Intrecciare, allacciare, giocare: L’Armata Brancaleone di Roberto Latini

Intrecciare, allacciare, giocare: L’Armata Brancaleone di Roberto Latini

Così i gesti vivi delle immagini esangui, e i movimenti delle figure immobili, quasi erompessero via dai riquadri, e le spiranti fattezze dei volti ti tengono sospeso, come se poco meno ti aspettassi che da lì erompesse anche la voce. E v’è pericolo in ciò, perché da tale meraviglia son fatti prigionieri soprattutto i grandi ingegni.
Francesco Petrarca, Dei rimedi dell’una e dell’altra sorte

Quando Francesco Petrarca scrive Dei rimedi dell’una e dell’altra sorte, il suo pensiero è già giunto alla maturità, ed è interessante notare come a quest’altezza segnali come massimo pericolo per i grandi ingegni la sospensione fra la stasi del reale e la dinamicità dell’immaginazione.
Nella sua Armata Brancaleone, Roberto Latini sembra voler estremizzare la precarietà di questa sospensione, lanciando lo spettatore nel microcosmo straniante e parodistico creato da Age e Scarpelli, ma cambiandone i connotati.

Se il film del 1966, parodiando i grandi kolossal storici, aveva creato un’ambientazione medievale difficile da datare, al cui interno si muovono i cavalieri picareschi di Brancaleone e la sua armata alla volta dell’agognata Aurocastro, la matrice di questo spettacolo è ben diversa.
La messa in scena elimina qualsiasi appiglio che aiuti a dare una collocazione a ciò che accade in scena, la decostruzione agisce stratificandosi esponenzialmente: visivamente, linguisticamente e narrativamente.

Lo spettatore de L’Armata Brancaleone è guidato in una partita complessa, non c’è tempo per prenderne coscienza. Nella sala verde selva dell’Arena del Sole, si è immediatamente accolti da richiami naturali, le cui note discordanti, prima piano, poi sempre più forti, sono interrotte da un suono grave e intenso, anch’esso distorto. Questo primo momento acustico, dell’architettura sapiente e calcolata creata ancora una volta da Gianluca Misiti, introduce l’ingresso dei personaggi, calati dall’alto, seduti su una trave, come tante miniature pronte ad essere utilizzate, con tutta l’intransigenza del gioco dei bambini, in cui anche le regole vanno infrante con criterio.

Gli attori in scena aderiscono perfettamente al meccanismo ludico, ma rigoroso, innescato da Latini, trasformando personaggi radicati nell’immaginario degli spettatori, in qualcosa difforme, senza mai cadere nel comico immediato, ma senza privare i personaggi della loro ironia intrinseca.
Nessuno dei protagonisti della vicenda è privato del suo intrinseco chiaroscuro: dalla vanagloria di Brancaleone Da Norcia (Elena Bucci), alle trasformazioni vocali di Claudia Marsicano, Ciro Masella e Marco Vergani, passando per l’umanissimo ronzino di Francesco Pennacchia (che interpreta anche una ferina Matelda), per finire con un solenne Marco Sgrosso, che dona una forza nuova persino all’intramontabile “Vade retro Satan”.

Tutto ciò che accade in scena è sorvegliato, ma soprattutto salvaguardato da Latini stesso, che appare fugacemente, come un’ombra che attraversa i vari episodi, vestito di nero, parrucca bionda e pochi elementi di un’armatura in pezzi; questo personaggio invisibile, quasi un cavaliere inesistente al contrario, passa inosservato fino a quando non decide, dopo una faticosa passeggiata su una trave sospesa, di uccidere il chiaro di luna, come Marinetti, “Bravo” gli urla Brancaleone.

I vestiti sono dominati da colori saturati, con elementi che ricordano le anacronistiche tute dei film di fantascienza italiani degli anni 60, mentre l’impianto scenografico, sostenuto dalle luci allucinogene di Max Mugnai, è dominato da figure geometriche, forme essenziali e psichedeliche che ricordano i film espressionisti tedeschi degli anni venti.

L’azione non si dispiega, viene ripiegata, frammentata e sfumata in quadri, senza la pretesa di creare affreschi, immagini, ma piuttosto a pause di respiro, sospensioni episodiche tipiche della narrazione orale di materia cavalleresca. Il dispiegarsi della narrazione dei romans medievali è caratterizzato dalla tecnica dell’entrelacement, che si può tradurre letteralmente come interallacciamento, parola che unisce al suo interno il concetto di intreccio e allaccio. Una maniera per sospendere e legare i molteplici fili narrativi messi in campo, uno strumento privilegiato per rappresentare la polifonia dell’universo cavalleresco,

Proseguendo un sentiero chiaro ma vario di riflessione sui testi e la decostruzione canonica della testualità, Latini attiva una riflessione sui meccanismi dell’impianto teatrale mettendo in scena una storia impressa nell’immaginario comune rendendola un’occasione per raffigurare la reiterazione ludica, tassello identitario del mestiere dell’attore.  

Roberto Latini e l’incanto di Fortebraccio Teatro

Roberto Latini e l’incanto di Fortebraccio Teatro

L’opera in fieri di Roberto Latini è la testimonianza pulsante di come la grandezza dell’attore non si risolva solo nella techne drammatica ma risieda piuttosto in quell’invisibile quanto vitale abilità di cospirare in simbiosi con la scena passata e con quella coeva. In questa dialettica incessante si pone il lavoro di ricerca a cavallo fra i secoli teatrali, una continua tensione artistica che rende Roberto Latini mezzo di trasmissione ed espressione stessa di una immaginazione poetica che si rigenera nel paradosso dell’eterno ritorno del classico. Nel foyer del Teatro Vascello in Roma l’abbiamo incontrato  per rivolgergli alcune domande intorno alla poetica artistica che da anni lo sospinge sui palcoscenici di tutta Italia insieme a Max Mugnai e Gianluca Misiti, componenti della compagnia Fortebraccio Teatro. Roberto Latini canticodeicantici Quali sono le condizioni e le suggestioni artistiche con cui concepisci il tuo lavoro di attore e di regista? Quali i sentimenti che ti spingono alla creazione teatrale ? La mia condizione di attore parte dalla mia condizione di spettatore. La mia disposizione è rispetto al fatto che il teatro ha una capacità unica per cui quando siamo in una platea di cento o mille persone, siamo noi a essere convocati, ammessi e reclamati. Io so da spettatore che il teatro mi dà l’occasione di essere a tu per tu e lo so anche da attore.    Si tratta di creare una relazione singola con ogni persona che arriva a quell’appuntamento che è lo spettacolo, noi compresi. Lo spettacolo è una proposta, non è la proposta della mia verità, non siamo spacciatori di teatro e non abbiamo l’acqua da dare agli assetati. Siamo piuttosto nella possibilità di avere a che fare con questa meraviglia che è il teatro, il quale non è effettivamente l’oggetto in questione, né tantomeno l’obiettivo. Rispetto alla creazione teatrale a me non sembra mai di cominciare, credo che siamo in un continuum e dico siamo perché il mio essere artistico non ha bisogno di chiudersi. Normalmente il regista non è in scena, vede il lavoro quando è in produzione. Io invece non lo vedo mai, lo sento da dentro controllando costantemente la temperatura dello spettacolo. La temperatura è un concetto importante. La temperatura dello stare insieme, quella del mio corpo durante lo spettacolo e quella dello spettatore perché tutto di me arriva fino alla platea.  In questo momento, dopo tanti anni di domande rispetto alla drammaturgia e a quale senso tra i vari sensi usare, credo che forse il più importante sia il sesto senso. Il Senso, cioè il capire cosa privilegiare. Ora siamo semplicemente nella conquista di un’aspirazione che è quella della bellezza, in un senso il più possibile esteso. Una cosa non deve essere bella, deve essere nell’aspirazione della bellezza, come la poesia, la poesia è il suo stesso tentativo.

foto di Simone Cecchetti

Nei tuoi spettacoli si avverte una voluta incompiutezza rispetto alla quale lo spettatore può intervenire nel montaggio dei segni. Quanta apertura e libertà, dalle prove fino alla scena, concedi a te e agli attori con cui lavori? Le persone con cui lavoro sono nella libertà del proprio sentire, sanno però che quello che stiamo facendo ha il limite di credibilità dettato dall’essere dentro un patto. Il teatro non è una convezione, è un patto appunto che stabiliamo noi e voi. Se io dico che sono il principe di Danimarca voi non potete dire di no. Non è convenzione il patto, ha a che fare col gioco, quello serio. Tanta gente non va a teatro perché non ha voglia di giocare, tanti non sono capaci perché hanno smesso di giocare e non se lo concedono più. Anche tante delle persone che fanno teatro non se lo permettono, invece con le persone che scelgo e che, a loro volta, scelgono me siamo come bambini nel cortile ci scegliamo e giochiamo seriamente a metamorfizzarci. Per un po’ mi sono chiesto se gli attori vanno in scena o se essi stessi ci si mandano: sono io che mi metto in scena e sono io che vado a cercare me stesso in scena?  La questione invece è più piccola e forse per questo è più bella. Per me non c’è nessuna verità: nessuno ha la definizione del teatro vera e unica, teatro vuol dire una cosa diversa per ognuno di noi, questo è l’evviva che ci porta a essere insieme. Cosa resta dello spettacolo se non ciò che ognuno di noi si porta via? Ogni spettacolo che succede ogni sera non c’è più se non presso chi ne ha preso parte. Ne I Giganti della montagna quali sono state le motivazioni che ti hanno indotto a immaginarti solo in scena? Forse è possibile interpretare quella solitudine scenica come il riverbero opaco di una intima condizione esistenziale? Quando sono in scena in realtà non sono mai solo, c’è sempre qualcuno che fa lo spettacolo con me, anche fisicamente. Accende le luci, mette le musiche, mi parla fino a un momento prima dello spettacolo.  Mi riferisco a Gianluca Misiti che non è solo l’autore delle musiche ma è molto di più: è lo sguardo da fuori. Quando sono in prova mi rivolgo costantemente a lui e questo dialogo apre un doppio piano, quello del vedere e del sentire. Ho costantemente bisogno di condividere e in questo Gianluca è il mio primo complice. È prezioso che Gianluca e Max Mugnai non siano attori. Max particolarmente è un tecnico puro e se potesse non metterebbe neppure piede sul palco eppure ha visto così tanto teatro da capire se una cosa ha le capacità o meno. Accade spesso che sono da solo ma accade per una condizione produttiva. Nel caso de I Giganti della montagna il motivo per cui sono solo in scena non è perché ho pensato di fare io tutti i personaggi, ma perché ho pensato di non farne alcuno e l’unico personaggio che ho immaginato effettivamente di essere sono solo le parole di Pirandello. Aggiungere in precedenza Federica Fracassi è stato un tentativo di mettere in scena questo lavoro, ma lei è talmente perfetta nel fare Ilse che mi ha costretto ad essere ogni volta un personaggio diverso per permettermi di avere una relazione con la sua Ilse, non era quello che cercavo. Cercavo di non avere nessun personaggio. Ora che lo spettacolo è conclamato nella solitudine di questo unico, di questo nessuno in realtà, credo che fosse giusto così. Nel 2015 hai ricevuto il premio dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, come vivi il rapporto con la critica? Ci sono spettatori professionisti che talvolta perdono la capacità di avere a che fare col teatro. Ho il massimo rispetto per ogni persona che fa il proprio lavoro e alcuni critici lo fanno egregiamente; ciò non toglie che la mia personale opinione è che non ci siano destinazioni e che, spesso, le recensioni vengano lette solo dalle persone di teatro e non hanno più valore di ciò che ha visto una signora andata a teatro quella sola sera. I premi fanno piacere, certo, restituiscono qualcosa però non rappresentano la questione nevralgica. La questione è se c’è un’aderenza al proprio sé. Riuscire a mettere in comunicazione questo sé con tanti altri forse è bello o forse no, non lo so e se lo sapessi forse avrei già smesso. Aldilà delle belle critiche e dei bei premi, l’essenziale è mantenersi nell’incanto del teatro. L’obiettivo è produrre un’occasione teatrale. Il teatro accade e non accade solo per merito di chi sta sul palco, avviene attraverso la partecipazione e la capacità degli spettatori rispetto allo spettacolo che viene proposto. In merito a questo, ci sono molti spettacoli che menzionerei nel curriculum talmente sono stato partecipe, mi sento di averli davvero fatti, dove fare è nell’accezione completamente esplosa dove c’è il dire, il sentire e c’è l’esserci. Quali sono i consigli che daresti a dei giovani teatranti rispetto alle diverse opportunità formative da poter intraprendere? La cosa difficile per i giovani è fidarsi di sé stessi: questa è l’unica cosa che ha davvero valore. Se si frequenta la stessa scuola, nello stesso triennio, ognuno esce in modo diverso da quello stesso percorso. Ognuno ha la propria strada. Le scuole servono ad attivare delle questioni e a insegnare, ovviamente – mi riferisco a qualcosa più in là della dizione, respirazione, etc. Questi sono tutti strumenti che un attore dovrebbe saper gestire. Tutto passa attraverso la singola capacità di ciascuno di noi, non c’è regola, o forse ce n’è una per ogni attore. Ai giovani attori direi di fidarsi di sé stessi e di non credere agli spacciatori di teatro.
Anche a ottobre può essere primavera. Conclusa la XXI edizione di Primavera dei Teatri

Anche a ottobre può essere primavera. Conclusa la XXI edizione di Primavera dei Teatri

Articolo a cura di Caterina Giangrasso

Primavera dei Teatri

Anche a ottobre può essere primavera.

In quest’anno poi, così particolare per tanti aspetti, il senso della “stagione teatrale” è stato completamente capovolto, calpestato e superato. Per cui nulla in contrario se anche la “stagione climatica” le fa eco, dando vita così – e nonostante tutto – a uno degli appuntamenti più attesi per il mondo teatrale contemporaneo: Primavera dei Teatri si è svolto dall’8 al 14 ottobre a Castrovillari (CS)

La XXI edizione dello storico festival ha ospitato venti compagnie, tra debutti e spettacoli ospiti, con uno sguardo sempre puntato sul presente. Un programma intenso che riflette su relazioni, tecnologia, politica e sulle conseguenze generate dal Covid-19, evento che ha inevitabilmente segnato l’inizio di una nuova epoca socioculturale. 

Primavera dei Teatri è, da ormai oltre vent’anni, un punto di riferimento al Sud per i nuovi linguaggi della scena contemporanea e la nuova drammaturgia.  

Il festival diretto da Scena Verticale si avvale della direzione artistica di Dario De Luca e Saverio La Ruina e della direzione organizzativa di Settimio Pisano, i quali hanno nonostante tutto deciso di confermare la città ai piedi del Pollino un punto di riferimento dei nuovi linguaggi scenici e un luogo privilegiato di confronto tra artisti e operatori, anche di generazioni diverse. 

«Non abbiamo pensato mai, nemmeno per un attimo di poter saltare l’edizione numero 21» hanno commentato in apertura di festival gli ideatori Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano.

7 giornate di Primavera dei teatri 

7 giornate per 7 prime nazionali, un’anteprima, ma anche performance, mise en éspace, progetti internazionali all’interno di più spazi e luoghi all’aperto e al chiuso: il Castello Aragonese; il Teatro Sybaris; l’Accademia dei Saperi e dei Sapori (Ex Mattatoio); il Chiostro S. Bernardino a Morano; il Chiostro del Protoconvento; il Circolo Cittadino.

Sono state ospitate 20 compagnie teatrali, tra le più innovative e premiate d’Europa e tra le più riconosciute tra gli emergenti dell’ultima generazione: Angelo Campolo / DAF Teatro; LAB121 / Fabrizio Sinisi / Claudio Autelli; Teatro delle Ariette; Angelo Colosimo; Anagoor; Lopardo-Russo / Nostos Teatro/ Collettivo ITACA; Gianluca Vetromilo / Mammut Teatro; Compagnia Oyes; Piccola Compagnia Dammacco; Maurizio Rippa; Marcello Cotugno / Teatri Associati Di Napoli/ Interno 5; Liberaimago; Eco Di Fondo; Paolo Mazzarelli; I Sacchi Di Sabbia/ Roberto Latini; Babilonia Teatri; Scena Verticale / Saverio La Ruina; Agrupación Senõr Serrano; Teatro Delle Albe.

Ad arricchire il cartellone artistico incontri, laboratori, concerti e Primavera Kids, programmazione dedicata ai piccoli spettatori. 

Un programma intenso quello di Primavera dei Teatri 2020 che, tenendo fede al fulcro della drammaturgia contemporanea, ha seguito il tema dell’indagine sui rapporti e sulla crisi delle relazioni, in senso largo.

L’8 ottobre, in apertura, c’è stata l’anteprima nazionale del nuovo lavoro di Fabrizio Sinisi, diretto da Claudio Autelli, La fine del mondo, opera inedita che riflette sull’emergenza ambientale, in cui la catastrofe climatica si intreccia a quella della vita privata dei protagonisti. Tra le prime nazionali, la Compagnia Oyes ha presentato Vivere è un’altra cosa, drammaturgia collettiva liberamente ispirata a Oblomov di Ivan Gončarov, con l’ideazione e la regia di Stefano Cordella. Un racconto a cinque voci sul tempo sospeso vissuto durante l’emergenza sanitaria in corso. Due compagnie napoletane hanno presentato due prime nazionali.

Marcello Cotugno ha curato la regia di un testo tedesco, di Roland Schimmelpfennig – Peggy Pickit Guarda Il Volto Di Dio  scrittura sincopata con una serie di stop&go narrativi, nel tempo di un aperitivo, tra i quattro di una doppia coppia. Un progetto a cura di Marcello Cotugno, Valentina Acca, Valentina Curatoli prodotto da Teatri Associati Napoli. Fabio Pisano, già premio Hystrio per la drammaturgia, con Liberaimago ha presentato A.D.E.,A.lcesti D.i E.uripide, una riscrittura di Pisano che ne ha curato anche la regia. In scena Francesca Borriero, Roberto Ingenito, Raffaele Ausiello e le suggestioni sonore, eseguite dal vivo, di Francesco Santagata. 

In prima nazionale anche la compagnia Eco di Fondo con La notte di Antigone; scritto a quattro mani da Giacomo Ferraù e Giulia Viana. Lo spettacolo diretto da Ferraù si ispira alla figura contemporanea di Ilaria Cucchi. 

Paolo Mazzarelli ha presentato una rieaborazione di Shakespeare sotto forma di monologo in musica con Soffiavento. Una navigazione solitaria con rotta su Macbeth

Ha debuttato, inoltre, Into Latino Roberti, un ensemble inedito che vede insieme I Sacchi di Sabbia e Roberto Latini. Una miniserie ispirata al film di fantascienza di Isaac Asimov che coniuga scrittura e performance – quella in presenza di Latini e de I Sacchi in remoto – in cui si torna a riflettere, con misurata ironia, su questo particolare momento storico. Una produzione della Compagnia Lombardi-Tiezzi realizzata con il sostegno di Primavera dei Teatri. 

La compagine che ha ideato il festival e da sempre lo cura – Scena Verticale – ha presentato l’ultima creazione di Saverio La RuinaMario e Saleh, la storia di un occidentale cristiano e un musulmano che si ritrovano a convivere. Una convivenza che si muove tra differenze e agnizioni, opposizioni e conciliazioni. 

Tra gli spettacoli ospiti, quello premiato a In-Box 2020, Stay Hungry. Indagine di un affamato di e con Angelo Campolo e Trent’anni di grano. Autobiografia di un campo  del Teatro delle Ariette. Il lavoro di Paola Berselli e Stefano Pasquini, in scena insieme a Maurizio Ferraresi, è nato per Matera 2019 ed è ispirato ai pani del Mediterraneo. 

Nostos Teatro ha presentato Trapanaterra, spettacolo ideato da Dino Lopardo, in scena insieme a Mario Russo. Anagoor, invece, ha portano a Castrovillari l’ultima creazione, Mephistopheles. Un viaggio per immagini – scritto, diretto e montato da Simone Derai – in cui video inediti, raccolti in otto anni di ricerche, trovano nuova composizione nella forma di concerto cum figuris, con il live set elettronico di Mauro Martinuz. 

Lilith, la performance ideata da Gianfranco De Franco, Cecilia Lentini e Massimo Bevilacqua, ha dato vita a una visione sulla figura della donna simbolo della patologia sociale della repressione. 

Piccola Compagnia Dammacco ha presenta Spezzato è il cuore della bellezza, spettacolo scritto, ideato e diretto da Mariano Dammacco, con Serena Balivo, Mariano Dammacco ed Erica Galante.

In scena anche lo spettacolo vincitore della VI edizione de I Teatri del Sacro 2019, Piccoli Funerali di e con Maurizio Rippa accompagnato alla chitarra da Amedeo Monda e Babilonia Teatri con Natura Morta di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani. In chiusura il debutto del nuovo lavoro del Teatro delle Albe, un poemetto scenico scritto da Marco Martinelli  Madre – che tiene a battesimo un processo di creazione, nato dall’incontro di Ermanna Montanari, Stefano Ricci, Daniele Roccato (tutti e tre in scena) tra testo e illustrazioni live a cura di Stefano Ricci e la musica dal vivo del contrabbasso di Daniele Roccato.

L’ultimo giorno di festival ha visto anche la presenza del gruppo catalano Agrupación Senõr Serrano con il loro The Mountain. L’originale creazione di Àlex Serrano, Pau Palacios e Ferran Dordal parte dalla montagna come metafora che ripercorre la storia delle idee per interrogarsi sul mondo e sul concetto di verità.

Come è nella tradizione di Primavera dei Teatri c’è stato spazio dedicato per le nuove drammaturgie europee e la produzione artistica calabrese con Europe Connection il progetto realizzato da Primavera dei Teatri in collaborazione con Fabulamundi. Playwriting Europe, quest’anno in versione ridotta: Angelo Colosimo, diretto da Roberto Turchetta e in scena con Rossella Pugliese e Peppe Fonzo ha presentato una mise en éspace di Se io vivessi tu moriresti. L’opera dell’autore portoghese Miguel Castro Caldas si pone come indagine su uno dei limiti del teatro: il testo. 

Gianluca Vetromilo ha portato in scena, invece, in prima assoluta uno studio di Corpo/Arena, dal testo dell’autrice portoghese Joana Bértholo. Mauro Failla, Riccardo Lanzarone e Francesco Rizzo interpretano tre uomini, in una dimensione sospesa, alle prese con una delle grandi sfide del corpo contemporaneo: la fame.  

Gli eventi collaterali di Primavera dei teatri 2020

Tra le grandi novità dell’edizione numero 21 del Festival, l’installazione ALLA LUCE DEI FATTI. FATTI DI LUCE. Opera di teatro/architettura in cinque atti simultanei di Giancarlo Cauteruccio. Un’opera realizzata per Primavera dei Teatri 2020 dall’artista, fondatore di Teatro Studio Krypton, che ha segnato la storia della seconda avanguardia teatrale italiana. Cauteruccio ha ideato per la città un viaggio di percezioni rappresentato da alcune realtà architettoniche cittadine, che raccontano le particolarità più rappresentative del sistema urbano, non solo dal punto di vista estetico e storico ma anche sul piano delle funzioni che svolgono.

Numerosi gli incontri e gli spazi di riflessione, tra cui Lo stato dell’arte a cura di C.Re.SCO e La scena dell’incontro. Dialoghi di civiltà nella drammaturgia italiana contemporanea a cura di Dario Tomasello con interventi di Luca Doninelli, Marco Martinelli e Saverio La Ruina. Uno spazio a parte ha avuto il progetto BeyondtheSud, alla sua 2° edizione e che quest’anno, in via del tutto eccezionale per le sua modalità di svolgimento, ha visto la restituzione dei lavori creati durante la pandemia da giovani registi e drammaturghi.

BeyondtheSud (aka BETSUD), vincitore del bando MiBAC “Boarding pass plus”, è realizzato in rete da Teatro della Città – Catania (capofila del progetto); Teatro Libero Palermo – Palermo; Scena Verticale – Castrovillari; Nuovo Teatro Sanità – Napoli;  Sardegna Teatro – Cagliari, con l’obiettivo diffondere buone pratiche e di favorire il percorso di internazionalizzazione di giovani artisti e operatori under 35.

Spazio dedicato ai piccoli spettatori con Primavera Kids, un cartellone realizzato in collaborazione con Menodiunterzo e Apustrum che ha visto in scena il Pinocchio di Teatro della Maruca, un laboratorio dedicato al riciclo, due mostre e la presentazione del libro L’alfabeto di Gianni di Pino Boero e Walter Fochesato.

La XXI edizione del Festival si è conclusa con il live delle Glorius4. Il quartetto siciliano tutto al femminile presenta brani tratti dal loro disco PLAY e dal Tour virtuale intorno al mondo nato durante il lockdown.

Nonostante la difficoltà è stato possibile percepire la gioia degli ideatori e direttori Dario De Luca e Settimio Pisano che, insieme a Saverio La Ruina, guidano il festival e ne stabiliscono le molteplici direzioni da seguire.

In particolare, per Settimio Pisano «è stato fondamentale poter dare continuità al progetto dopo 20 anni e 20 edizioni di festival nella sua naturale configurazione primaverile. A maggio era impossibile capire quali direzioni seguire. Abbiamo ragionato sulle modalità, sulla quantità e anche sull’ipotesi di rimodulare e stravolgere la nostra solita modalità operativa. Il festival per noi continua ad essere un miracolo e quest’anno forse lo è stato ancora di più. Un modo per dare un segnale e per confermare di essere parte integrante di un mondo che ha sofferto, soffre e continuerà a soffrire ma che nonostante questo non molla.

Abbiamo deciso di prenderci la responsabilità nei confronti di tutti quegli artisti, tecnici e maestranze che quest’anno hanno visto un’intera stagione di spettacoli annullati, tour e produzioni saltate. Abbiamo fatto in modo di lavorare e far lavorare comunque e nonostante tutto, rispettando tutti i protocolli. Ora più che mai è fondamentale darsi un orizzonte di lavoro e provare ad arginare le difficoltà, per dare una degna prosecuzione a quei tanti lavoratori che devono poter continuare a fare il proprio mestiere». 

Dello stesso parere anche Dario De Luca: «è stato importante fare il festival anche quest’anno, soprattutto nei termini del coraggio che ha richiesto. Primavera dei Teatri, del resto, ha il coraggio nel proprio DNA, poiché è nato e cresciuto con l’intento di dare un senso al mondo del teatro inteso come un mondo fatto da persone e per persone che lavorano e credono in qualcosa.

A edizione conclusa posso dire che è stata un’edizione piena e densa nonostante il momento storico. La risposta del pubblico è stata buona, c’è stata attenzione e rispetto e una grande prova di civiltà».

La XXI edizione di Primavera dei Teatri è stata realizzata grazie al sostegno del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo e a valere sull’avviso pubblico della Regione Calabria per l’attribuzione del marchio regionale dei grandi eventi calabresi annualità 2020. 

Mangiafoco di Roberto Latini: intervista ad Elena Bucci, Marco Manchisi, Marco Sgrosso

Dopo Il teatro comico di Goldoni, Roberto Latini affronta il Pinocchio di Carlo Collodi per riflettere sulla figura dell’attore e sul senso del teatro. In scena con lui Elena Bucci, Marco Manchisi, Savino Paparella, Stella Piccioni, Marco Sgrosso e Marco Vergani. Mangiafoco, dopo il debutto in prima assoluta per Matera 2019, sarà in scena al Piccolo Teatro Studio Melato fino al 22 dicembre. Parafrasando l’iniziatico ingresso di Pinocchio nel Gran Teatrino delle Meraviglie di Mangiafoco, gli attori e le attrici protagonisti di questo lavoro, si confrontano con le proprie biografie teatrali, tra memorie e future ambizioni.

Mangiafoco - Roberto Latini. Foto © Masiar Pasquali
Mangiafoco – Roberto Latini. Foto © Masiar Pasquali

Avete alle spalle un percorso condiviso, dall’esperienza con Leo de Berardinis al Teatro Comico, e in questo spettacolo raccontate molto di voi, del vostro percorso attoriale e della nascita della vostra vocazione: come si è formato, inizialmente, questo gruppo e in che modo avete innescato e sviluppato il processo drammaturgico?

Marco Sgrosso: Elena ed io abbiamo un legame solido da lungo tempo, precedente di molti anni alla formazione del gruppo di questo spettacolo. Abbiamo fondato insieme la compagnia Le belle bandiere, che ha più di trent’anni di vita e, ancora prima, dopo esserci incontrati alla Scuola di Teatro di Bologna, avevamo condiviso un lungo periodo nella compagnia di Leo De Berardinis. Marco Manchisi ha condiviso con noi alcuni anni nella compagnia di Leo, con lui esiste da tempo un rapporto di “fratellanza teatrale”.

L’incontro con Roberto e con gli altri attori è avvenuto invece due anni fa con Il Teatro Comico, quindi è molto più recente, ma da subito si è stabilita una grande coesione artistica e umana che certamente ha aiutato Roberto a dare a Mangiafoco una struttura drammaturgica così particolare, costruita attraverso momenti di improvvisazioni singole o collettive, spunti di testi classici suggeriti da lui oppure proposti da noi e sulle nostre stesse biografie teatrali, in una dimensione di immaginarie audizioni, collegate al percorso iniziatico di Pinocchio nel momento in cui entra nel Gran Teatrino delle Meraviglie di Mangiafoco.

Marco Manchisi: Quando Roberto ha cominciato a pensare al Teatro comico, mi ha contattato dicendomi che aveva intenzione di approfondire il lavoro con la maschera e che avrebbe voluto vederci riuniti, con Marco Sgrosso ed Elena Bucci, come corpo e memoria di un lavoro condiviso con il nostro comune maestro Leo De Berardinis.

Elena Bucci: È tornata la memoria dei giorni delle scelte, sono tornati i nomi di Perla Peragallo, di Leo de Berardinis, di Antonio Neiwiller, i nostri maestri vicini tra loro e tutti testimoni di un’epoca straordinaria, sono tornati i ricordi che uniscono Roberto a noi, ma sono diventati nostri anche i ricordi degli altri, quelli che non abbiamo vissuto. Vicinanze, differenze, maestri, memoria di viaggi, spettacoli, vita, percorsi autoriali e scrittura sono diventati un patrimonio condiviso che scorre da uno all’altro, rendendoci tutti attori autori dentro l’universo immaginato da Roberto.

In questo clima di armonia e concentrazione abbiamo inseguito la nudità, l’essenza, assecondando la richiesta di Roberto di partecipare alla creazione. Questo fiume in piena si è distillato in materiale drammaturgico nel quale, nonostante l’apparente naturalezza e un certo margine di improvvisazione, ogni nota è strettamente sorvegliata e affidata alla capacità di ascolto e controllo di ognuno di noi.

Roberto Latini propone una metafora di attore burattino e burattinaio, condotto e libero allo stesso tempo: quanto vi riconoscete in questa immagine in questa fase della vostra carriera?

Marco Manchisi: Mi riconosco in questa metafora di attore burattino e burattinaio al cento per cento. Lavoro da anni, per quanto riguarda i miei spettacoli, intorno alla condizione dell’attore all’interno della fascinazione che subisce direttamente dalla scatola teatrale, la quale indica inesorabilmente, come si trattasse di un destino prescritto, la strada drammaturgica e motivazionale dei personaggi che vado a creare. In questo, anche il lavoro sulla maschera risponde al principio che sono la scena e la situazione a determinare le sorti del racconto e del movimento spirituale del personaggio.

Elena Bucci: Le immagini del burattinaio e del burattino sono per me molto potenti e hanno già attraversato diverse volte il mio cammino. Nel corso della preparazione di questo spettacolo, Roberto ha creato uno spazio di accoglienza e libertà che ha fatto rivivere la memoria della mente e del corpo restituendomi gesti, voci, ricordi vivi che sono ora parole e azioni. Sono burattino e burattinaio, anche nel corso di una sola azione: mi sento in alternanza l’uno e l’altro e ogni sera quasi mai negli stessi identici punti. Dipende dalla mia energia e dal respiro e dall’umore del pubblico che, in questo spettacolo, sento con una forza speciale perché cerchiamo di inseguire una trasparenza e una nudità sempre più abbandonate.

Se invece pensiamo a queste parole immaginando semplicemente il burattinaio come colui che governa i movimenti altrui e il burattino o marionetta come colui che esegue, riconosco di essere stata molto fortunata perché da attrice sono sempre stata invitata a praticare una libertà creativa, mentre da autrice e regista ho avuto la possibilità di creare uno spazio dove gli altri fossero altrettanto liberi, traendone grande piacere e divertimento per il pubblico e per noi. Ho potuto sperimentare quanto il teatro sia un organismo vivo, mai simile a sé stesso, dove le persone si trasformano senza fine, maestro nel depistare il pregiudizio e nel generare conoscenza, anche attraverso l’esperienza dei propri limiti e orrori che, superati e visti, possono diventare un trampolino o uno scivolo.

Marco Sgrosso: La metafora proposta da Roberto vale per la struttura drammaturgica di questo spettacolo, ma personalmente non la definirei una fase del mio percorso teatrale. Come attore, non mi sono mai sentito burattino nel senso di “manovrato”, neppure in quelle esperienze di lavoro dove la direzione registica era fortemente determinante, come certamente è stata, ad esempio, la prima fase del lavoro con Leo, in cui lui dava indicazioni ferree su come impostare e sviluppare la presenza nello spettacolo. Anche in quelle occasioni, mi sono sempre sentito libero di conciliare le indicazioni registiche con gli impulsi del mio sentire, ovviamente in armonia e senza che ciò comportasse il minimo problema di relazione.

Con Roberto, la libertà di esecuzione è molto ampia, ma ciò non vuol dire che sia anarchica o scevra del suo sguardo attento e unitario nella creazione dello spettacolo. No, non credo di essere un attore-burattino, ma nemmeno mi sento attore-burattinaio. Essere “condotto” e libero allo stesso tempo è la condizione fondamentale perché un attore sia creativo, ma non userei i termini “burattini” e “burattinaio” per definire questo stato.

Mangiafoco – Roberto Latini. Foto © Masiar Pasquali

Lo spettacolo nasce anche per Matera, dove ha debuttato in prima assoluta il 21 novembre alla Serra del Sole in occasione delle celebrazioni del 2019, e adesso è in scena in un teatro carico di storia come il Piccolo Teatro Studio Melato: come cambia il vostro lavoro a seconda dello spazio in cui agite e del pubblico con cui vi relazionate?

Elena Bucci: In questo caso abbiamo fatto un’esperienza di straordinario interesse: i Mangiafoco che ho vissuto io sono almeno tre. Uno è quello vissuto in prova, nella sala Carpi che ci ha accolto quasi fuori programma, visto che le prove erano state programmate a Matera, ma poi spostate per impreviste difficoltà tecniche. Qui abbiamo creato la drammaturgia, il ritmo, il respiro. Con la complicità dei tecnici abbiamo usato tutti gli elementi possibili e immaginato quelli che sarebbero arrivati soltanto nello spazio del Teatro Studio. Abbiamo vissuto con emozione l’affiorare dei testi, il loro intersecarsi con le musiche e con gli accenni di luce, l’arrivo degli elementi di scena, la partenza di quelli che non servivano, abbiamo indossato giorno per giorno i costumi bellissimi.

A Matera, città di una bellezza quasi paralizzante, abbiamo trovato uno spazio incastrato in una cava, senza graticcio, con il palco rialzato, certo molto diverso dal Teatro Studio. Abbiamo quindi lavorato con Roberto a una intensa trasformazione dei materiali drammaturgici, del ritmo, della gestione degli spazi. Anche da un punto di vista strettamente tecnico sono stati necessari grandi cambiamenti: era impossibile usare elementi come il lampadario o lo scivolo, bisognava trasformarli in altro. Quanto si sviluppava in profondità si è disteso in larghezza. Abbiamo immaginato quello che non poteva esserci, trasformandolo in altre azioni.

Arrivando al Teatro Studio, sono arrivate scoperte nuove: le maschere di Topolino chiedevano altri linguaggi, più fisici e meno sonori, lo spazio ha respirato in tutta la sua profondità, lo scivolo ha potuto finalmente diventare quello che Roberto aveva immaginato, i ritmi sono cambiati e anche la drammaturgia, sono arrivate le farfalle gialle immaginate da Roberto l’ultimo giorno nella Sala Carpi, quando abbiamo provato senza oggetti, senza scene e costumi. Alcune scene che erano presenti a Matera sono cadute, altre hanno cambiato posto, tutto è precipitato verso una maggiore sintesi, pur mantenendo sempre un senso di grande libertà.

Ogni luogo è animato da una particolare atmosfera, non solo legata alla fisicità: abbiamo lavorato con armonia e serenità per modificarci, senza affezionarci mai a nulla, assecondando lo spazio e addomesticandolo, trovando la strada per ricreare le giuste condizioni per il rito con il pubblico. E il pubblico ci sorprende sempre, a Matera come a Milano. Quando si pensa di avere capito dove riderà e dove starà in muto silenzio commosso, subito si è smentiti, per fortuna. E ricomincia la ricerca intorno all’imprevedibile e ricchissima natura delle emozioni, del pensiero, dell’energia, del teatro.

Marco Manchisi: A Matera il palco tradizionale così frontale ci portava una distanza infinita dal pubblico, qui al Piccolo il pubblico ci circonda ed è come se fosse in scena con noi. Questa condizione influisce certo sulla nostra performance, personalmente sento che mi spinge a cercare più fortemente una relazione con il pubblico, aiutandomi a spingere per quanto riguarda la recita più delicata della mia biografia, che non può considerarsi propriamente Teatro, ma che lo è comunque dal momento che vive sulla scena. E questa architettura a pista di circo certamente porta una maggiore forza di concentrazione in cui il detto prende forza di confessione.

Marco Sgrosso: Quando uno spettacolo è vivo, all’interno di una compagnia in armonia come questa, benché ogni spettacolo muti di sera in sera impercettibilmente, le variazioni sono di esecuzione e non di senso. I mutamenti dettati dalle condizioni diverse degli spazi di replica fanno parte dell’esercizio di questo mestiere, ma spesso sono soprattutto cambiamenti tecnici che non intaccano la sostanza emotiva, anzi a volte aiutano a re-inverdire la freschezza del sentire.

Dopo Goldoni e Pirandello, continua con Collodi la riflessione di Roberto Latini sul teatro nel teatro: perché, secondo voi, uno spettatore che non si occupa di teatro dovrebbe venire a vedere uno spettacolo che parla di teatro?

Marco Sgrosso: Innanzitutto perché un vero spettatore di teatro non credo possa non essere interessato a uno spettacolo che parla del Teatro, anzi direi che casomai può essere particolarmente stimolato a spiarne i meccanismi, i retroscena e le dinamiche. E poi per nutrire l’immaginazione, per diventare testimone attivo e partecipe e allargare gli orizzonti della fruizione. Non mi sembra una scelta logica andare a vedere solo ciò di cui ci si occupa, sarebbe un po’ come chiudersi in un piccolo bunker. Il pensiero e l’immaginazione vanno nutriti e stimolati soprattutto con ciò che non si conosce.

Marco Manchisi: È questa una fase storica in cui il teatro sta disperatamente cercando delle motivazioni valide per rappresentarsi davanti ad un pubblico. Probabilmente è stato sempre così, ma in quest’era dei social network tutti sentiamo uno smarrimento ed una generalizzazione del nostro lavoro molto pericolosa. A volte riattraversare teatralmente una vita legata alla scena può aiutare tutti a ricordare quanta fatica si fa, non solo a livello tecnico-scenico, ma anche umanamente, per poter riconsegnare ad artisti e pubblico dignità, valori ed etica.

Elena Bucci: Penso che uno spettatore si occupi sempre di teatro, anche se non sempre ne è consapevole, perché è parte integrante di un rito dove memoria e futuro, individuo e gruppo, realtà e sogno, età, censi, culture, etnie riescono a fondersi. Per me uno dei motivi del fascino del teatro, e di ogni forma artistica, è che le domande sulla sua apparenza e sostanza fanno parte della sua essenza e vanno rinnovate di continuo, per ritrovare freschezza e profondità nella creazione. Penso che quando pubblico e artisti non si interrogano più sulla loro relazione o si sta vivendo in un’epoca di straordinaria armonia, e non è il nostro caso purtroppo, o si rischia di ripetere forme vuote che non danno il nutrimento che dovrebbero, ma solo passatempo.

Credo sia un privilegio avere tanti luoghi dedicati all’arte, ma vorrei che ogni apertura o debutto fossero vissuti come se fosse la prima volta, con il fiato sospeso e la speranza di avere l’occasione per rinnovare lo sguardo, illimpidire lo spirito e avere il coraggio di mutare quello che non va. Forse in questo momento ci interroghiamo tanto sul teatro e sull’arte perché sentiamo, a volte solo d’istinto, che il mondo attuale, quando ha il volto cattivo del solo profitto, ci sta rubando il gioco, l’intuizione, il tempo, l’affetto amichevole, la benevolenza, la libertà, mentre le arti, forse, possono restituirli.

Mangiafoco – Roberto Latini. Foto © Masiar Pasquali

Nel finale ognuno di voi si paragona ad un effimero blocco di ghiaccio destinato a sciogliersi accanto al fuoco: in questo regno dell’impermanenza, cosa vorreste lasciare di voi al mondo?

Marco Sgrosso: La memoria del brivido che sento quando recito in stato di grazia. Quella traccia indefinibile di un’emozione effimera che non può essere fermata ma che continua a sopravvivere nel ricordo, come momento di luce. Questo certamente, e poi anche la lealtà e la generosità del darsi che è sempre un grande dono di condivisione.

Elena Bucci: Visto che si tratta di sogni e desideri, posso rischiare di essere presuntuosa. Vorrei lasciare qualcosa di quello che coloro che mi sono stati maestre e maestri hanno lasciato a me: la necessità di trasmettere quello che si è imparato e liberarsene, fare della paura coraggio, dei difetti virtù, dell’ingiustizia risata, del talento azioni ed energia invisibile ma potente che scorre attraverso il tempo. Mi piacerebbe che qualcuno imparasse dai miei errori come evitarli.

Certo, come tutti, preferirei essere ricordata che dimenticata, ma se di tante strade che si aprivano davanti a me ho scelto questa, nascosta e fragile, forse è stato anche per non affezionarmi a quello che sono e che faccio, per imparare a scorrere e passare, nel modo più amorevole possibile. Mi piace che quanto ho imparato serva a sbloccare il talento di altri, sono felice quando riesco a scrollarmi di dosso paure, competizione, invidie e ragionamenti per ritrovare l’infante nascosto in ognuno di noi. Mi stupisco come dal nulla arrivano gli spettacoli e la scrittura. In questa sparizione di Elena, qualcosa resta.

Marco Manchisi: Credo che ognuno di noi lasci comunque delle tracce. Quello che spero si possa ritrovare in quelle tracce che lascerò è una forma di amore universale, quell’amore che mi ha portato ad ascoltare il mio passato e che spero possa servire a qualcuno per credere in una vita futura imbevuta di amore, comprese le sofferenze che l’amore porta seco.

Attraversamenti Multipli 2018: La prima settimana con Ascanio Celestini, C&C Company e Roberto Latini

Attraversamenti Multipli 2018: La prima settimana con Ascanio Celestini, C&C Company e Roberto Latini

Sette appuntamenti densi e articolati nell’orario che solitamente si estende dall’aperitivo al dopo-cena. Attraversamenti Multipli ( qui un approfondimento) è un festival crossidisciplinare, della durata di sette giorni non consecutivi, ma articolati in tre fine settimana, nel quartiere popolare di Roma del Quadraro, più precisamente nell’isola pedonale di Largo Spartaco, un luogo fiero come il leggendario Spartaco che fu tante cose: pastore della Tracia, ausiliario della milizia romana, disertore, gladiatore e rivoluzionario, tra i primi della storia. Forse non è un caso che quel piazzale aperto che, qualcuno ha recentemente “desalvinizzato”, come recita uno slogan scritto con vernice nera su un muretto, sia stato in precedenza consacrato a quel condottiero ribelle. Nomen omen. E sempre nei nomi troviamo qualche traccia di un presagio, una formula o semplicemente una dichiarazione d’intenti.

foto di Chiara Cocchi

Attraversamenti Multipli è, dunque, un festival crossdisciplinare, un progetto che prende forma e svolge la sua azione in spazi pubblici e luoghi simbolici; mette in connessione arti, codici e artisti diversi, creando una rete con la realtà sociale, con i frammenti di vita di una comunità. È un manifesto che riunisce insieme teatro, danza, musica, video e performance attraversandoli, con la messa in opera di residenze artistiche, performance site specific e workshop. Passare attraverso, da una parte all’altra, comporta lo stato di necessità e le visioni esplicitate nello slogan #sconfinamenti perché inevitabilmente Attraversamenti Multipli tende al superamento dei confini tra culture diverse, tra differenti generi artistici e, infine, il definitivo superamento dei margini di azione tra artisti e spettatori. Lo spazio scenico infatti è volutamente concepito e lasciato senza reti di protezione e senza il perimetro della recinzione diventando il luogo di ciò che accade con le diverse creazioni artistiche. È un dato certo e oggettivo, un elemento costitutivo di Attraversamenti Multipli, così come è garantito incontrare i sorrisi di Giulia Taglienti e Antonella Bartoli, le ragazze dell’ufficio stampa e comunicazione.

Tutt’intorno ci sono ragazzi sui muretti e sulle moto, i ragazzi dell’accoglienza e della logistica, gli spettatori di un pubblico mobile ed eterogeneo, un po’ nomade per vocazione, i cani randagi e quelli toelettati, gli operatori dei pub con hamburger e patatine che, di tanto in tanto, urlano i numeri delle prenotazioni. Ci sono gli alberi rivestiti di blu dalla luce dei riflettori e le biciclette addossate sulla loro corteccia, i condomini che sembrano tante caselle illuminate del Bingo. Mescolandosi tra di loro le persone, creano i presupposti dell’inclusione, della solidarietà e di quelle condizioni che nel passato portarono allo sviluppo delle civiltà. Avvenne in questo modo, mediante una mescolanza e sempre con un’opportunità di rinnovamento per ogni sfida dell’umanità. E così dovrebbe continuare ad essere. È così che vogliamo raccontare la diciottesima edizione ideata e creata da Margine Operativo con la direzione artistica di Alessandra Ferraro e Pako Graziani.

foto di Chiara Cocchi

Il viaggio è iniziato con la prima tappa del 15 e 16 settembre: un’affollata ouverture. La piazza si è riempita con uno pubblico numeroso e sconfinato oltre il perimetro di Largo Spartaco. L’apertura ha avuto come protagonista Ascanio Celestini che in un passaggio de Il Nostro Domani si presenta come un uomo di quel quartiere, uno del Quadraro, prima ancora che un intellettuale. Autentico perché nella descrizione di fatti e persone non risparmia niente a nessuno, commuove e si commuove, sembra volersi più volte sollevare la t-shirt scura, quasi a scoprire l’ombelico, mentre interpreta le pagine dure e di crudele ingiustizia con la musica eseguita dal vivo da Gianluca Casadei.

Parla di Gramsci come se ce ne fosse più che mai bisogno: immagina l’urgenza che avrebbe avuto un gigante di un metro e cinquanta di nominare oggi come ministro della Giustizia una donna, una madre, una sorella, un fratello che hanno conosciuto l’ingiustizia di veder ammazzato il proprio familiare, intrecciando così la storia del padre del comunismo italiano con quella delle vittime di Stato come Davide Bifolco, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e gli altri tristemente noti. Ascanio Celestini, con estrema semplicità e una buona dose di surrealismo, ambienta le proprie fiabe moderne in luoghi paradossali dove regnano l’antinomia e la violenza, scava in profondità nella storia italiana e fa riemergere tutta l’ignavia umana nel raccontare l’indolenza di quell’uomo che abita al venticinquesimo piano, incurante di quel rubinetto rotto e di tutte quelle gocce che allagheranno inesorabilmente il suo appartamento e quelli sottostanti, in una narrazione metaforica di una Italia senza antenati né posteri perché senza memoria.

Successivamente si è svolta la performance di C&C Company A Peso Morto, con l’interpretazione di Carlo Diego Massari. Il suo racconto prende vita all’interno dell’isola pedonale di Largo Spartaco, la abita con l’energia espressiva del corpo descrivendo la parabola di un anziano abbandonato a sé stesso: un emarginato di una qualsiasi periferia che incede inesorabile, con la sua faccia stanca, con le sue buste da clochard, verso la fine. L’epilogo lo attende come se fosse la chiusura di una pratica, l’oblio lo ha conosciuto già ed è stampato sul suo volto come il segno di una resa invincibile.

Anfibio, senza forma definitiva per natura umana e per natura artistica si definisce Carlo Massari con il quale tentiamo di tracciare un primo bilancio di vent’anni di attività. Le prime importanti esperienze a 14 anni con il regista e drammaturgo Pietro Luigi Floridia del Teatro dell’Argine, che oggi dirige “Met”, acronimo per Meticceria extrartistica trasversale, nuova casa di incontri, arte e teatro di “Cantieri Meticci”, riunendo rifugiati e richiedenti asilo, migranti e giovani artisti, con Luigi Gozzi, drammaturgo e regista, docente del Dams di Bologna e Barbara Nativi del teatro della Limonaia di Firenze con cui ha collaborato nell’ultimo lavoro “Binario morto”. Tanti i nomi e i luoghi incontrati lungo la strada del teatro: le repliche frenetiche fra Italia e Grecia con Sergio Pisapia Fiore e poi con la Compagnia della Rancia, ma decisivi soprattutto le collaborazioni a Londra presso la compagnia Theatre de l’Ange Fou, fondata dagli allievi del mimo francese Decroux, al Teatro Due di Parma con Claudio Longhi e Malu, prima ballerina di Pina Bausch e a Bruxelles con il coreografo coreano Hun-Mok Jung della compagnia di danza contemporanea Peeping Tom.

Come un’epifania, l’incontro con Michela Lucenti di Balletto Civile ai tempi in cerca di nuovi performer per la compagnia. La sua formazione eccezionale è stata uno dei cardini della mia vita – ricorda con felicità Massari – sono rimasto con Balletto Civile per cinque anni finché non c’è stato il subentro di C&C. Dal 2011 infatti inizia la collaborazione con Chiara Taviani, nata all’interno di Balletto Civile, che sfocerà nel nuovo sodalizio. Sia da una parte, sia dall’altra ci siamo dovuti scorporare portando avanti i nostri rispettivi percorsi. All’inizio molto all’estero, poi è arrivato il momento in cui anche all’Italia interessava un tipo di linguaggio di questo tipo e quindi siamo stati accolti a Brescia dove abbiamo la residenza di compagnia. Dopo aver lavorato a lungo insieme in numerosi spettacoli, Chiara ha deciso di tirarsi fuori dal progetto per una propria scelta personale di vita ma il lavoro della Compagnia proseguirà in Italia e in Europa con nuove residenze e repliche degli spettacoli, fra cui ci sarà anche la prima delle tre produzioni del progetto Beast Without Beauty – vincitrice del Premio Giuria e del Premio Pubblico di Crash Test Festival in Valdagno, Vicenza NdR..

ATTRAVERSAMENTI MULTIPLI | 15 sett 2018 | performance di Carlo Diego Massari / C&C company | Largo Spartaco, Roma | foto di Chiara Cocchi

Protagonista di rilievo del 16 settembre, con le suggestioni liriche e la sua voce che sa circumnavigare le perifrasi e il “campo della poesia” di Mariangela Gualtieri, è stato Roberto Latini. Con La delicatezza del poco e del niente ha inaugurato lo spazio di Garage Zero che verrà utilizzato anche per prossimi spettacoli. Sconfinando tra poesia, teatro e musica la rotta ha unito Dio, l’uomo e l’amore. Uno sconfinamento che ci ricorda che in fondo siamo tutti noi donne e uomini in movimento e la ricerca della libertà o anche di semplici risposte a domande complesse, ci contraddistingue. Come nella vita, chi ci passa accanto, attraversando la nostra strada, può essere qualcuno che capita per caso o che è venuto apposta. Ma di sicuro c’è una sincronia negli eventi che nell’attimo di attraversare la nostra esistenza diventano multipli di essa.

Ph. Carolina Farina/ Carolee Oh

Il programma di questa settimana di Attraversamenti Multipli 

Sabato 22 settembre alle ore 19.00 il danzatore e artista visivo Alessandro Carboni presenta il site specific “Unleashing Ghosts from Urban Darkness” con i performer e i danzatori partecipanti al workshop (che si svolge nei giorni precedenti ) una performance che unisce dimensione installativa e pratiche performative in un percorso in cui il corpo viene utilizzato come strumento cartografico,attraverso un processo di mappatura dello spazio urbano attraverso azioni corporali. Alle ore 21.00 il coreografo/danzatore Daniele Ninarello con il site specific “God Bless You”dilata il “tempo” della performance diventando per una sera parte dello spazio urbano che lo accoglie, creando dinamiche interattive con il pubblico. “God Bless You” riflette sull’enorme quantità di desideri che abbiamo e sulla figura del senzatetto, come custode di desideri inesauditi.

Alle ore 21.30 il Collettivo D.A.B. – Dance Across Border una compagnia nata nel 2016 dalla volontà di 3 danzatrici – Livia Porzio, Francesca Lombardo e Emanuela Serra – per sviluppare un progetto di formazione e ricerca artistica all’interno dei centri d’accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo con l’obiettivo di creare, attraverso il lavoro artistico, occasioni d’ incontro tra migranti e cittadini. Il Collettivo D.A.B. presenta in prima nazionale lo spettacolo “We Are The Birds Of The Coming Storm”. Uno spettacolo che vede in azione performer di diversi paesi e che riesce a raccontare “gli sconfinamenti” attorno a cui ruota tutto il festival.

Domenica 23 settembre alle ore 17.00 parte la performance itinerante creata da Valerio Sirna / Dom ”MAMMA ROMA_ Esplorazioni urbane / Pratiche della percezione TUSCOLANA MITOLOGICA” un progetto che si fonda sull’esercizio del camminare, inteso come strumento di conoscenza e di lettura sensibile del circostante, e sulla relazione sottile che lega il corpo al paesaggio che attraversa. L’esplorazione del 23 settembre traccia un’orbita intorno agli avamposti del Quadraro, e sconfina nel quartiere Tuscolano, instancabile centro generativo dell’iconografia capitolina. Alle ore 21.00 è in azione Collettivo Cinetico, fondato dalla coreografa Francesca Pennini, il cui focus principale di ricerca è la discussione della natura dell’evento performativo e del rapporto con lo spettatore tramite formati e dispositivi al contempo ludici e rigorosi che si muovono negli interstizi tra danza, teatro e arti visive. Collettivo Cinetico presenta la performance “I X I No, non distruggeremo (…)”un dispositivo coreografico interattivo che si plasma ai luoghi che abita e che permette al pubblico di determinare i movimenti dei performer.

A breve ci saranno nuove incursioni di Theatron 2.0 ad Attraversamenti Multipli 2018: continuate a seguirci!

Attraversamenti Multipli 2018

Per scoprire tutto il programma di Attraversamenti Multipli 2018:

www.attraversamentimultipli.it
facebook: attraversamenti multipli
info: info@attraversamentimultipli.it