Fara Gera d’Adda. Ci sono stati momenti molto belli, di abbandono e di fiducia. Mi sono sentito libero di poter esprimere quello che volevo dire con il mio corpo. Non avevo avuto la possibilità di poterlo fare, da attore, fino ad allora. È stata la mossa vincente. La volontà di non avere uno schema definito consente al pubblico di trovare una chiave di lettura ogni volta diversa. Trovo interessante che il livello di comunicazione del corpo possa essere diverso da quello della parola. 

La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza – Les Moustaches
Foto di Simona Albani

Come avete costruito e caratterizzato i personaggi di Dennis, Sebbastiano e Ciccio Speranza?

Antonio Orlando: Costruire il personaggio di Dennis è stato abbastanza complicato. È talmente scritto bene che io credo di aver capito il 75% di quelle sue profondità che sono ancora tutte da scoprire. Grazie alla distribuzione del prossimo anno con il premio del Fringe, avremo modo di conoscere meglio Dennis. Le bellissime didascalia scritte da Alberto sono state un fondamentale punto di partenza per me.  “Entra Dennis, sembra una scimmia scema, ma è soltanto Dennis”. Questa è una delle prime e già racconta molto. Osservandomi intorno mi sono reso conto che l’80% della popolazione cammina con i piedi divergenti, in particolare le persone che fanno lavori fisici. Dennis ha i piedi così, è un personaggio che è sottoposto a sforzi estremi e ha in sé questo retaggio. Tutto ciò che viene fuori da lui sono risposte agli impulsi degli altri personaggi. È un giovane uomo che ha in sé sia la tenerezza di Ciccio, sia le convinzioni del padre. 

La campagna è un dovere, così come tutte le circostanze che orbitano intorno a quel luogo e alle persone che lo abitano. Poco prima del debutto, ci è stata data l’indicazione di non sposare questi personaggi, di trattarli come dei carnefici, sono tre uomini che involontariamente si fanno del male a vicenda: da Ciccio che libera la collezione di lucciole di campo, a Dennis che dice al fratello di rimanere e non realizzare il suo sogno, per finire con Sebbastiano, il quale nonostante capisca l’ambizione del figlio gli ricorda che l’unica strada da seguire è il dovere. Questi personaggi, seppur mossi dalla volontà di fare del bene, finiscono per ferire e intrappolare.

Giacomo Bottoni: Per me è stato molto difficile avvicinarmi ed entrare nel personaggio di Sebbastiano. Credo di essere una persona buona che cerca sempre di dare agli altri e di ricevere, mi piace condividere. Sebbastiano è molto più duro perché la vita lo ha indotto a crearsi una sorta di corazza: prima a causa dell’abbandono della moglie, poi per la responsabilità di mandare avanti una famiglia crescendo due figli maschi. È un uomo che deve fare il padrone, ha un ruolo preciso e delle responsabilità, anche per questo non intende mostrarsi mai debole agli occhi dei figli. Sebbastiano per me è stato importante perché mi ha fatto ritrovare qualcosa che da piccolo avevo vissuto: anch’io vengo dalla campagna, sono marchigiano, mio nonno ha fatto il contadino. La difficoltà che ho avuto, invece, deriva dal fatto che mio nonno era l’esatto contrario di Sebbastiano. Lui è stato una persona fondamentale per me; se sono arrivato a fare questo mestiere è stato grazie a lui che era un cantore, amava stare al centro dell’attenzione. Volevo regalargli qualcosa, nonostante fosse completamente diverso dal mio personaggio. Ho cercato di trovare qualche tratto fisico, qualche somiglianza: con la camminata zoppicante, la durezza nei movimenti, ho cercato di ricordare mio nonno che aveva delle mani grandissime. Questo è uno spettacolo che permette ogni volta di trovare qualcosa di nuovo e di diverso perché dentro ci sono tanti sentimenti, tante emozioni

Francesco Giordano: Come attore ho sempre interpretato ruoli molto potenti, per me lavorare in sottrazione è stata una possibilità enorme. In realtà, è togliendo che si aggiungono più cose di se stessi all’interno di un personaggio. Abbiamo lavorato sulla figura di Ciccio ricercando la leggerezza di un bambino, l’ingenuità. Questa è stata la chiave che abbiamo trovato insieme, definendo le caratteristiche, recuperando il disincanto di credere realmente ai propri sogni, alla possibilità di danzare. Non pensando da adulti, ma da bimbi. All’inizio è stato un po’ un trauma fare a meno di tutte le mie certezze attoriali, a partire dalla timbrica vocale. Poi però ci siamo sciolti, si è trattato di un lavoro che abbiamo fatto insieme preparando lo spettacolo in residenza. Abbiamo vissuto come una famiglia per più di dieci giorni, condividendo il sonno, il cibo, le risate. 

Ci sono state delle tappe intermedie, nella definizione dello spettacolo,  dai giorni della residenza al debutto alla Pelanda con il Roma Fringe Festival?

Alberto Fumagalli:  Dalla residenza alla Pelanda ci sono stati diversi passaggi. La storia di Ciccio Speranza si è un po’ cicatrizzata, come accade spesso ai lavori delle giovani compagnie. Il tentativo di sbarcare il lunario passa attraverso i festival, i bandi e le residenze. Ma, di volta in volta, il vincitore può essere solo uno. Bisogna costruirsele da sé queste possibilità. Grazie al comune di Fara Gera d’Adda, alla mia meravigliosa famiglia formata da mamma, papà, fratello e cani abbiamo realizzato la possibilità concreta di aprire le porte di una comunità, una piccola Woodstock sulle rive del fiume Adda dove gli artisti possono incontrarsi e ricercare. Siamo passati attraverso diversi Festival, con le loro regole e i loro meccanismi, da cui si rischia di uscirne provati. È successo che siamo arrivati fino in fondo e poi non siamo stati scelti per la cartellonistica della stagione. In altri contesti, siamo arrivati in semifinale ma poi sono state premiate altre compagnie. Alla fine è arrivato invece il riconoscimento e il premio del Fringe che ha fatto molto bene alla nostra compagnia. C’è stato un percorso di abbattimento totale per poi rinascere. Da un punto di vista drammaturgico, ho avuto un momento di grande blocco. Dalla prima scrittura alla forma definitiva, a mio parere, i testi devono superare almeno una dozzina di stesure. Quando abbiamo fatto una delle prime letture nella mia cucina tutti insieme, più che ascoltare le battute io guardavo le facce degli attori. Ricordo di aver detto a Ludovica di essermi sentito nel pieno di una crisi creativa che è stata risolta con una mossa molto intelligente, quella di collaborare con un giovane fotografo, Matteo Buonomo. È stato proprio lui, con i suoi ritratti, a mostrarmi come erano i personaggi e da lì ho capito che il testo sarebbe andato verso un’altra direzione. La pazienza, lo spirito di ricerca, la conoscenza sono caratteristiche che fanno parte del nostro gruppo artistico e ci hanno permesso di superare tutte le difficoltà. 

Giacomo Bottoni:  Un giorno Alberto ci ha chiamati tutti e tre perché era un po’ preoccupato. Voleva capire delle cose, cancellare tutto quello che avevamo fatto fino ad allora. È così grande la fiducia che nutro per lui che non mi sono spaventato nemmeno per un secondo. In quella circostanza gli ho risposto di togliere tutto e ricominciare perché credo che le porte in faccia che abbiamo preso siano servite. La pazienza che abbiamo avuto nell’aspettare il momento giusto ci ha permesso di realizzare qualcosa in cui abbiamo tutti creduto. Da noi attori, ad Alberto e Ludovica, a Giulio Morini, Tommaso Ferrero e lo stesso Matteo, il fotografo, che è stato con noi una settimana e che è entrato a far parte di questa grande famiglia, il cui punto più alto è rappresentato da Nives e Fulgenzio, i genitori di Alberto. Due persone che sono state fondamentali per le nostre vite e per lo spettacolo. Fara Gera d’Adda è ormai una seconda casa. Tutto questo ha evidenziato e rafforzato sempre di più la fiducia tra di noi. 

DRAMMATURGIA:  Un Tramezzino Tautologico di Mauro Tiberi

DRAMMATURGIA: Un Tramezzino Tautologico di Mauro Tiberi

Un tramezzino tautologico Di Mauro Tiberi

Un tramezzino tautologico Di Mauro Tiberitr

Vincitore del premio come Miglior Drammaturgia nella VII edizione del Fringe Festival di Roma, Tramezzino Tautologico di Mauro Tiberi è un’opera le cui parole pesano come cemento sulle corde della nostra sensibilità. In scena un uomo e la propria abitazione, spartana e fatiscente, dove è presente il minimo indispensabile per la sopravvivenza dell’artista: una libreria ricca di titoli si contrappone a un tavolo e a un piano cottura desolati e spogli su cui prepara il suo spuntino, grottescamente composto da un tozzo di pane raffermo e da una sottiletta di formaggio, recuperata dal frigo assieme a una bottiglia d’acqua, uno dei segni salienti di un beffardo ritratto della solitudine. Una telefonata e poi una registrazione; la lettura di una fiaba alla propria nipote, che si trasforma nell’urlo disperato di un uomo senza prospettive.

Mauro Tiberi, autore ed interprete di questo toccante monologo, interpreta un autore di teatro scontroso, burbero e volgare, anzi volgarissimo, che non si fa problemi ad aprirsi con tutto sé stesso alla propria nipotina, forse da lui considerata come l’unica anima pura rimasta rispetto ai suoi simili che lo hanno confinato nell’inferno dell’incomprensione e nel dolore di un amore non ricambiato. E, come se non bastasse, uno spettro aleggia nella conversazione: la depressione.

Tramezzino Tautologico è la dimostrazione di un teatro le cui parole e la cui scena sono una spaventosa diapositiva della nostra condizione fragile e indifesa: un essere umano piccolo e mediocre, fatto di velleità, di volgarità e di capricci e, purtroppo, anche di dolore. Una rappresentazione dell’essere umano così viva e vera sulla scena da prendere alla gola lo spettatore battuta dopo battuta.

 

 

Intervista a Mauro Tiberi

Sono nato a Roma il 28 luglio del 1989 ma abito a Pomezia. Questo credo che basti a racchiudere un po’ tutte le questioni. Aggiungerei anche un appunto sulla mia menomazione alla mano destra e sui miei problemi di balbuzie. Ecco, ora il profilo del personaggio è completo.

Mi sono sempre un po’ sentito ai margini di ogni cosa pur facendone parte.

C’è chi dice che la marginalità sia uno degli ingredienti fondamentali dell’arte come anche la sofferenza, la cirrosi e la gonorrea. Per quanto riguarda le ultime due ci sto ancora lavorando.

Quando ho scoperto il mondo del teatro nel 2006 le mie prospettive e la visione d’insieme di me stesso sono drasticamente cambiate. Mi sono fin da subito reso conto che in scena non balbettavo e che la mia mano non si notava. Poi, nel corso degli anni, anche Pomezia è diventata una valida alleata. Una sorta di punto di riferimento da osteggiare e combattere con la lama tagliente dell’ironia.

E’ stata un’esplosione di vivacità espressiva. Ho iniziato a scrivere e ad aver bisogno di un palco in un rapporto di totale dipendenza da esso.

C’ho messo un po’. Sono anche una persona molto lenta. Nel 2016 mi sono iscritto a Teatro Azione e ho scelto, in un ritardo massimo, di dedicarmi esclusivamente alle mie velleità artistiche perché per me il teatro non è solo un luogo in cui esprimere qualcosa. E’ l’unico luogo in cui non mi sento a disagio, dove il disprezzo che nutro a livello molecolare verso me stesso viene meno.

L’essere umano è l’unico a percepirsi nel mondo che lo circonda. E’ l’unico a dire “che fame! Ho bisogno di cibo ma prima devo calarmi un lexotan perché la vita è indubbiamente intollerabile sotto ogni punto di vista”. Per me quel lexotan è il teatro. Mi rasserena, paradossalmente interrompe quel moto di dissociazione dalla realtà e mi fa tornare la voglia di avere rapporti sessuali al limite dell’indecenza.

 

Leggi un estratto di Tramezzino Tautologico

Pezzi vince il Roma Fringe Festival 2019. Intervista alla compagnia Rueda Teatro

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 Pezzi - si vive per imparare a restare morti tanto tempo

Pezzi – si vive per imparare a restare morti tanto tempo

Vincitore del Roma Fringe Festival 2019, Pezzi – si vive per imparare a restare morti tanto tempo, è il risultato di nove mesi di scrittura scenica, attraverso un continuo scambio artistico tra la regista e drammaturga Laura Nardinocchi e le attrici Ilaria Giorgi, Claudia Guidi e Ilaria Fantozzi della Compagnia Rueda Teatro. Ogni elemento della storia è nato dalla compagnia e si è evoluto attraverso un lavoro comune: i dialoghi, i personaggi, la stessa scenografia. Ogni elemento si è sviluppato nel corso di diversi e lunghi esperimenti scenici. Probabilmente un lavoro così viscerale, praticamente materno, tra la compagnia e questo spettacolo lo ha reso così intenso, efficace, toccante.

Tutto parte da un dato autobiografico della regista Laura Nardirocchi, incontrata subito dopo lo spettacolo:        “L’aspetto autobiografico è stato il motore, la spinta necessaria poiché avevamo l’urgenza di inquadrare il lavoro sotto il tema del lutto. Tutto quello che è nato è giunto successivamente dalle attrici; di me c’è molto poco dentro lo spettacolo. Bisogna premettere che questo spettacolo è nato come saggio di regia del mio terzo anni di studi registici e, dopo aver lavorato tanto con persone della mia scuola, volevo un po’ estendere le mie conoscenze. Dato che con Claudia Guidi e Ilaria Giorgi già avevo avviato un rapporto amicale oltreché artistico, tutto il progetto è nato con loro. Solo successivamente ho avuto questo bisogno di una persona esterna. Dopo vari incontri, ho trovato Ilaria Fantozzi.

Cercavo di creare un gruppo affiatato e lei si è proprio inserita subito all’interno della compagnia, senza neanche troppo difficoltà devo dire, anche perché il lavoro era talmente corale, che tutte noi a nostro modo amavamo collaborare e insieme, giorno dopo giorno, aggiungevamo qualcosa al lavoro. Questo è secondo me ciò che mi ha aiutato a crescere di più sia dal punto di vista registico sia nel modo di vedere il teatro e la figura del regista. Tutte noi condividiamo un teatro che nasce dal corpo e dal lavoro attoriale: partendo quindi dall’improvvisazione, abbiamo creato un senso drammaturgico, lavorando sul tema e sui ruoli, sugli oggetti e sul ricordo. Come un sacco di Babbo Natale, per rimanere in tema con lo spettacolo, dove ognuna di noi metteva qualcosa, questa è l’immagine che darei del nostro lavoro.”

Un processo quindi che parte dalla radice stessa, mettendo in discussione qualsiasi costruzione a tavolino. Ilaria Giorgi, che interpreta la madre vedova di questa famiglia mutilata, chiarisce come anche il suo personaggio sia stato concepito nel corso di questi nove mesi (quasi una vera e propria gravidanza): “ Gli stessi personaggi, ad esempio, non li avevamo definiti all’inzio. Noi volevamo lavorare su questa famiglia, ma non sapevamo quali dovevano essere questi ruoli. Poi provando a lavorare, facendo all’inizio molto lavoro sul fisico, “staccando” la testa e caricandoci di suggestioni, abbiamo lasciato che tutto quell’immaginario acquisito scorresse nel nostro corpo. Da lì in poi, le risposte ti salgono a galla da sole. Tutto è nato spontaneamente, con una cura costante. Ciò che è stato fondamentale è stata la cura e la passione. “

 Pezzi - si vive per imparare a restare morti tanto tempo

Pezzi – si vive per imparare a restare morti tanto tempo

Perfino il titolo, Pezzi, è il risultato di un lavoro comune della compagnia, scelto dopo aver vagliato diverse scelte proposte di comune accordo. Il risultato finale rispecchia effettivamente la frantumazione data dal trauma, esattamente come avviene fisicamente in scena con la frantumazione delle palle di Natale; ma giustamente, ci ricorda Claudia Guidi:

“Tutto ciò che si rompe in pezzi può essere ricostruito, rimesso insieme. Il titolo anche è nato dopo aver cominciato a lavorare sullo spettacolo, ed è arrivato. Partendo dal sottotitolo, si tratta di una frase di un testo di William Faulkner, Mentre Morivo. Tra i metodi di lavoro che abbiamo usato per arrivare alle scene, Laura ci ha anche proposto delle frasi, di poesie o di testi. Noi da quelle suggestioni dovevamo creare un’immagine dandole successivamente una corporeità. Da una frase così lunga, cercavamo un titolo breve, una parola massimo. Pezzi è il frutto di una decina di titoli portati da ciascuna di noi. Pezzi però è una parola che ne può vuol dire mille altre: frammenti, i cocci di qualcosa che si è rotto, donne a pezzi, crepe. Ma pezzi anche di cose che unite: pezzi di persone creano una famiglia, pezzi di legno come nel caso della la struttura dell’albero o come i pezzi di cravatta che creano l’addobbo dell’albero.”

Pezzi racconta di una perdita, una lacerante mancanza nella vita di tre donne. Questo tema viene affrontato in una limpida e dura rappresentazione della realtà di tre donne, in tre diverse fasi della vita, messe di fronte al lutto e costrette a dover in qualche modo reagire, attraverso percorsi tortuosi, che separandole riescono infine a ricongiungerle. Il tutto si svolge in un giorno di festa, quello prima di Natale: c’è da fare l’albero, si parla del cenone, degli ospiti, dei regali e dei desideri e di un magico Scarpariello, una sorta di Babbo Natale. Ma il lutto, il dolore, il fantasma di una figura maschile strappata via aleggia ancora su queste donne. Mentre molte cose perdono di senso, come lo spirito di una festa, altre ne acquistano nuovi, come la figura dello Scarpariello per la più piccola delle figlie.

La regista Laura Nardinocchi conclude dicendo che: “ Non volevamo fare uno spettacolo sul pathos, l’aspetto patetico del dolore, ma su come tre donne, senza più una figura maschile, vivano all’interno dello stesso contesto. Ognuna di loro trova il modo di reagire: la madre lo affronta con la negazione, cercando di caricarsi di un’energia palesemente inesistente con la quale spera di eccitare le figlie. Una, ancora bambina, che non si rende conto di cosa sia la morte e che ancora spera in questo ritorno, ancora attaccata al passato; e l’altra, una figlia grande, che vorrebbe mandare a quel paese il Natale. “Come si reagisce al lutto?”: questa è la domanda che ha mosso il nostro lavoro, accompagnandolo con suggestioni visive, ma anche acustiche. ”

La scenografia, nel suo minimalismo, non è solamente funzionale al racconto ma anche ricca di simbolismi e di riferimenti: pochi cubi e parallelepipedi di legno che da salone possono diventare lapide; un albero di Natale composto di canne di bambù e montato su di un asse di ferro, che diventa croce. Una scenografia quindi componibile e scomponibile, mossa dai ricordi e dalle emozioni dei suoi protagonisti.

Proprio rispetto alla costruzione visiva dello spettacolo così risponde Laura Nardinocchi: “ Questa è una scelta stilistica personale, più che legata allo spettacolo: io amo lavorare con una scenografia che si costruisce man mano, e questo proprio perché mi piace lavorare con gli attori. Lo faccio anche per abituare il pubblico a sforzarsi a vedere qualcosa oltre il semplice cubo di legno. Non ho interesse a inserire elementi comuni come sedie, tavoli, cellulari, parolacce nei miei spettacoli. Sarebbe stato molto più facile ed economico comprare un albero da mettere in scena, ma avrebbe inevitabilmente perso tutta la sua forza poetica, dalla quale io parto e alla quale tengo tantissimo.