Nel cuore di Trastevere, presso il Teatro Argot Studio di Roma, continuano gli imperdibili appuntamenti teatrali di DPBLACKMIRROR, rassegna a cura degli under 25 di Dominio Pubblico inserita nella stagione Home Sweet Home. Dal 21 al 25 Febbraio sbarca sulla scena capitolina Ifigenia in Cardiff con l’attrice e performer Roberta Caronia, vincitrice per l’interpretazione di Effie del XIII Premio Virginia Reiter dedicato “alla migliore attrice del panorama teatrale italiano nella fase iniziale della carriera” e con la regia di Valter Malosti.
Ifigenia in Cardiff di Gary Owen (dall’originario Iphigenia in Splott) è un delirio monologante denso di lucidità che si rivela a poco a poco, ribaltando gli equilibri del senso comune e scardinando moralismi e perbenismi vari. Con un linguaggio abrasivo pieno d’ironia tagliente, Owen affonda il coltello nelle maglie sconnesse della contemporaneità, consegnandoci il ritratto al vetriolo di un’Ifigenia moderna che non ci sta ad essere la vittima sacrificale di un sistema già scritto, e pertanto reagisce, opponendo al Fato, che la vorrebbe vendicativa e miope, la sua intelligenza feroce, il ghigno beffardo, la più inaspettata compassione. Effie non è un capro espiatorio, ma testimone ferale e voce d’accusa contro un potere che, con la sua ingombrante ingordigia, divora le vite degli altri.
Un affresco metropolitano ambientato nei sobborghi desolati dell’umanità, un grido disperato racchiuso nelle pieghe di un testo dove la matrice classica si irrora di contemporaneo: Ifigenia in Cardiff di Gary Owen (dall’originario Iphigenia in Splott) ha debuttato come studio nel 2016 alla rassegna teatrale “Trend – Nuove frontiere della scena britannica” incentrata sulla drammaturgia contemporanea anglosassone, a cura di Rodolfo Di Giammarco e l’anno successivo in forma spettacolare per il Festival delle Colline Torinesi dove ha riscosso un grande successo fra le migliori penne critiche della carta stampata nazionale che ne hanno confermato il pregevole valore artistico. In vista di questo debutto, raggiungiamo via telefono Valter Malosti per un’intervista che racconti il tragitto artistico partito da Cardiff e giunto fino a Trastevere.
Come ha scoperto questo testo?
Il progetto nasce, come parecchi dei miei progetti negli anni passati in collaborazione con Trend e quindi in particolare con Rodolfo Di Giammarco con cui avevamo già realizzato in passato i lavori di Enda Walsh, che adesso è diventato famosissimo, di Claire Dowie e Simon Stephens. Diciamo che è una specie di laboratorio che io accetto di fare quando posso perché mi permette di conoscere degli autori che altrimenti non conoscerei. Ogni volta che inizia Trend faccio delle mie proposte e loro, in particolar modo Rodolfo e i suoi collaboratori, mi propongono testi nuovi che non è facile conoscere qui; tra i testi che mi sono stati presentati ho trovato Ifigenia in Cardiff e ho scelto di farlo dal momento che avevo l’attrice giusta, Roberta Caronia, visto che amo svolgere un lavoro sempre molto basato sugli attori. In realtà il titolo originale è in Ifigenia in Splott che è un quartiere di Cardiff ma per semplificare abbiamo deciso di chiamarlo Ifigenia in Cardiff così ci è sembrato un titolo più evocativo che il pubblico potesse riconoscere.
Perché ha scelto di rappresentarlo?
È un testo molto forte, con una lingua particolare. Una cosa che mi interessa sempre nei testi è che essi abbiano una lingua in qualche modo esplosiva, interessante sia da tradurre, sia da portare in scena per dare la possibilità agli attori di farne un percorso che non sia semplicemente legato al contenuto ma che sia anche legato al suono. La cosa interessante di questo testo è che parla di Effie, una ragazza ai margini della società, che vive di droga e di alcol in Splott, quartiere popolare di Cardiff abitato anche da molti stranieri. Qui Effie incontrerà durante le sue scorribande notturne esagitate l’amore della sua vita. Di fondo c’è questa storia d’amore con un soldato che torna dall’Afghanistan con una menomazione esteriore che è più evidente ma allo stesso modo dolorosa alla ferita più interiore di Effie che riesce a guarire in una notte d’amore. Poi vedremo che durante lo scorrere del testo quest’amore enorme che le cambia la vita è un amore sfortunato.
Come si è sviluppato il lavoro e qual è stato l’approccio registico adottato nei confronti dell’attrice Roberta Caronia?
È un lavoro nato durante la tournée de “Il berretto a Sonagli” insieme a Roberta Caronia. Abbiamo cominciato a provare piano piano questo lavoro che prima ha debuttato al Trend e poi abbiamo fatto un vero e proprio spettacolo al Festival delle Colline Torinesi l’estate scorsa. Un po’ averlo provato in tournée e un po’ il tipo di testo mi ha ricordato Ken Loach, quella secchezza, quella profondità nella semplicità ed è diventato uno spettacolo in cui la regia è pochissimo appariscente ma proprio per mia scelta perché tutto il meccanismo dello spettacolo è addossato completamente sulle spalle dell’attrice. Durante il lavoro abbiamo tolto molte cose, anche alcune azioni che erano iscritte nello spettacolo. Ho sentito la necessità di farne un lavoro nudo e scabro. L’unica azione, fra quelle descritte dalle indicazioni interne al testo, che lei compie è quella di scrivere alcuni numeri su di una lavagna, alcuni di questi numeri diventano anche qualcosa di più simbolico. Per il resto l’attrice agisce quasi in maniera frontale. In questo caso ho voluto accentrare tutto su di lei come un primo piano costante e quindi siamo partiti da lei e dal suo modo di essere in scena, come una specie di spettatore dell’anima e del corpo di questa performer. Non c’è nessuna tecnica particolare usata, ci siamo conosciuti durante la tournée ed è stato in un certo modo facile capire quali erano le direzioni giuste. Io ho lavorato sul ritmo musicale nel complesso del testo anche se non c’è praticamente musica e quindi un’altra difficoltà per l’attrice è che non ha nessun appoggio di nessun tipo per tutto lo spettacolo. Questa è proprio l’offerta, una specie di sacrificio dove l’idea registica si tramuta in un’offerta sacrificale, così evidente e nuda, di un’anima e di un corpo agli spettatori.
E’ possibile ricercare un punto di contatto fra il mito classico di Ifigenia e la contemporaneità di Effie? In questo senso in che modo la parabola esistenziale della protagonista riesce a parlare universalmente della condizione umana?
Questa parabola umana finisce esemplarmente ma in maniera un po’ bizzarra ma non posso svelarlo perché sennò svelo tutto lo spettacolo quindi è meglio che rimanga misterioso anche perché è un passaggio misterioso anche per noi a cui stiamo ci accostando e ci stiamo pian piano avvicinando a quel possibile frammento di verità che riguarda tutti noi. Ci stiamo costantemente lavorando perché è un passaggio molto complicato dal momento che implica uno scarto poetico molto forte dove si passa da questa cosa molto personale e iperrealista per poi volgersi dall’altra parte facendo diventare questa figurina una specie di gigante. Non è facile e ci stiamo lavorando perché il testo in questo senso è molto esile, il finale non rappresenta la parte forte di questo testo. Questo finale però è molto interessante è come se l’autore avesse avuto un’idea molto forte a cui non bastano le parole che ci ha lasciato in eredità per descriverlo.
Alla fine questa storia si ribalta su un ulteriore aspetto per questo si chiama Ifigenia perché l’autore prende spunto da questa storia iper realistica per poi volgersi in qualche modo a uno sguardo più collettivo per questa tragedia personale che diventa un monito universale per tutti noi che abbiamo a fianco le persone della nostra vita di cui non ci accorgiamo mai.
Quali saranno le prossime tappe di questo spettacolo?
Abbiamo già fatto una parte di nord poi andremo in Puglia a Taranto. Il prossimo anno verrà ripreso e andrà sicuramente a Milano. Questo è uno spettacolo come molti di questi miei piccoli spettacoli che hanno una vita da no-sellers cioè io tengo molto al mio repertorio e quindi tendo a non buttare i lavori buoni che si fanno. Con molta perseveranza a volte i lavori sono durati anche 10 o 15 anni non vedo perché buttare via dei lavori di qualità ed è quello che cercheremo di fare con questo piccolo lavoro cioè di conservarlo nel tempo e di farlo vedere il più possibile. Così io, a fianco di altre produzioni più legate a rivisitazione di classi legate alla poesia e alla musica, ogni tanto mi vado a occupare di queste creature che altrimenti non avrebbero voce.
Il 14 e 15 dicembre andrà in scena al Teatro Belli di Roma, in prima nazionale, Out of Love testo di Elinor Cook – inedito in Italia – portato sulla scena dalla Compagnia Habitas per la rassegna TREND – Nuove frontiere della scena britannica, giunta alla sua diciottesima edizione. Come ogni anno, la rassegna curata da Rodolfo di Giammarco pone al centro la drammaturgia contemporanea britannica, offrendo al pubblico romano lavori di traduzione e di messinscena a cura di numerosi artisti.Come nel caso di Out of Love, un’opera che verrà proposta per la prima volta in Italia: un testo frammentato con continui salti temporali, che sono riverberi drammaturgici sulla vita e sull’amicizia tra due donne, Grace e Lorna, in un arco di trent’anni, dall’infanzia all’età adulta, senza una linearità cronologica. Una sfida accettata dalla Compagnia Habitas che, seppur giovane, ha già ottenuto molti riconoscimenti sul territorio nazionale. Abbiamo intervistato il regista Niccolò Matcovich per raccontare questa nuova produzione.
Out of Love, di Elinor Cook: come è stato trovato questo testo e come è stato pensato per la scena?
Ci è stato commissionato direttamente da TREND, che me lo ha inviato con la traduzione di Maurizio Pepe, prima dell’estate. Da fine agosto ho iniziato a lavorare con il dramaturg, Rocco Placidi, sullo studio e la comprensione della drammaturgia: Out of love è la storia di un’amicizia, ambientata in Inghilterra dal 1984 al 2014. L’autrice lo propone in una scomposizione temporale che alterna ogni singola scena con salti anche fino a cinque, dieci, quindici anni. Noi abbiamo individuato tre blocchi principali: l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta di queste due ragazze, ricombinando i quadri in maniera organica ma che, allo stesso tempo, rispettasse la natura del testo. La nostra sequenza vedrà quindi prima l’adolescenza, poi il ritorno all’infanzia e infine il salto all’età adulta. Con una sorpresa finale.
Nel tuo ruolo di regista, come ti sei relazionato al testo?
Le scene sono tutte piuttosto brevi e includono tantissimi personaggi: oltre le due protagoniste – qui interpretate da Livia Antonelli e Dacia D’Acunto –, c’è un terzo attore, previsto dall’autrice, un che interpreta dieci ruoli maschili diversi – per noi, Livio Remuzzi. Per capire tutti i collegamenti temporali, le relazioni familiari, le amicizie, gli amori, i drammi…. abbiamo dovuto scavare a fondo nel testo; a tratti ci sembrava di avere tra le mani un thriller. Una volta fatto questo, ho individuato il mio focus di interesse per la messa in scena e cioè quello di raccontare la relazione tra le protagoniste. Il testo – a livello di linguaggio e non di struttura – è realistico, ma abbiamo deciso di mettere in scena, mantenendo le parole per come sono, quelle che sono le dinamiche che stanno al di sotto del testo stesso. È un’esplorazione piuttosto nuova per noi, che si concretizza nel sostenere la lingua con l’azione fisica che rafforzi la dinamica alla base delle parole.
Come è nata questa esigenza di agire nel sottotesto?
È stata la chiave per andare a rafforzare il linguaggio realistico. Noi non lavoriamo mai sul realismo scenico e ci interessava capire come spezzarlo per esaltare il racconto. Vedremo se il tentativo sarà riuscito…
Suppongo che questa scelta ti abbia condotto a un particolare confronto con gli attori.
Molte delle dinamiche alla base delle scene le abbiamo scoperte in prova, insieme. Siamo andati per gradi: ci siamo prima chiesti cosa fosse una dinamica e poi come declinarla nelle varie scene e nei tre blocchi temporali. Dopo averle rintracciate tutte le abbiamo esplorate nella pratica, attraverso improvvisazioni, suggestioni, riferimenti, stimoli nati dal testo; infine, poco alla volta, le abbiamo confermate e fatte confluire nel vero e proprio montaggio scenico.
E di questa ricerca, cosa si propone al pubblico?
Il pubblico vedrà esattamente le dinamiche che abbiamo trovato, esplorato, sperimentato durante le prove. Nei dialoghi nulla è fuori posto: sono poi le azioni fisiche a contro-bilanciare le scene rompendo il realismo, in profonda sinergia con le parole da cui scaturiscono.
Un misto tra sperimentale e tradizionale.
Abbiamo cercato di esaltare il testo senza assecondarlo pedissequamente, di farlo esplodere con questa modalità.
Tu sei diplomato come drammaturgo alla Paolo Grassi, poi nel tempo hai integrato il lavoro come regista. Come cambia il tuo approccio quando sei autore e regista del tuo spettacolo e quando, invece, sei il regista ma non l’autore, come in questo caso?
Habitas nasce nel 2016 e in questi anni abbiamo lavorato principalmente su miei testi. Una posizione fin troppo comoda, per me, tanto che a un certo punto mi sono stancato di “auto-rappresentarmi” e questa è stata un’occasione d’oro per potermi approcciare a un meccanismo molto più interessante: lo studio, la ricerca, la comprensione, anche il confronto da drammaturgo a drammaturgo. Perché, in primis, il lavoro che ho fatto con Out of Love è stato quello di confrontarmi da autore con un’autrice, Elinor Cook, che è più grande di me, più esperta di me, più brava di me. Subito dopo è scattato il pensiero registico, quindi andare a capire, una volta messa da parte la visione drammaturgica, come interpretare quella drammaturgia. Lo scoglio più grande all’inizio è stato, come ho già detto, scardinare il realismo mantenendo intatto il testo.
Hai anche avuto occasione di avere un confronto diretto con Elinor Cook?
No, ma mi sarebbe piaciuto. Soprattutto nella prima fase di lavoro, in cui avevo molti dubbi che avrei voluto sbrogliare contattandola. Ma ho resistito e, quando abbiamo trovato la nostra strada per la messa in scena, non ne ho più sentito il bisogno. Chissà se vedendolo ne sarebbe contenta?
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Novembre, mese di intense emozioni, di prime nazionali e di messaggi dai risvolti sociali al Teatro Belli di Roma. Si sono determinate così le condizioni per riflettere su tematiche e miti dei giorni nostri. Presupposti che hanno dato la possibilità di riflettere per trovare similitudini e differenze tra palco e realtà. È emersa tanta vita nelle storie di donne e uomini, negli spettacoli andati in scena nell’ambito della rassegna Trend, nuove frontiere della scena britannica, a cura di Rodolfo di Giammarco.
Not Not Not Not Not Enough Oxygen – regia di Giorgina Pi
Not Not Not Not Not Enough Oxygen di Caryl Churchill, in scena dal 13 al 15 novembre, interpretato da Aglaia Mora, Xhulio Petushi, Marco Spiga con la regia di Giorgina Pi, risulta quasi profetico e molto aderente con la quotidianità e con il crescente diramarsi di bollettini di allarme meteo. Il pericolo può arrivare, di volta in volta, da forti piogge che fanno ingenti danni o da raffiche di vento che spezzano in due alberi. Quella che nel 1971 aveva immaginato la Churchill, drammaturga di lingua inglese e scrittrice contemporanea, è una distopia, una società spaventosa ambientata in una Londra del 2010, denominata Londre. All’epoca ipotizzava scenari inquietanti per il futuro. Quarantasette anni dopo è un boccone troppo amaro da accettare e da mandare giù. Si coglie una dimensione politica in uno dei tanti effetti di distruzione di massa del capitalismo, del nuovo ordine e di quello che nel frattempo è diventato un vecchio disordine mondiale.
L’aria di Londre è irrespirabile e non è solo una metafora. All’esterno la concentrazione di anidride carbonica ha reso ancora più cupo il cielo londinese. Dentro piccoli e asfittici appartamenti monocamera, per poter vivere e respirare si spruzza l’ossigeno contenuto in confezioni spray per l’ambiente. Possono comprarle solo quelle persone che se lo possono permettere. Quasi come una droga, sicuramente una dipendenza per sopravvivere, effetto di una mutazione compiuta dall’uomo. La città non è afflitta soltanto dall’inquinamento. Il dislivello tra le classi di ricchi e di poveri ha determinato un irrimediabile abisso sociale, per le strade si aggirano orde di fanatici e rivoluzionari. In uno di questi monolocali avviene l’incontro, dopo tanti anni di separazione, tra Claude, famosa pop star e l’anziano genitore, il solitario Mick. Con loro c’è anche Vivian, quarantenne, vicina di casa balbettante che vorrebbe lasciare il marito per trasferirsi in quella casa, ma non c’è spazio né ossigeno per due, in quel perimetro minuscolo e ristretto. Il legame è stretto tra l’ambiente esterno e i mondi interiori, le emozioni, i sentimenti. Risultano inquinati anch’essi da quelle esalazioni tossiche. L’occasione è utile per fare il punto non solo sull’ecologia dell’ambiente, ma anche su una “ecologia dei rapporti umani”.
Ogni conseguenza nasce scaturisce da una causa, una sottotraccia che è la bugia. Mentire per l’essere umano è un meccanismo automatico come respirare. I bambini imparano presto a piangere e a dissimulare per conquistare l’attenzione dei grandi. Gli adulti imparano a mentire per una moltitudine di ragioni e di scopi. Lo fanno i politici, da sempre, e anche i mariti, le mogli, gli uomini e le donne di ogni società.
All The Things I Lied About ha avuto tre repliche al Teatro Belli, dal 16 al 18 novembre. È un monologo che ha vinto il premio Off West End del 2018 per la drammaturgia. L’autrice è Katie Bonna che è attrice, poetessa e scrittrice per il teatro e la tv. Il testo, di cui è stata protagonista e interprete Elisa Benedetta Marinoni, con la regia di Alessandro Tedeschi, provoca e intrattiene il pubblico suscitando divertimento e commozione. Nel testo vengono messe insieme e sviluppate tematiche come la violenza sulle donne e l’amore, la fedeltà e l’infedeltà. Tutto questo per costruire il teorema che la verità va contro gli istinti evolutivi della specie umana. Si può mentire per troppa noia o per il senso di colpa, per l’incapacità nel fare la cosa giusta o nel dire un semplice no. La bugia può agganciarsi fatalmente con la persuasione e la manipolazione dell’altro, fino a diventare aggressione verbale o violenza. I bambini e i ragazzi assorbono l’esempio degli adulti, sviluppando l’abilità ad alterare la realtà, ad ingannare e sopraffare l’altro come se fosse un nemico da abbattere, come se la vita fosse un film. Attraverso un processo di desensibilizzazione e training occulto, le nuove generazioni osservano e imparano, entrano in contatto con la realtà attraversando la porta della televisione e dei videogiochi.
La possibilità di trasferire la ferocia e la brutalità dalla finzione alla realtà è molto alta. To kill in inglese significa uccidere, Killology, il testo teatrale di Gary Owen, andato in scena dal 20 al 24 novembre, parla anche di questo. Di come un ragazzo finisce la sua giovane esistenza dopo lunghe torture, smembrato da una motosega tra le risate dei suoi pari, un branco assetato di sangue che ha deciso di divertirsi in un modo spietato, crudele, perverso. Killology è un videogioco, come viene raccontato nel testo, un nuovo e subdolo videogame che ha persuaso, plagiato e addestrato una generazione di piccoli mostri. Chi gioca ha come obiettivo principale quello di conquistare dei bonus che vengono semplicemente conquistati mediante la tortura delle vittime. In proporzione il punteggio aumenta tutte le volte che la creatività sadica è maggiore. Le fantasie più raccapriccianti nel gioco trasformano in eroe ogni potenziale killer. Questa è una distorsione sinistra con effetti non facilmente determinabili nella vita reale.
Owen è un drammaturgo gallese che, realizzando una carriera significativa, ha vinto numerosi premi. Ha dichiarato di avere scritto Killology sulla base di due spinte propulsive. La prima è stata determinata dalla lettura di un libro “On Killing” dove veniva analizzata l’influenza e i danni derivanti dalle rappresentazioni fittizie della violenza. La seconda, più personale e intima, è stato il suo mettersi in discussione come genitore e padre. Il cast formato da Stefano Santospago, Emiliano Coltorti ed Edoardo Purgatori è stato diretto dal regista Maurizio Mario Pepe. Grazie ad un lavoro di recitazione appassionato ed autentico, il pubblico, numeroso ad ogni replica, ha vissuto la potenza di quel carico emotivo che ha commosso, ma ha anche aperto una serie di riflessioni declinate secondo la sensibilità individuale.
A Behanding in Spokane. Con Denis Fontanari, Alice Arcuri, Carlo Sciaccaluga e Maurizio Bousso.
La violenza può essere inquietante e al tempo stesso esilarante? Martin McDonagh è un drammaturgo controverso, britannico di origini irlandesi, che riesce a creare dei racconti intrisi di oscurità e umorismo nero. Un uomo bianco sta in una stanza d’albergo. Qualcosa graffia da una superficie, dietro una porta. Esasperato, apre l’armadio e spara con la sua pistola. Si siede sul letto e telefona con ansia alla madre che non ha risposto alle sue chiamate. Questa è la scena d’apertura della commedia A behanding in Spokane.
Carmichael, un sicario di mezza età, è alla ricerca della mano mozzata che ha perso molti anni fa. Incontra così una coppia di truffatori che sostengono di avere quello che lui stava cercando. Un ambiguo concierge, ex galeotto, completa il cast dei personaggi. Martin McDonagh ambienta negli Stati Uniti la sua opera teatrale che al Belli ha visto protagonisti, dal 26 al 28 novembre,Andreapietro Anselmi, Alice Arcuri, Maurizio Bousso, Denis Fontanari, diretti da Carlo Sciaccaluga che ha anche tradotto il testo. Le ossessioni del drammaturgo anglo-irlandese si rivelano in quella stanza di un hotel: violenza casuale e improvvisa, persone disperate e sentimentalismi inaspettati. Il ritratto che realizza McDonagh vede protagonisti persone vendicative, truffatori, razzisti quanto basta, disposti a correre rischi per fare soldi in modo facile e veloce, terrorizzati dall’assumersi la responsabilità delle proprie azioni e sotto sotto, forse, si considerano come degli eroi. È difficile non intravedere, da qualche parte, un tratto comune, vaghe somiglianze, un po’ di noi e di quello che sempre di più stiamo diventando. Come se quei ruoli ci facessero diventare un po’ carnefici e vittime a ruoli alterni. Il tempo passa, i ruoli cambiano e le persone diventano diverse versioni di se stesse.
Harrogate di Al Smith – regia Stefano Patti
Il debutto di Harrogate di Al Smith, per la prima volta in Italia con la regia Stefano Patti, dal 30 novembre al 3 dicembre, interpretato da Marco Quaglia e Alice Spisa, conclude la narrazione del mese di novembre trascorso a Trend. La storia è quella di un uomo di mezza età. È facile dire di lui che si nasconde dietro una maschera, ma in realtà sono più interessanti le dinamiche della sua lotta interiore, in modo neutro, senza giudizio alcuno.
Forse lui non sta camuffando qualcosa di sé, ma sta facendo i conti con lo scorrere del tempo, il suo passato e quello che non sa gestire più perché nel frattempo è cambiato. È ossessionato dai sentimenti nei confronti della figlia adolescente ed è praticamente estraniato dalla moglie, sia emotivamente che sessualmente. Brama il passato, quando la sua compagna era più giovane, più divertente e, in definitiva, più come la loro figlia che indossa la t-shirt nera dei Ramones. Una battuta recita: “Sogno te giovane. Quando sono addormentato sei giovane quanto la ragazza che ho incontrato.” Il gioco è diviso in tre scene che servono per mostrare le relazioni dell’uomo con le donne della sua vita. Al Smith ha dichiarato che Harrogate è “un gioco su una famiglia, su una crisi e sul controllo delle relazioni al suo interno”.
Vivere con un’ossessione rende le persone incapaci di occuparsi e di preoccuparsi di altro che non sia l’oggetto di quel desiderio. Liberarsene non è impresa facile, può avvenire solo quando si smette di alimentare i nostri incubi, le fissazioni e i tormenti interiori. In fondo poco cambia se si tratta di un impulso di violenza o di sesso, un istinto di sopravvivenza o la patologia nel dire bugie. Quello che forse accomuna tutta questa drammaturgia è la possibilità di entrare in contatto con la parte più mostruosa e angosciante che alberga in ognuno di noi per purificare o fare una tregua con il nostro spirito umano, quello più intimo e iconoclasta.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Quella in corso è la XVII edizione della rassegna Trend, ideata e curata da Rodolfo Di Giammarco. Anche quest’anno l’appuntamento porta con sé i colori, l’aria vivace dell’autunno e le suggestioni di uno dei quartieri più caratteristici e multiculturali di Roma, Trastevere, dove si svolge la manifestazione, all’interno del Teatro Belli. Il calendario delle Nuove Frontiere della Scena Britannica è parte del programma di Contemporaneamente Roma 2018 promossa da Roma Capitale con il sostegno del Ministero dei Beni Culturali e della Regione Lazio.
Le proposte della sua programmazione risultano essere la caratteristica più intrinseca, la sua peculiarità. Una kermesse che intende offrire qualcosa di diverso rispetto ai cartelloni ufficiali e, contemporaneamente, un crogiolo di idee e racconti, un’allegra commistione tra tanti elementi eterogenei. Gli autori, gli attori e i registi sono famosi ed emergenti in parti più o meno uguali. Sono uomini e donne, giovani e meno giovani, esperti navigatori di quel mondo policromo che è il Teatro. I numeri di questa edizione raccontano di un palinsesto che si svolgerà dal 18 ottobre al 22 dicembre articolato in 17 titoli, oltre 50 artisti tra attori e registi e tre opere di teatro digitale.
The Cordelia Dream di Marina Carr ha iniziato la rassegna portando in scena le complessità di un rapporto tra un padre e sua figlia. Massimo De Francovich e Roberta Caronia hanno interpretato e scandagliato, tra le pieghe di quelle due anime, tutti i risvolti difficili e sgradevoli di un legame parentale, biologico e sociale. Una commedia caustica e attuale che contiene l’equazione, umana e dimostrabile, di come l’odio, a volte, può rappresentare un’altra faccia dell’amore.
Jordan è ispirato a una storia vera, quella di una giovane madre di nome Shirley. Fortemente attratta dal pericolo, probabilmente ha commesso il grande errore di baciare quello che lei definisce “un uomo-rospo” di nome Davy. Anna Reynolds, scrittrice e drammaturga britannica, descrive e porta dentro quella trama alcuni pezzi della sua vita tormentata e asimmetrica. La regia di Jordan è stata curata da Francesca Manieri e Federica Rosellini che è anche la protagonista che interpreta in scena.
Angela è una donna sola, sotto i riflettori così come nella sua vita, Angela. Francesca Bianco la interpreta ed è la protagonista di My Brilliant Divorce di Geraldine Aron. In realtà non è l’unico personaggio sul palcoscenico; ci sono frammenti video di presenze virtuali in bianco e nero e alcuni oggetti di scena. La storia brillante è quella di un ordinario abbandono. Una donna che dopo venticinque anni di matrimonio si ritrova senza un marito, senza una figlia e con una vita da ricostruire. Carlo Emilio Lerici, che abbiamo avuto l’opportunità di intervistare, è il regista e il traduttore di My Brilliant Divorce con l’ausilio di Enzo Aronica che ha realizzato la regia video.
C’era tanta attesa per Ivan & the Dogs di Hattie Naylor e in effetti l’interpretazione di Lorenzo Lavia è risultata essere magnetica ed equilibrata, ricca di emozioni. Le coordinate e le direzioni sono state date dalla mente registica di Massimiliano Farau. Ambientato nella Russia degli anni Novanta, la storia racconta di Ivan, un bambino di 4 anni che vive per strada, con il cane Belka che provvederà a fornirgli cure e amore come una madre, sostegno e protezione come un padre.
BU21 di Stuart Slade, con la regia di Alberto Giusta è l’effetto, la conseguenza di quella che è stata paura contemporanea e collettiva, il terrorismo. In una Londra devastata e distrutta da un attacco, sei sopravvissuti interpretati da Mario Cangiano, Daniela Duchi, Valentina Favella, Silvia Napoletano, Francesco Patanè e Matteo Sintucci si incontrano in una terapia di gruppo per condividere le loro esperienze e per cercare di elaborare e superare i traumi vissuti.
Il prossimo appuntamento, in programmazione dall’8 all’11 novembre, sarà En attendent Beckett, un percorso multimediale ideato da Glauco Mauri e Roberto Sturno, con la collaborazione di Andrea Baracco. L’idea è quella di esplorare i testi, la lirica paradossale e grottesca, le opere “L’ultimo nastro di Krapp” e “Atto senza parole” dell’autore inglese Samuel Beckett che, in Finale di Partita, scrisse un celebre ossimoro « Non c’è niente di più comico dell’infelicità».
Quello che abbiamo visto in queste prime tre settimane di programmazione sono state le diverse prospettive e le estensioni espressive ad esse connesse. Dirompenti nella loro forma drammatica, a volte taglienti nei loro risvolti ironici, brillanti o leggeri. Racconti intimi o corali, monologhi e dialoghi, frammenti personali di vita vissuta e rappresentata con la forza di un linguaggio universale e dinamico. Sono pezzi, brandelli di sogni, di ricordi, di esperienze al limite e in ogni caso intrise di feroce umanità. Le partiture drammaturgiche sono state da zone circoscritte e definite da Di Giammarco come “traumi di storie, terremoti di senso, tsunami linguistici”.
Trend, nuove frontiere della scena britannica
Abbiamo avuto l’opportunità di incontrare e intervistare il regista e autore Carlo Emilio Lerici, il quale cura l’organizzazione tecnica della rassegna e ha condiviso con noi le sue riflessioni al termine della replica del giovedì:
My brilliant divorce ha vinto diversi premi, è stato rappresentato in 28 paesi ed è stato realizzato un film. Lei ha curato la regia, ma anche la produzione del testo originale. Qual è stato l’approccio con il testo e che evoluzione ha avuto nella versione italiana?
Sono figlio di un autore teatrale e tendo a cambiare molto poco i testi, nutro un sacro rispetto verso di essi. Leggo sempre tante cose e ho trovato per caso My brilliant divorce, avevo visto una segnalazione di questo copione, abbastanza unico per un’attrice, l’ho tradotto in modo abbastanza fedele all’originale, senza particolari differenze. Ci sono dei giochi di parole che non ho cercato di ricostruire perché non c’è niente di peggio che provare a reinventarli.
Diciamo che l’intervento più consistente è che ho apportato dei tagli, ho accorciato molto il testo che è nato negli Stati Uniti, successivamente è stato riproposto in Irlanda e in Gran Bretagna ma lì il teatro funziona un po’ diversamente che da noi. Lo spettacolo originale durerebbe 2 ore e mezza, uno spettacolo in due atti che in Italia sarebbe molto complicato da proporre al pubblico.
Se viene fatto a Broadway con i mezzi che erano disposizione possono inventarsi di tutto. Ho visto il cane telecomandato, i palcoscenici che si muovono per cui riempiono queste due ore e mezza con tante cose. La scelta del lavoro sul testo è stata quella di andare a concentrarsi su un percorso molto lineare, molto semplice, molto diretto e quindi ho tagliato tutto quello che poteva essere una ripetizione, un ritornare sopra a qualcosa di già detto per rendere tutto più fluido, più veloce e farne un soffio.
Una sua riflessione sul lavoro di regia, dalla composizione alle messa in scena.
La cosa bella di questo testo è che è scritto molto bene. Forse la scrittura è più americana che inglese con la costruzione di situazioni che ritornano, il finale costruito in quel modo specifico. La messa in scena è finalizzata e tende a cercare di fare in modo che quando gli spettatori lo vedono, non devono pensare al lavoro del regista che c’è dietro. Meno si vede, meglio è. Chi vede lo spettacolo deve pensare che ha ascoltato una donna che raccontava la sua storia. Non deve pensare alla regia e se ciò avviene, vuol dire che ho fatto bene.
Quali sono state le scelte effettuate per la composizione del cast in video a supporto dell’attrice in scena?
Forse l’unica libertà che mi sono preso è la presenza in video degli attori perché, da copione, sono previste delle voci fuori campo che io non amo per niente. Avevo già fatto una scelta in tal senso tanti anni fa mettendo in scena Talk Radio, il testo di Eric Bogosian dove c’è un conduttore radiofonico che parla con gli ascoltatori; in quel caso era previsto che ci fossero tante voci. Mi ero divertito, invece, a creare un secondo palcoscenico dove c’erano gli attori veri, perché nel 2000 le proiezioni non si usavano e quella soluzione ha funzionato bene.
La stessa cosa è avvenuta ne La versione di Barney, un lavoro ho fatto sette anni fa. C’erano già le proiezioni e in quel caso ho usato degli attori che interagivano con il protagonista in scena, anche in quel caso l’idea è stata funzionale alla riuscita dello spettacolo. Devo dire che ieri come oggi, ho lavorato con Enzo Aronica che ha curato la regia video. L’idea di usare le mezze facce in bianco e nero è stata sua e ci siamo trovati bene perché mi piacciono le idee che ha su come usare le immagini. Inizialmente io volevo che si vedessero gli attori ma è stato lui a convincermi della bontà della sua intuizione.
L’esperienza del divorzio va nella direzione del panico o nella ricostruzione con leggerezza della propria vita ed esistenza?
Il panico, il dolore, l’abbandono, le difficoltà, tutti questi elementi ci sono e si sentono. Siccome il tono generale è leggero, questo non determina implicitamente il fatto che uno se ne dimentica. Mi piaceva l’idea di rappresentare e di far sentire veramente la preoccupazione e l’angoscia. Il tutto, però, in un contesto di leggerezza perché il concetto è quello che ci si può liberare di tanti pensieri e di tanti problemi lavorandoci sopra.
Cosa comporta curare l’organizzazione generale di una rassegna stimolante come Trend, giunta alla diciassettesima edizione, e qual è la sua esperienza?
Sono 17 anni che organizziamo la rassegna Trend qui al Teatro Belli e possiamo dire che ne abbiamo viste di cose! È buffo perché ci sono state edizioni in cui giovani e sconosciuti attori sono diventati conosciuti e molto apprezzati. Ogni anno è una pagina diversa, c’è sempre qualcuno che ritorna perché ci sono artisti affezionati e a noi piace sperimentare, siamo dentro questo mondo della drammaturgia inglese. In realtà abbiamo sempre mescolato testi assolutamente contemporanei, scritti e messi in scena quasi in contemporanea con gli inizi della rassegna, insieme con cose più vecchie, però diciamo che la drammaturgia inglese non ti annoia mai. Anche quando gli anglosassoni girano attorno ad un problema, viene fuori sempre una visione nuova che ti diverte. Io credo che anche in questa edizione i temi della nostra società contemporanea sono sempre gli stessi, non è che cambiano le questioni.
Gli autori inglesi, però, sono molto bravi perché riescono a raccontartele da diversi punti di vista, inventando storie diverse. Sono bravissimi inoltre ad attingere dalla cronaca. Anche in questa edizione ci sono tanti testi che prendono spunto da fatti accaduti che diventano storie, testi teatrali incredibili. L’anno scorso ho messo in scena un testo di un drammaturgo irlandese (The Match Box di Frank McGuinness ndr) tratto da un fatto di cronaca. L’autore è un appassionato ed è il traduttore ufficiale della tragedia greca in Irlanda, lui ha costruito una tragedia greca su un episodio di cronaca. Per questo motivo sostengo che gli scrittori britannici riescono e a stupirci sempre. Anche quest’ anno noi a Trend proponiamo temi che vanno dal vivere quotidiano, dai drammi personali alle tragedie delle periferie ed è entusiasmante.
Quali sono le frontiere o i confini rimasti ancora da superare?
Adesso direi che bisognerebbe fare in modo che il pubblico superi i confini ed entri nei teatri. Diciamo che la scommessa è quella, da noi, non certo in Inghilterra, dove non hanno questo tipo di problema. Noi cerchiamo di attirare un pubblico nuovo proponendo delle cose diverse rispetto ai cartelloni ufficiali. Io credo che qui si vedono sicuramente delle cose nuove e c’è una mescolanza di linguaggi vastissima, c’è di tutto. Quest’anno abbiamo addirittura Glauco Mauri, riusciamo anche a stare dentro una cosa che potrebbe essere classica ma non lo è e ci sono artisti come Giorgina Pi con tutta la sua storia dell’Angelo Mai.
Forse la nuova frontiera è anche la capacità di mettere assieme tanti mondi diversi del teatro che è quello che a me piace perché questo è un contesto brillante. Quello dell’anno scorso era una tragedia, due anni fa avevamo costruito un container qua dentro, uno spettacolo dove gli attori venivano dal nord Africa, dall’Africa centrale, dal mondo arabo. Un testo che raccontava di un viaggio per cercare di raggiungere l’Inghilterra, con il pubblico dentro al container. In questa edizione, diciamo che ci sono tutti i linguaggi possibili, mancava forse una commedia brillante che ha prontamente riempito la casella
Si dice che l’emozione degli attori svanisce nello spazio che separa i camerini dal palcoscenico. Quali sono state le sue emozioni che ha vissuto dalla sua postazione?
Dopo tanti anni non voglio dire che sono diventato abbastanza insensibile, ma è come se fosse subentrata una sorta di rassegnazione. In passato ero molto teso, agitato adesso è la consapevolezza che a me piace il mio lavoro, credo nelle operazioni che faccio per cui si possono avere dei dubbi, ci possono essere spettacoli più e meno riusciti, però penso di essere dentro uno standard di operazioni che realizzo per il piacere di farle.
Il vantaggio di lavorare in questo contesto che probabilmente crea uno stato di sicurezza e che io qui dentro non l’obbligo di fare, non sono scritturato per mettere in scena un testo con determinati attori. Io faccio quello che mi gratifica con gli attori che mi piacciono e con una libertà totale. Credo che sia il massimo che uno possa desiderare nel fare questo mestiere e questo ti libera da tante responsabilità e da ogni preoccupazione. Probabilmente se mi chiamassero per fare una regia di un altro tipo sarei più agitato perché rapportarsi con una cosa che non è stata scelta in autonomia è più complicato.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Geniale, irriverente, spesso definito enfant terrible del teatro italiano, il talento di Paolo Poli, scomparso nel marzo 2016, conquista il Teatro Valle con Paolo Poli è…, mostra multimediale a cura di Rodolfo Di Giammarco e Andrea Farri, che riempie ogni spazio del teatro (dal 20/9 al 4/11).
Un album visivo lungo 60 anni di carriera con più di 600 foto di scena, locandine, poster. Nei palchi, 40 monitor, uno per ogni spettacolo realizzato dal 1950 al 2014, dove ascoltare in cuffia la voce di Poli che tra interviste, canzoni ed estratti teatrali conduce per mano per tutto il percorso. In palcoscenico, le scenografie di Lele Luzzati, da La leggenda di San Gregorio e Caterina de Medici, e i bozzetti di Eugenio Guglielminetti e Aldo Buti. E poi i costumi di Santuzza Calì da I legami pericolosi e quelli di Anna Anni, Danda Ortona. Nel foyer, un video wall con i 568 appellativi con cui la stampa nell’arco di mezzo secolo ha descritto Poli, da acrobatico a zitellesco, a testimoniare il suo multiforme essere artista.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
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