Nei giorni in cui, al teatro Off/Off di Roma, è andato in scena La pacchia è finita – Moriamo in pace è stato fotografato, con un potente telescopio virtuale e per la prima volta, un buco nero. A vederlo sembra un doughnut, una ciambella, con un sorriso di fuoco.
È stato uno dei momenti più importanti della vita di Anne Riitta Ciccone, la quale ha dichiarato pubblicamente la sua emozione per l’evento. La sua passione per lo spazio e le costellazioni è un’impronta personale, più o meno sottotraccia, che emerge e si respira anche nei testi di quei tre monologhi di cui ne è l’autrice. Nelle descrizioni di una luna piena e rossa o di uno spicchio bianco tra le stelle che “sono più lontane della terra dove devi andare”.
Italo-finlandese nata ad Helsinki, vive a Roma dove svolge l’attività di drammaturga, documentarista e regista. Il suo ultimo film risale al 2017, I’m – Infinita come lo spazio, scritto insieme con Lorenzo d’Amico de Carvalho che è il marito e il suo compagno nella vita. È la storia di una diciassettenne, Jessica. Un racconto dove il visionario si mescola con la tecnologia, la fantascienza con la paura del mondo.
La pacchia è finita – Moriamo in pace, tre monologhi sull’implosione dell’umanità
Non è un caso che La pacchia è finita – Moriamo in pace si concluda con un monologo, Kappatrequattrocinquebis, interpretato da Gabriele Stella. La storia di un replicante, una creatura artificiale e full optional, identica all’essere umano. Progettata e costruita per svolgere tutti i lavori, soprattutto quelli pesanti e abietti. Disponibile per soddisfare anche prestazioni sessuali. Un oggetto attraente e di bella presenza. Un androide con la memoria di un fisico nucleare, una peculiarità concepita come una funzione controllabile, come un microchip. Privo della possibilità di essere un soggetto giuridico e, quindi, senza diritti. Ad iniziare da quello più elementare: il nome. Solo un codice numerico, trequattrocinquebis, e una lettera, la K. Uno schema simile alle procedure di azzeramento dell’individualità usate nei campi di concentramento.
La pacchia è finita – Moriamo in paceè un titolo che immagazzina la luce, la materia, l’energia dell’essere umano, come in un buco nero. Come una metafora, il collasso di una stella. Corrisponde alla fine di uno stato di grazia, di una condizione dell’umanità. L’epilogo, il breaking point, la distruzione e la morte. In quella spirale ci si finisce dentro, senza rendersene conto.
Forse è per questa ragione che il regista Lorenzo d’Amico de Carvalho ha deciso di lasciare un’illuminazione soffusa in sala per tutto il tempo dello spettacolo. Corrobora quella relazione che si manifesta attraverso la ricerca di un contatto visivo e di una reciprocità tra palcoscenico e sala, tra spettatori e attori.
Le origini del regista sono un incrocio fra culture diverse: madre italiana e padre portoghese. Ha lavorato per registi come Alessandro d’Alatri, Marco Tullio Giordana, Cristina Comencini, Daniele Lucchetti. L’insieme delle esperienze, del vissuto personale, delle affinità esistenziali con l’autrice Anne Riitta Ciccone hanno contribuito a realizzare racconti di grande attualità e Intense drammaturgie.
Il protagonista di Sulla Stessa Barca, il monologo iniziale interpretato da Gianvincenzo Pugliese, è un personaggio misterioso, uno che ha “braccia forti che possono sollevare fino a 100kg” e un cervello ancora più potente. Uno che a 13 anni era già in galera e che ha conosciuto la durezza della vita. Non chiede pietà, né commiserazione, anzi. Punta il dito verso la luna senza nascondersi.
Era un bambino che voleva andarci davvero nello spazio, su quell’unico satellite del nostro pianeta. Non giudica, ma disprezza soltanto. È un sopravvissuto all’orrore di quella barca che ha cominciato a prendere acqua e che si è spezzata come una balena che muore in mare. È un carnefice, uno scafista? Non è un mistero che lui conosca molto bene la teoria darwiniana della selezione naturale. Su quella barca, ha visto la lotta per la salvezza tra padri, madri, figli, fratelli. Senza pietà. E non era certamente la sua prima volta. Recita: “Se Dio c’è, è così. Prende un po’ di fango e si inventa una storia. Non c’è un motivo. Devi imparare a costruire nel, dal e con il fango”. È solo lui o c’è in lui anche tutto quello che siamo diventati noi?
Sulla stessa barca. La pacchia è finita – Moriamo in pace, tre monologhi sull’implosione dell’umanità
Maria è la protagonista del monologo La Santa, interpretato da Maria Vittoria Casarotti Todeschini. Viene dall’Est e ha sempre amato tanto gli altri. Al punto che voleva fare la badante, non potendo fare la suora. Una grande speranza la sua, come un sogno da realizzare, una missione. Si è ritrovata a fare la prostituta, mediante uno sporco inganno.
In Italia non c’era mai stata. La sua prima conoscenza del Bel Paese, il primo fotogramma che hanno registrato i suoi occhi è stata l’immagine di un hotel vicino a un autogrill. E Maria non era nemmeno mai stata in un albergo. Si ritroverà su una strada, nei pressi del chilometro 30. Lì però farà qualcosa di autenticamente rivoluzionario, inconcepibile ed esecrabile per un cinico entourage che mercifica sul sesso. Per una società malata, che cerca ripetutamente e vuole “solo gesti”.
Maria è una santa martire che non sente, non prova dolore nemmeno quando urla con strazio: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. Per lei che ha ricevuto il messaggio dall’alto, “è giusto quel campo, quello spicchio di luna bianca, quell’ultimo soffio di vento. Anelito di Dio”.
Tre monologhi di uno spettacolo teatrale che è la fotografia del nostro tempo presente. Raccontano molto di noi che moriamo in pace perché la “pacchia è finita”. Noi che abbiamo perso il senso collettivo della storia, in un mare di storie brevi e veloci, da profilo. Accompagnate da un aforisma passpartout o da uno slogan. Funzionali per camuffare l’individualismo, l’assuefazione, l’indifferenza, l’odio sotto l’apparenza di una ordinaria normalità, di un trascinarsi lento come morti viventi.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Lindsay Kemp (Cheshire il 3 maggio 1938 – Livorno, 25 agosto 2018) è stato un coreografo, attore, ballerino, mimo e regista britannico.
>Story
Innamorato fin dall’infanzia della danza, del teatro e del cinema, studia con Sigurd Leeder, Charles Weidman e soprattutto Marcel Marceau. Particolarmente significativa per Kemp è l’esperienza formativa con il creatore di Bip, dichiarerà infatti in più occasioni che Marceau gli ha “dato le mani” giocando con le parole per indicare l’effettiva importanza delle mani nell’arte mimica e nella sua personale interpretazione di essa e in riferimentoal pezzo ‘Le Mani’ che il mimo francese trasmise all’allievo britannico come ‘dono’ tra artisti e maestri nell’arte mimica. Kemp ha lavorato in varie compagnie di danza, teatro, teatro-danza, cabaret, musical, mimo, coreografia fino a formare nel 1962 la sua prima compagnia, la The Lindsay Kemp Dance Mime Company.
>Linguaggi
Noto per la ricerca fra diversi linguaggi teatrali e per un approccio innovativo alla danza e al teatro, Kemp negli anni ‘70’ diventò il precursore di un genere di danza onirico, ricco di contenuti al limite dell’acrobatico e ricco di effetti spettacolari ottenuti in modo semplice attraverso l’uso creativo della musica e delle luci.
>Artist
Kemp parallelamente coltiva anche interesse nella pittura, allestendo mostre dei suoi dipinti e dei suoi disegni in tutto il mondo, bozzetti di costumi di scena e foto d’archivio, oltre a curare masterclass di teatro-danza, incontri col pubblico e conferenze.
>Livorno
Kemp si innamora di Livorno quando con Flowers debuttò al Goldoni. Nato in una città col porto e il mare, per lui la differenza la fa la gente di Livorno. Qui si sente a casa, più che in ogni altra parte del mondo, ha trovato grande umanità, ha ricevuto un magnifico benvenuto, per le strade, nei bar, al mercato. Sosteneva che non gli importava della nobiltà, della celebrità, gli piacevano le persone normali, sincere, di cui fidarsi. L’affetto della gente gli dava stimoli e ispirazione. La casa dove abitava sorgeva dove un tempo c’era il Teatro Politeama, un luogo abitato dai fantasmi degli antichi teatranti.
>La passione
A chi gli chiedeva il segreto della propria longevità, Kemp rispondeva con il suo tono sempre trasgressivo: «In realtà nella mia vita ho fatto tutto ciò che normalmente porterebbe diritto alla tomba! Fino a un certo punto mi sono candidato all’autodistruzione, poi ho cambiato comportamenti. Basta vedere i miei coetanei rockstar ancora in vita: tutti hanno fatto una scelta salutista. Per uno come me non è stato facile. Ma bisogna avere cura dello strumento avuto in dono. E poi c’è la passione. Io non potrei mai scendere dal palcoscenico. È la mia vita! Forse il segreto è vivere in maniera intensa».
“L’arte è dare forma all’emozione per comunicarla al pubblico.”
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Henrik Ibsen, nato a Skien, in Norvegia, il 20 marzo 1828 e morto ad Oslo il 23 maggio 1906, è stato un drammaturgo, poeta e regista teatrale norvegese. È considerato il padre della drammaturgia moderna, per aver portato nel teatro la dimensione più intima della borghesia ottocentesca, mettendone a nudo le contraddizioni e il profondo maschilismo.
Il drammaturgo norvegese, mise in scena personaggi in preda alla contraddizione tra le loro capacità e le loro ambizioni. Gli uomini e le donne creati da Ibsen, pronti a sacrificare tutto per perseguire il proprio ideale e ad esprimere con impeto la propria personalità, restano sorprendentemente vivi a più di un secolo di distanza, poiché traducono con forza le grandi angosce del nostro tempo. Il teatro di Ibsen è stato definito di volta in volta naturalista, simbolista, anarchico… In verità la sua opera, basata su realtà vissute, difendono teorie spesso audaci, calate in personaggi di una verità intensa. La norma di quest’arte è il rigore. Ibsen era convinto che il mondo intero fosse alla ricerca di una fede, di una vocazione. Era convinto che qualsiasi uomo avesse una “passione vitale” che necessitava di tradurre in atti. Tale è la verità degli uomini e delle donne che mette in scena, i quali cercano di essere liberi fino in fondo, fino alla radice del proprio essere. Henrik Ibsen valorizza una tecnica drammaturgica che si rifà alla tragedia greca, dove il passato riaffiora progressivamente di fronte ai personaggi e al pubblico, e così trasforma il teatro borghese in una scena perturbante sulla quale vengono discussi i problemi sociali ed esistenziali all’insegna dell’assoluta necessità di emancipare l’individuo da un radicale “disagio della civiltà” che lo serra con le sue convenzioni.
Ciò che determina la tonalità principale dell’opera di Ibsen, e che sembra essere la chiave della sua concezione del tragico, è il dubbio vitale che distrugge lentamente nel personaggio la vocazione, la felicità, la volontà, l’amore ideale, la realtà vissuta.
Nessuno può sottrarsi al proprio destino, ai propri atti inconsapevoli, alle tare delle generazioni precedenti.
Ogni nuova opera, per me, ha avuto lo scopo di liberarmi e purificarmi lo spirito.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Won Kar Wai è un grandissimo regista, noto anche per il sapiente uso della danza, la coreografia ed il movimento umano, usato come canovaccio al servizio di una storia, di un discorso e di una filosofia. Nel film “Happy together” la scena di tango tra i due amanti in viaggio è un esempio dell’uso originale del tango nel cinema. In questa storia la danza non è di fatto protagonista ma serve da vettore, mezzo d’unione e di disunione tra i protagonisti.
Tornando indietro nel tempo possiamo osservare già come Carry Grant, nel film “Briging up Baby” (Howard Hawks-1938), prendeva esempi dall’arte del ballerino di tango o da quello di un torero, così da avere delle movenze usate con l’intento di proteggere il «sedere» di Katharine Hepburn dallo sguardo indiscreto degli ospiti presenti nel ristorante. Questa scena ha tutti principi di una danza: la ristretta vicinanza tra i due, la capacità di movimento pur senza il lato pianificato e coreografato del tipo: «e ora balliamo!…» rimanendo, quindi, nel registro della commedia.
Torniamo a Won Kar Wai e interessiamoci al suo film “The Grand Master” che rimane un’opera unica del regista, forse come ogni film che ha realizzato. La storia tratta liberamente del personagio di Ip Man, professore di arti marziali di stile Wing Shun, conosciuto soprattutto grazie ad uno dei suoi più famosi studenti: Bruce Lee. Un film di Kung Fu, certo, ma è qui che il maestro Won Kar Wai prende un posto particolare nella tradizione dei film di arti marziali di Hong Kong. Bruce Lee, a suo tempo, aveva già rispolverato il genere offrendo al cinema scene più realistiche di combattimento, rispetto per esempio, a «A touch of Zen» (King Hu-Taiwan/Hong-kong 1970-1971) , seppur eccellente. «The Grand Master» potrebbe essere visto come la storia del dottor Zivago con scene di combattimento alla «Matrix» in una Cina degli anni 30 sino ai 50. Secondo gli esperti, gli stili di Kung Fu usati sarebbero autentici, e rendono il film quasi un’introduzione alla storia delle arti marziali cinesi del XX secolo con una grandissima qualità della coreografia e del movimento. Il ruolo di Ip Man è interpretato dall’attore “fétiche” di Won Kar Wai, la sua musa, Tony Leung. Egli non aveva mai «praticato» prima del film ed ha imparato arti marziali all’età di 47 anni, avendo a che fare, anche, con il coreografo del film «Matrix», Yuen Wu Ping.
Quali sarebbero le ragioni per vedere, e possibilmente, rivedere questo film? Perché abbiamo l’impressione di vedere un dipinto ogni momento, grazie alla messa in scena incredibile, all’abbigliamento formale, alle invenzioni stilistiche, al lavoro di artigianato dantesco su l’accelerato e i rallentati, alle invenzioni cromatiche, ai colori sempre considerati, studiati ed elaborati con cura, il tutto su un lavoro sonoro e di musica sapientemente orchestrato.
Per le riprese di questa scena ci sono voluti 2 mesi, d’altra parte Won Kar Wai affermò che la parola ‘Kung Fu’ significava letteralmente: «Il tempo che richiede/ necessario». Avrebbe potuto girarla in 3 giorni ma sarebbe stata una scena di combattimento qualunque. Qui, abbiamo a che fare con un film storico, in costumi d’epoca, negli ambienti della cerchia del Kung Fu, sulla rivalità tra scuole del Nord e del Sud. Quando Ip Man deve sfidare Gong Er la lotta si trasforma in una danza di seduzione, l’amore nascente si nasconde nei dettagli. Tony Leung e Zang Ziyi, così tanto telegenici, sono ingranditi grazie al lavoro di Won Kar Wai e al suo direttore della fotografia, il francese Philippe Le Sourd che ha ottenuto l’Oscar per la migliore fotografia nel 2014. Un’attrazione reciproca, niente finestre rotte né porte schiantate, è tutta precisione tra i due maestri. Il dettaglio dei piedi che scivolano sul pavimento sono come un invito a ballare, i suoni dei passi e degli appoggi nei diversi punti delle scale fanno si che la sensualità entri all’interno della lotta tra i due.
La scena di apertura del film sotto la pioggia usa effetti rallenty estremi combinati ad acceleramenti, movimenti surrealisti seguiti poi da movimenti molto concreti, semplici e diretti che contrastano con la scelta sul movimento ”surrealista” precedente, in modo tale che si metta in evidenza il potere del personaggio di Ip Man. La parte interessante di questa scena è dovuta anche alla possibilità di evidenziare i micromovimenti, facendo comprendere ancor meglio allo spettatore il combattimento. Il rallenty permette, inoltre, di far passare delle informazioni sui protagonisti con una maestria formale che trasforma la scena in un’esperienza estetica abbagliante. Si può vedere un’attenzione particolare ai piedi simile a quella che si potrebbe trovare nelle inquadrature di un film di tango. I movimenti dei vestiti e specialmente del capello di Ip Man sono parte del movimento generale del combattimento. Sono così belli a livello fotografico da fornire informazioni sulla dinamica del colpo successivo o sulla prossima sferrata. Sembrerebbero una pura delizia formale ma sono in realtà una chiave in più per comprendere la scena: traducono, infatti, l’onda causata dal movimento, come per esempio i vestiti appesantiti dall’acqua della pioggia che espelle questa carica in una seconda ondata di gocce regalate allo sguardo dello spettatore. Potenza, bellezza, maestria del regista-demiurgo che, grazie ai diversi piani di lettura e alla maestria con cui utilizza le arti marziali con l’eleganza del Wing Chun, fa in modo che si arrivi all’apice di un cinema sia popolare sia elitista.
E infine un video molto interessante di Rowena Santos Aquino sull’utilizzo che fa Won Kar Wai della danza attraverso le sue opere.
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