Teatro e prospettive future: le riflessioni di Elisabetta Carosio e Roberto Scarpetti
Una convergenza concettuale intorno a un’idea di teatro e alle sue prospettive future, anche in tempi difficili come questi, è possibile. Elisabetta Carosio e Roberto Scarpetti sono un esempio di come si possa mettere insieme un bagaglio di esperienze, di buone pratiche e di riflessioni realizzando una poetica artistica che muove da un comune sentire.
Nata a Genova, ma residente a Milano, attrice e regista teatrale, nel 2014 Elisabetta Carosio ha fondato la Compagnia Lumen. Progetti, arti, teatro. Nel pieno dell’emergenza sanitaria, ha alternato l’attività di insegnamento con la sperimentazione di nuovi canali di comunicazione. L’ultimo progetto, in ordine cronologico, è Decameron – storie e antidoti per una buonanotte.
Roberto Scarpetti, invece, vive a Roma. Indipendentemente dal fatto che si tratti di teatro o di cinema, di sceneggiature o di drammaturgie, testi come Viva l’Italia – Le morti di Fausto e Iaio, Prima della bomba, 28 battiti, Lo zio di Genova, Giochi d’estate e Dove non ho mai abitato, possono essere considerate delle opere vive: momenti di riflessione collettiva, di condivisione sociale e artistica che, arrivando direttamente al pubblico, realizzano molteplici esperienze.
Scarpetti e Carosio ragionano sul necessario riconoscimento di arte e cultura e sulla loro importanza; sulla connessione tra l’impegno civile, l’esercizio di libero pensiero e la creatività. Poiché è nella condivisione e nella dimensione della comunità che si può trovare l’antidoto alla solitudine.
Com’è nata la vostra collaborazione artistica e professionale?
Roberto Scarpetti: Ho conosciuto Elisabetta Carosio quando era assistente regista di César Brie per uno spettacolo che avevo scritto, Prima della bomba. Avevo già lavorato con César e in quella circostanza mi chiese di partecipare alle prove. È nata da subito una sintonia che si è concretizzata in una proposta lavorativa: Elisabetta stava lavorando a un progetto in cui immaginava una commistione tra il linguaggio teatrale e quello della Graphic novel.
Abbiamo trovato un interesse comune per degli argomenti specifici: Prima della bomba tratta di integralismo islamico; i due spettacoli diretti da Elisabetta, pur non essendo incentrati sull’integralismo, parlano di Islam in Italia. Il primo è Falafel Express, la storia di un ragazzo, italiano di seconda generazione, figlio di padre egiziano e madre siriana. Il secondo lavoro è Samir, debuttato a Campo Teatrale l’anno scorso, che affronta l’immigrazione dal punto di vista di un tunisino che non vuole vivere in Italia.
Elisabetta Carosio: Con Roberto c’è una collaborazione che va avanti da un po’ di anni. Roberto è un entusiasta. Anche se ha lavorato in ambiti diversi dal mio, come il cinema, ama profondamente il teatro e il contatto con le persone. È capace di dare il massimo supporto per realizzare quella che intuisce essere una buona idea. Sa rovesciare certi punti di vista, cercare angolazioni che fuggono il luogo comune ed è molto leggero. Di lui ammiro l’essere in grado di veicolare le informazioni, i pensieri e le sensazioni dei personaggi in un modo che non annoia il pubblico.
Come avete attraversato il lockdown: cosa è cambiato, cosa è stato interrotto?
RS: Secondo me l’oggi non c’è, nel senso che è come se non esistesse il presente in questo momento. Nonostante ci sia voglia e necessità di cercare delle soluzioni per il futuro,si prospetta un cammino difficile. A parte le proposte di streaming e le forme alternative emerse nel pieno dell’emergenza, la difficoltà consiste nell’immaginare una modalità sicura per fare teatro mantenendo il contatto reale con il pubblico. Mi sembra che da fine febbraio sia cambiato tutto e molto velocemente. Io ero a Milano quando è stato trovato il Paziente uno.
Quella sera sono stato a teatro ed è stata l’ultima volta che ho visto uno spettacolo, era un venerdì. Dalla domenica successiva è stato chiuso tutto. La percezione che si stesse andando verso la chiusura totale, non solo del teatro ma anche della scuola, io l’ho avuta da subito. Adesso credo che occorra capire come si possano formulare nuove proposte, anche politiche, che riguardino il mondo dello spettacolo e dell’arte in generale.
EC: Era il 22 febbraio, lavoravo in provincia di Lodi, vicino ai comuni della zona rossa, e stavo conducendo un laboratorio con i ragazzi di un centro Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr). Quando a Milano sono state chiuse scuole e università si è capito che, al di là della zona rossa, la situazione stava realmente degenerando.
Quella domenica ho scritto un post su Facebook chiedendo ai miei amici di ritrovarci per raccontarci delle storie on-line. Quel post ha ricevuto una serie di commenti favorevoli e tanti like. Così è iniziata l’esperienza di Decameron – storie e antidoti per una buonanotte. Ho incanalato le mie energie nelle lezioni di teatro, proseguite online, e nel progetto di Decameron, cercando di creare comunità, in un momento in cui la solitudine si è affacciata in maniera invadente nella vita di tutti noi.
Come è nata l’esperienza con il centro Sprar di rifugiati?
EC: Il percorso ha avuto origine con Falafel Express, il progetto nato da una mia idea e scritto insieme a Roberto Scarpetti. Sono entrata in contatto con molte associazioni, come Refugee Welcome di Milano, e con alcuni assessorati, come quello alle Politiche Sociali di Pierfrancesco Majorino, che mi hanno aiutata a concretizzare la proposta di avviare un laboratorio con gli ospiti e con gli operatori dei centri di accoglienza. È stato un lavoro importante perché mi ha fatto capire che molte delle storie di cui frettolosamente leggiamo sui giornali, sono in realtà più complesse.
Entrare in contatto diretto con queste storie fa davvero la differenza. Abbiamo realizzato un lavoro sui pregiudizi e, durante il laboratorio, è successo qualcosa di molto forte: mi sono resa conto che quei ragazzi non sapevano definire o abitare la parola razzismo. È stato più facile lavorare sul concetto di cattiveria ma non concepivano una reale forma di discriminazione legata alla provenienza.
Tutto ciò che abbiamo vissuto, le paure, la quotidianità mutata, le nuove abitudini, lasceranno una cicatrice in noi oppure ci spingeranno a cercare ancor di più forme di contatto e di riappropriazione del corpo?
RS: La cosa più strana è che stiamo vivendo un anno che non esiste, un anno cancellato. Questa crisi avrà delle profonde ripercussioni sulla nostra vita, lascerà molti strascichi, anche dal punto di vista economico. A mio avviso, nel momento in cui sarà finita l’emergenza, la gente avrà voglia di tornare rapidamente, e forse in maniera errata, alle vecchie abitudini. Non solo per quanto riguarda la riappropriazione di un contatto fisico, ma anche rispetto ai ritmi frenetici con cui vivevamo fino a qualche mese fa.
EC: Nei mesi di lockdown, la sensazione di rischio avvertita nella prossimità fisica con le altre persone, è ciò che mi ha colpito maggiormente. Questa esperienza rimarrà a lungo dentro di noi, come una cicatrice. Sarà un segno che ci ricorderà costantemente l’epidemia, il confinamento. In due mesi è cambiato il comportamento di un popolo. Ci si è riorganizzati nel rispettare le regole e nel fare la fila, per esempio. La facilità e la rapidità di questa trasformazione è sconvolgente per cui viene da domandarsi se in condizioni di normalità saremmo stati capaci di fare la stessa cosa.
Quale idea di teatro, di contenuti e di scrittura è più facile o difficile da immaginare ?
RS: Ho scritto uno spettacolo che avrebbe dovuto debuttare a giugno al Napoli Teatro Festival. Ad oggi non si sa nemmeno se verrà posticipata o recuperata la rassegna stessa. Avevo cominciato a scrivere questo testo prima dell’emergenza e ho continuato nel mese di marzo perché mi sembrava opportuno farlo, anche se già immaginavo l’epilogo.
Sto anche lavorando come drammaturgo per la compagnia Lacasadargilla per un lavoro che dovrebbe debuttare a fine agosto a If/Invasioni dal futuro, un festival di teatro di fantascienza. Penso che ogni scrittura che riguarda il presente debba essere ripensata al momento della realizzazione. Qualsiasi tipo di lavoro nato in questi giorni dovrà dunque fare i conti con quella che sarà la realtà nel momento in cui l’emergenza sarà finita.
EC: Forse, si è trovato il modo di fare comunità all’interno di un settore che da sempre mostra la difficoltà concreta di portare avanti un percorso comune. Occorre rendersi conto che esiste una questione aperta sul modo in cui viene intesa la cultura in Italia. Tutti dovrebbero avere parte attiva nella costruzione di un futuro che assicuri ritmi di produzione più umani, una competizione gestibile e maggiori tutele.
Rivendicare tutele e dare struttura alla comunità del Teatro erano problemi preesistenti. Cosa ne pensate?
EC: Dal punto di vista della riorganizzazione del settore non so immaginare una risposta efficace a livello politico. Penso si debba attraversare una fase di sperimentazione che possa comprendere anche quelle realtà che non possono accedere ad alcuna forma di sostegno. C’è un settore del teatro che procede con una tassazione molto alta, che comporta grandi difficoltà.
Tutte le maestranze hanno spesso settorializzato le loro esigenze, ma ora più che mai emerge l’esigenza epocale di porre al centro del dibattito il concetto di cultura nel nostro Paese. Bisogna affrontare realisticamente e risolvere la questione dell’autoreferenzialità presente nel nostro settore. Credo che sia molto complesso riconnettersi con le persone; ricostruire la necessità di un ruolo sociale. Ieri come oggi, il teatro è un mezzo per parlare alle persone, per creare comunità.
RS: La percezione di uno stato delle cose, che di fatto non funzionava neanche prima, è stata evidenziata dalla crisi. Molti si stanno occupando di questo, cercando di portare all’attenzione delle Istituzioni e dell’opinione pubblica problemi reali che devono essere risolti. Ma perché parlarne e lottare solo adesso e non prima? Forse, le difficoltà della categoria prima non erano ritenute problemi reali? Considerarci una categoria è davvero complesso perché gli artisti sono portati a ragionare individualmente.
Si cerca di barcamenarsi in questo sistema, a seconda delle proprie necessità. Da un punto di vista generale, credo che bisognerebbe cercare di fare una battaglia più ampia che non sia soltanto quella dei “lavoratori dello spettacolo”, un’espressione che a me sembra abbastanza allucinante. È come se ci fosse una paura tipicamente italiana di utilizzare le parole che dovrebbero essere utilizzate. Perché “lavoratore dello spettacolo” e non “artista”, un termine che comprende, in quanto contribuiscono alla creazione artistica, anche costumisti o truccatori o light designer?
Il problema è che nel momento in cui si fanno delle rivendicazioni sindacali si preme sul riconoscimento del concetto di lavoro. Utilizzando il termine “lavoratore” si tende ad associare l’artista a un prodotto finale, cioè uno spettacolo, un quadro, o un libro. Concentrandosi sul risultato finale, si svilisce il valore dei momenti preliminari dell’opera, ovvero lo studio, la preparazione, le prove, insomma ciò che è proprio della creazione artistica.
Per questo credo sia importante porre l’attenzione sul ruolo degli artisti, utilizzando questo termine al posto di “lavoratori dello spettacolo”. Tutto ciò purtroppo ha a che fare anche con un’altra disfunzione del sistema culturale italiano che riguarda la politica, le istituzioni e l’opinione pubblica. In Italia viene tutelata l’opera e non l’artista. Tutto ciò che è arte e cultura, in realtà, è morto se si considera solo l’oggetto in sé: un libro da leggere, un quadro esposto al museo, uno spettacolo. È vivo se invece si considerano le persone che li hanno realizzati e il processo messo in atto per realizzarli.
Perché sembra che si ragioni poco su come realizzare una fase intermedia di ripartenza dei teatri?
RS: Credo se ne parli poco perché la maggior parte dei soggetti coinvolti in questo discorso sono teatri stabili che dovendo fare affidamento sulla riapertura delle proprie sale, non possono ipotizzare forme alternative. Immaginare di utilizzare una sala con il distanziamento sociale ha dei costi proibitivi. In definitiva, quasi contraddicendomi, si potrebbe anche pensare di ripartire dalle stesse manifestazioni spontanee sorte in questi mesi: penso alle musiche suonate dai balconi e dai terrazzi, con la gente che si affaccia.
Ecco, alla stessa maniera si potrebbe pensare di trasformare le strade in palcoscenici per piccole performance, magari di 20 minuti, con la gente affacciata alle finestre. Utilizzando uno, due o tre attori, si eviterebbe ogni problema legato al distanziamento sociale. Il problema è come finanziare un progetto del genere. Credo che delle forme spettacolari piccole, alternative, finanziate e autorizzate si possano trovare. Ma ci vuole anche la volontà delle Istituzioni.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.