Il Pinocchio de Leviedelfool. Un Requiem per il teatro: Intervista a Simone Perinelli e Isabella Rotolo
Quando Requiem for Pinocchio è andato in scena sul palco del Thesorieri di Cannara, aprendo le danze di Strabismi Festival 2020, il teatro fronteggiava la ripresa, proponendo lo spettacolo dal vivo in sicurezza. Per l’alto senso di responsabilità che ha contraddistinto il lavoro degli organizzatori e delle organizzatrici della rassegna; per la solerzia di un pubblico che ha reso quel teatro un presidio d’arte e coscienza.
A poche settimane dalla conclusione del festival, il settore dello spettacolo dal vivo si trova nuovamente risucchiato in una bolla apocalittica che lo fa implodere in sé stesso. Nella nube di detriti che si leva da quest’ennesimo incendio d’intenzioni, finisce la vita di quanti hanno fatto dell’arte la propria professione, il proprio sostentamento.
Ecco che il Requiem non è più la funzione di congedo di un Pinocchio che, nell’imposizione del tramutarsi umano, rinuncia alla libertà d’essere ciò che desidera. Requiem è l’atto finale di un rito che, soffocato dal terreno umido della manovra politica che ne cosparge il capo, grida, a sordi orecchi, la necessità della propria funzione.
Con Requiem for Pinocchio, spettacolo del 2012, che, a otto anni dalla sua creazione, è capace ancora di innescare una riflessione archetipa sulla crudeltà dell’esistenza, della manipolazione imposta dalla società, della violenza del lavoro, Leviedelfool, compagnia romana formata da Isabella Rotolo e Simone Perinelli, intavola un discorso sul mito che parla di tutti noi. Perinelli, marionetta in Converse e calzoncini, continuamente rovescia i punti fermi di un racconto che viene scardinato e attualizzato con la lucidità propria dei bambini.
La favola che si fa manifesto pop, tra citazioni musicali e una partitura gestuale che trasforma Pinocchio in un “atleta del cuore” di artaudiana memoria, porta in scena una vita presa a frustate, catturata e poi condotta sulla strada della costrizione sociale.
In questa intervista Simone Perinelli e Isabella Rotolo approfondiscono la linea estetica de Leviedelfool, analizzando le tematiche e i metodi di creazione del loro Requiem for Pinocchio.
Requiem for Pinocchio è uno spettacolo che circuita da 8 anni, come è cambiato nel tempo, su cosa avete continuato a lavorare?
Simone Perinelli: I piani sono tanti e diversi, uno è sicuramente quello contemporaneo del mondo del lavoro in cui Pinocchio si destreggia . Ci serviamo di alcune critiche, di questo mettere in vetrina alcuni aspetti negativi del nostro quotidiano, per portare avanti una storia che ha a che fare con Pinocchio ma, soprattutto, con l’urgenza. Lo spettacolo cavalca delle tematiche trovando sempre la stessa forza interiore e la stessa risposta nel pubblico, forse perché tocchiamo delle corde universali.
Quel che è certamente cambiato è la nostra percezione: le tante repliche che si sono succedute negli anni ci hanno fornito tante chiavi di lettura che inizialmente non avevamo neanche individuato, delle sfumature, dei fantasmi che si sono palesati. Ahimè le cose non sono cambiate molto da quando avevamo immaginato Requiem for Pinocchio e questa cosa è positiva, quanto negativa ma è un dato di fatto.
Approfondendo il tema del lavoro, qual è il valore di Requiem for Pinocchio oggi rispetto alla scoperchiata questione delle lavoratrici dei lavoratori dello spettacolo dal vivo?
SP: Durante la quarantena sono rimasto in contatto con tanti colleghi che fanno questo mestiere da tanti anni e c’è stato anche chi non è riuscito a sopravvivere alla chiusura. La lamentela era forte, alcuni hanno cercato lavori altri dovendo convertire il teatro da professione in passione. Un discorso del genere, portato avanti da professionisti, assume dei risvolti molto gravi. Mi risuona, a tal proposito, la scena del colloquio tra Pinocchio e il suo datore di lavoro, in cui Pinocchio dice: «Devo tornare alla missione, sono artista, fui Pinocchio».
C’è un forte nesso in ciò con il nostro spettacolo, con il tempo presente, perché innesca una riflessione sul tema della vocazione: che fine, oggi, la vocazione? Il lavoro d’artista è veramente una missione, non dà alternative, è un mestiere immenso portato avanti attraverso delle scelte difficili, ma che soprattutto ricadono su se stessi. A un certo punto i teatri chiudono, c’è una pandemia, tutto sembra andare in fumo. Ecco perché, parlando di Pinocchio il mio pensiero va alla vocazione degli artisti.
Come si è avviato, a livello drammaturgico, il rovesciamento dei personaggi e il loro posizionamento nella realtà contemporanea, attraverso l’individuazione dei tipi psicologici della nostra società?
SP: Penso, ad esempio, alla fatina che abbiamo sottoposto a una lettura rivoluzionaria. Questo personaggio, che continuamente consiglia a Pinocchio di fare delle azioni che ne trasformino il sentire, la personalità, mi ha fatto pensare a tutta quella parte della società che nutre una fascinazione per la chirurgia estetica, per quella rinuncia all’autenticità volta abbracciare un’idea di sé, dettata da parametri imposti. Allora, mi sono chiesto, e se Pinocchio volesse essere semplicemente quello che è?
Nella fatina ho individuato il personaggio più negativo di tutta la storia, quasi più del gatto e la volpe, perché quella falsa bontà, che induce a subire un’imposizione esterna, sociale, è una menzogna dalla quale è difficile difendersi. In tutti i suoi incontri, Pinocchio rimane l’innocente deve destreggiarsi nel riconoscimento di tutto ciò che di negativo gli si manifesta intorno.
Geppetto è un uomo che usa le mani, lavora il legno, è un artigiano nel cuore, è l’aspetto veramente più umano della faccenda. Mi piaceva conferire a questo personaggio quella follia dell’eremita che, ritirandosi, crea un mondo parallelo. Stando lunghi periodi da soli, i pensieri assumono un’altra onda, è quella che Jung chiama “la vita in divenire”, quella fatta di pensiero, di immaginazione.
Isabella Rotolo: Il nostro Pinocchio è accompagnato da quattro adulti le cui azioni hanno a che fare con la manipolazione. Oltre alla fatina, abbiamo il datore di lavoro che è l’adulto che manipola in favore del sistema;Geppetto che pur di non manipolare si ritira; il giudice, l’adulto silente che guarda, ascolta ma che giudicherà quello che è stato fatto durante il viaggio; abbiamo invece salvato Lucignolo, trattandolo come un compagno di gioco, perchè è l’unico che veramente fa qualcosa insieme a Pinocchio, riscattando la grande solitudine, il senso d’abbandono del personaggio.
SP: Lucignolo è molto importante, è quell’amico vero che, pur rappresentando un esempio negativo, aiuta nell’individuazione, nell’accettazione del proprio daimon. Attraverso Lucignolo ritroviamo noi stessi.
Qual è stato il processo di costruzione della partitura fisica? In che modo il gesto si inserisce in quel sostrato di cultura pop che traslate sulla scena attraverso il portato testuale e la scelta musicale?
SP: Il lavoro fisico è stato importante fin dall’inizio. Appena è nato il testo, lo abbiamo portato sul palco. Essendo Pinocchio un impulso vitale, il movimento è stato la prima tappa di questo percorso. Puntiamo sul lavoro teatrale, sul fatto che la parola si manifesti per ultima, fuoriuscendo dal gesto come la lava fuoriesce da un vulcano. A livello di linguaggio, è questa la ricerca teatrale che portiamo avanti.
IR: Quando cerchiamo una partitura fisica per un personaggio, ci agganciamo innanzitutto a delle immagini: con Pinocchio per noi siamo partiti da quella di un carillon inceppato che, nel gesto, desse idea di una nevrosi data dall’impossibilità di essere quel pezzo di legno fantastico incastrato nel mondo reale. I suoi movimenti, i suoni che emette, le piccole risate, è come se contenessero il repertorio di azione che aveva imparato a fare nella fase intercorsa tra l’essere un pezzo di legno e la sua trasformazione marionetta. Come fosse l’evocazione del ricordo di ciò che era e di ciò che gli è stato negato.
Questa fisicità lignea è stata avanti anche in momenti come quello della corda o delle frustrate, che sono appunto molto fisici, e che ci sono serviti soprattutto a raccontare la crudeltà di questo mondo con un’azione decisa che andasse contro le parole. Nel saltare la corda, Pinocchio parla in versi, utilizzando un testo più poetico che accompagna un’azione quasi sportivo-agonistica che si fa metafora della fatica della vita.
Allo stesso modo, le frustrate, che si manifestano solo in un suono violento, hanno una ricaduta così fisica sul corpo di Pinocchio da riuscire a raccontare di più di qualcosa che, assecondando la didascalia, muove nella stessa direzione di ciò che viene proferito. Facciamo questa operazione per aprire i sensi, per capire quali visioni ulteriori possono nascere nell’incontro con lo spettatore.
Trattate la storia di Pinocchio come un archetipo, come materiale mitologico che si trasforma, facendosi strumento di lettura della realtà. Come cambia il mondo se viene visto con gli occhi di un bambino? In che modo, da adulti, avete scoperto o riacquisito questo sguardo?
SP: Ho sempre mantenuto uno sguardo ingenuo rispetto alla vita, trattenendo lo stupore per ciò che osservo. È qualcosa che consente di toccare un infinito, offrendo, allo stesso tempo, una grande ricchezza e una grande pena. Quando ho scritto Requiem for Pinocchio, lo sguardo del bambino mi ha aiutato a trovare visioni altre del mondo. Quello di Pinocchio è uno sguardo sull’esistenza. Quando, a 30 anni, ho riletto questo racconto mi sono davvero reso conto della mancanza del lieto fine e l’ho indagato, mantenendo quell’inclinazione ingenua dell’atto del guardare.
IR: Per quanto riguarda il discorso sul mito, cerchiamo proprio di lavorare in questa direzione. In particolare, su quella che poi abbiamo definito La trilogia dell’essere, siamo partiti da tre grandi archetipi: Pinocchio per raccontare la scoperta dell’esistenza; Ulisse per narrare la resistenza, attraverso il suo ritorno a Itaca; Don Chisciotte per affrontare quella che per noi era la soluzione esistenziale, una possibile risposta a tutte le grandi domande.
In generale, anche negli spettacoli più recenti, Yorick e Baccanti, per noi è molto importante l’aspetto del mito, proprio perché ci consente di scardinare il preconcetto che è legato a un archetipo. Assumere l’archetipo ci consente di trovare il senso profondo delle cose: ecco che Le avventure di Pinocchio diventano la scoperta dell’esistenza.
SP: Sono contento che tu abbia tirato fuori l’aspetto del mito, perché è importante rispetto al lavoro che facciamo a livello concettuale rispetto alla drammaturgia.
IR: Nel nostro Pinocchio il mito si intreccia con il mito pop: alla base vi è una modalità di stratificazione che non è semplice citazionismo. Quelle citazioni funzionano come delle scatole cinesi, si aprono porte che poi portano ad altre vie. Anche se non vengono colte singolarmente, nel loro complesso rappresentano un filo che permette di seguire la storia. Pinocchio è il nostro manifesto pop.
SP: Pinocchio, in primis, è un animale di scena, un animale da palco. Il mio paese dei balocchi si ispira a lui: è un palco su cui posso essere libero di fare il teatro che voglio.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.