da Michela Ventre | 11 Mag 2017 | Uncategorized
Quando ho frequentato il primo laboratorio di teatro, tempo fa, ero giovane e avevo aderito a quel corso perché lo frequentava anche il ragazzo che mi piaceva. Non conoscevo niente di quel mondo, solo qualcosina: non dare le spalle al pubblico, usare bene la voce, non dondolare mentre parli, la tenda solitamente rossa che si apre e si chiude si chiama sipario. Insomma cose così. Pian piano ho scoperto che non solo la tenda aveva un nome, e che stavo poggiando i piedi su un legno chiamato palco, ma che il gioco del teatro ha delle regole che hanno dei nomi.
La Zattera. Sappiamo cos’è una zattera. A teatro la zattera diventa una sorta di metafora. Mi auguro che nessuno si sia mai trovato in occasione di dover usare una zattera oggigiorno, ma è di facile intuizione il fatto che se ci si siede tutti a destra o tutti a sinistra su di un pezzo di legno galleggiante le probabilità di finire in acqua sono molto alte. Quello che non ho mai capito è se “zattera” fosse un termine usato solo da quell’insegnante o se rientrava in un linguaggio universale per dire “distribuitevi nello spazio in maniera equidistante senza lasciare buchi sulla scena”.
Poi ho scoperto che alcuni dicevano prossemica per indicare una regola simile. In realtà la parola prossemica , esclamata con vigore e a volte velata impazienza, suonava quasi come un’aggressione se qualcuno stava impallando (altro termine tecnico teatrale usato spesso per dire “mi stai coprendo, così non mi vede nessuno”) il compagno o pestandogli i piedi… allora al richiamo prossemica ci si riposizionava in maniera equidistante nello spazio.
Col tempo ho scoperto che la prossemica è una vera e propria disciplina, una scienza che studia l’uso che fanno le persone della distanza. La prossemica è quella branca della psicologia che studia i comportamenti spaziali, ovvero il modo in cui ci collochiamo nello spazio e regoliamo le nostre distanze rispetto agli altri e all’ambiente.
Il primo studioso a fare ricerche estensive in questo ambito è stato l’antropologo E.T. Hall il quale, al termine della seconda guerra mondiale, venne incaricato di studiare come riavvicinare le culture “nemiche” tedesca e giapponese a quella degli Stati Uniti, così che la successiva cooperazione per la ricostruzione procedesse con maggiore collaborazione e senza incomprensioni.
Come tipicamente avviene in qualsiasi comportamento non verbale, nella grande maggioranza dei casi noi non scegliamo consapevolmente a che distanza stare dagli altri, o in che punto metterci in un gruppo. Tutto avviene in modo inconsapevole, spontaneo, veloce e fluido.
“Fra le tante cose che parlano di noi c’è anche il modo in cui ci collochiamo nello spazio e regoliamo le nostre distanze rispetto agli altri e all’ambiente. Queste distanze non hanno solo la funzione di proteggerci, ma ci permettono anche di comunicare. Il nostro spazio personale rivela infatti la nostra posizione sociale, il nostro sesso, la nostra personalità, il tipo di relazione che stiamo intrattenendo o desideriamo intrattenere, il nostro grado di soddisfazione, insoddisfazione, disagio”
Possiamo dire che, in generale, le distanze si accorciano fra persone che si somigliano, per un aspetto o per un altro. Per esempio, le distanze fra individui di età simile sono minori di quelle che si stabiliscono fra individui di età diverse. Lo stesso avviene fra persone che hanno lo stesso status sociale, economico, culturale, ecc.
Non tutti, comunque, manteniamo le stesse distanze a parità d’età e di sesso. Le ricerche hanno dimostrato che anche i fattori di personalità giocano un ruolo importante. Individui ansiosi o introversi, ad esempio, mantengono distanze personali maggiori rispetto ad individui non ansiosi o estroversi. Coloro che hanno un’alta autostima, tendono a rapportarsi con gli altri a minore distanza rispetto a persone che hanno una bassa autostima.
Un discorso a parte, però, merita il livello di attrazione reciproca. Se fra una femminuccia e un maschietto c’è una reciproca attrazione, e i due interagiscono, di solito, piano piano e progressivamente, le distanze…si accorciano. In alcune ricerche si è voluto vedere se questo sia dovuto prevalentemente alla femmina, al maschio, oppure ad entrambi. Questi studi suggeriscono che in casi del genere l’avvicinamento è da attribuire ad una strategia messa in atto principalmente, indovinate un po’ (rullo di tamburi), dalla femmina.
Ebbene si. Dobbiamo sempre fare tutto noi, si sa!
Si potrebbe continuare a fare miliardi di esempi su quanto si possa capire di una persona in base al suo modo di rapportarsi con lo spazio, ma chiunque abbia l’abitudine di osservare attentamente il mondo che ci circonda, avrà già avuto modo di sperimentare quanto detto. È divertente, provateci.
Quindi osservare è un buon inizio per provare a capire le persone e come relazionarsi agli altri. Persone e personaggi.
E in un attimo torniamo a teatro e rianimiamo questo termine: prossemica. Entrare in un personaggio timido, introverso, quasi timoroso di ciò che lo circonda, significherà non solo modificare la voce rendendola tremante e flebile, porterà a tenere le braccia chiuse a proteggersi e quasi a nascondersi, abbastanza lontano da ciò di cui si ha timore ma non abbastanza da attirare l’attenzione.
Prendiamo ad esempio un autore che faceva largo uso di didascalie nelle sue opere: Pirandello e precisamente i cari Sei Personaggi in cerca d’autore. Quando entrano in scena e il nostro meticoloso Luigi li descrive non lascia nulla di intentato. Per esempio, la Madre, e cito: “sarà come atterrita e schiacciata da un peso intollerabile di vergogna e d’avvilimento. Velata da un fitto crespo vedovile […] mostrerà un viso non patito, ma come di cera, e terrà sempre gli occhi bassi..”
Ora sappiamo tutti di che personaggio stiamo parlando, e un attore che interpreterà la Madre saprà come vestirne i panni anche grazie alla prossemica suggerita dall’autore.
Lo so che alla fine dell’articolo viene da pensare “vabbè, ma dai si sa”, e in effetti è giusto. Continui ad avere la sensazione di non aver imparato niente di nuovo, che hai solo dato un nome ad una cosa che sapevi già, che hai solo scoperto che si fanno studi su cose “ovvie”. In effetti è giusto. La psicologia ti fa sentire un po’ come quando scopri che qualcuno ha brevettato “Tergicristalli per occhiali da vista pratici e leggeri” prima di te. Qualcuno lo ha pensato prima di te, qualcuno l’ha scritto, e tu no! Per questo motivo molti dicono che la psicologia sia finzione, esattamente come il teatro!
da Michela Ventre | 29 Gen 2017 | Uncategorized
Definiamo ‘psicologia’ la scienza che studia il comportamento dell’uomo e col termine comportamento riassumiamo tutte le reazioni obiettivamente osservabili, cioè l’insieme dei fenomeni che possono essere osservati in un individuo, i quali comprendono non solo gesti e parole, ma anche l’espressione delle reazioni individuali e la loro interpretazione.
Attore: interprete di una azione, persona che prende parte attivamente in una vicenda, colui che studia e indossa il personaggio da portare in scena.
Il teatro.. è il mezzo di cui si serve l’attore!
Ci troviamo, dunque, di fronte ad un sillogismo.
Se l’attore è colui che, in teatro, interpreta ed esprime tramite l’azione, e se la psicologia è la scienza che studia il comportamento, si potrebbe concludere che la psicologia studia l’attore.. che studia un personaggio.
“Se il teatro è rappresentazione, è la vita ad essere messa in scena”.
Molte attività creative e artistiche rappresentano per l’uomo sia l’opportunità di conoscere e comunicare le proprie emozioni permettendone l’ espressione, sia l’ occasione di riprodurre la realtà, o il proprio modo di vederla; consentono di sperimentare aspetti di sé stessi, appagando in molti casi il desiderio comune ad ogni persona di lasciare un segno, essere ricordato, ma soprattutto essere capito.
Il teatro dunque nasce dalla ricerca di un linguaggio, dalla curiosità di sapere, dal desiderio di “farsi sentire, e far sentire”.
Come può non venire in mente che quanto appena detto sta alla base di quella che ora definiamo la scienza del pensiero, che prima di diventare scienza, consisteva nel primitivo bisogno di porsi domande?
Si pensi in primo luogo a Grotowski, Brook, Barba, che negli anni ’60 hanno dato vita a nuovi laboratori teatrali intesi, per la prima volta, come “setting di ricerca e sperimentazione” in cui l’attore non lavora più sul prodotto, ma sul processo. Oppure a Stanislavskij che ha suggerito l’importanza del processo d’identificazione, estremamente complesso e necessario nel lavoro di formazione dell’attore, il ‘calarsi totalmente nella parte’, individuare e riprodurre gesti, atti e piccole azioni che insieme delineano le peculiarità del personaggio.
“L’attore non diviene il personaggio che impersona, ma si avvicina con le proprie esperienze interiori alla parte, sperimentando parallelamente la realtà soggettiva e quella oggettiva”. (Valmori Bussi)
Restando sul tema dell’identificazione va citato Diderot, che ribalta la visione del maestro russo, sostenendo l’idea di un certo distacco tra l’attore e il suo personaggio con il quale si deve evitare una totale identificazione. Secondo Diderot, l’attore deve essere in grado di restare sufficientemente distante dal personaggio da non farsi sopraffare da emozioni reali che appartengono all’individuo dentro l’attore, e non al personaggio.
Dunque, l’espressione e la comunicazione delle emozioni sono aspetti centrali a teatro quanto in psicologia, e lo stesso vale anche per l’utilizzo del ruolo. A teatro usiamo questo termine per indicare il personaggio che andrà in scena: la possibilità di vestire i panni di un personaggio rappresenta un immaginario ponte tra l’identità (uno psicologo direbbe “l’IO”) dell’attore e quella della persona in scena. Gli psicologi colgono un’interpretazione del termine ruolo come opportunità di scoperta di aspetti del proprio sé non quotidiani. Vi sono infatti, in ogni individuo, tratti del proprio essere non ancora consapevoli, o rifiutati dalla propria coscienza, che però possono essere scoperti e vissuti grazie alla maschera imposta dal personaggio, una “dimensione sicura” che consente di mettere da parte la propria linea di condotta, lasciandosi andare alla guida di ‘quello che farebbe il personaggio’.
A questo proposito, quei ruoli che risultano socialmente non accettati, possono rappresentare aspetti della personalità, o tratti nascosti, che probabilmente ognuno di noi possiede e che vengono esteriorizzati, esasperati e portati in scena. In questo modo un attore può sperimentare emozioni nuove, scegliendo in un certo senso quelle più giuste da trattenere nella propria “immagine di sé”.
“Recitare la parte di qualcuno permette di andare oltre i limiti usuali della propria immagine” (Edward De Bono).
Anche nel contesto scientifico si ricorre spesso alla metafora del teatro.
Freud primo fra tutti a parlare di psicoanalisi, si ispira ai miti ed alle tragedie greche. Il Complesso di Edipo, o il complesso di Electra ne sono un esempio.
Nel campo delle neuroscienze, le due realtà condividono alcuni processi psicofisiologici fondamentali come l’atteggiamento, la personalità, la postura, la voce ed il gesto, la comunicazione e il linguaggio, l’espressione dell’emozione.
In psicologia sociale, il termine ruolo, mutuato dal teatro, riferito all’azione che ci si aspetta da colui che occupa una determinata posizione sociale, ha incoraggiato e stimolato molti psicologi ad indagare su “il sé in un modo sociale”. Il più famoso esperimento condotto a riguardo, è quello effettuato da Zimbardo nell’istituto Carcerario di Stanford, con il quale lo psicologo statunitense voleva dimostrare che “ciò che inizia come la consapevole rappresentazione di un ruolo, nel teatro della vita, viene gradualmente assorbito nella percezione del sè: l’assunzione di un ruolo diventa quindi realtà, l’irreale può insidiosamente trasformarsi in reale”.
Tra i molteplici metodi applicati in Psicoterapia, la Dramma Terapia, nata a cavallo degli anni ’70 e ’80, consiste in un approccio interdisciplinare che ha come obiettivo quello di incoraggiare, potenziare la creatività e le abilità espressive delle persone tramite l’impiego di strutture teatrali e processi drammatici. Viene utilizzata come efficace strumento di comprensione e alleviamento di disagi sociali e psicologici.
Molto simile è il concetto di psicodramma fondato dallo psichiatra Levi Moreno, il quale fondò il “teatro della spontaneità” in cui veniva messa in scena la realtà senza che vi fossero prove precedenti alla rappresentazione; il pubblico era chiamato ad intervenire attivamente. Da questa esperienza nacque lo psicodramma, una forma di “azione terapeutica” che consiste in una terapia di gruppo in cui i partecipanti si esprimono spontaneamente.
Il Role-playing, utilizzato come metodologia di lavoro di gruppo finalizzato a scopi non direttamente terapeutici, prende spunto dallo psicodramma. Infatti si tratta di uno strumento di formazione e preparazione di capacità di tipo professionale che prevede l’assunzione di un ruolo da parte di una o più persone, protagonisti di una vera e propria recita che mira a rappresentare una scena simile a quella che può verificarsi in azienda oppure tra professionista e cliente. Questa tecnica favorisce l’osservazione, l’imitazione, l’empatia e l’analisi, ma soprattutto incoraggia alla consapevolezza dei propri atteggiamenti, palesando sentimenti e vissuti legati alla situazione creata e permettendo agli psicologi di perfezionare le proprie tecniche e le proprie modalità di interazione.
Ancora si potrebbero citare la tecnica della sedia vuota, che viene utilizzata maggiormente dagli psicologi Gestaltisti; l’antica scienza della fisiognomica, in continua evoluzione da Aristotele ai giorni nostri; il modello psicofisiologico dell’emozione, o le teorie classiche delle emozioni partendo dall’etologia darwiniana ed altri spunti di cui parleremo in questo blog nei prossimi articoli.
Dunque le due entità che abbiamo esaminato non sono poi così lontane, tutt’altro, si influenzano a vicenda.
Teatro e psicologia sono a mio parere due realtà che coesistono nell’attore così come nello spettatore, dopotutto parliamo di mente e corpo, di pensieri ed emozioni,e di tutto ciò che ci permette di sentirci vivi.
FONTI E COLLEGAMENTI
Ruggieri, V. “L’esperienza teatrale: inquadramento psicofisiologico.” (1996): 22-29.
Ruggieri, V. “L’identità tra Psicologia e Teatro.”,( 2007).
Ruggieri, V. “Mente Corpo Malattia. Il Pensiero Scientifico”, Roma, (1988).
Valmori Bussi, C. “Drammaterapia e psicodramma” in Artiterapie 2-3, (2003).
De Bono, E. “Sette cappelli per pensare.”, (1997): 24.
Diderot, D. “Il paradosso sull’attore.” (trad. A. Moneta), Rizzoli (B.U.R.), Milano, (1960).
Stanislavskij, S.C.” Il lavoro dell’attore” (trad. E. Povoledo), Laterza, Bari, (1985).
Caroli, F. “Storia della fisiognomica: arte e psicologia da Leonardo a Freud”. Leonardo, (1995).
Myers D.G., “Psicologia Sociale”, McGraw-Hill, (2008).
Quaglino, G. P., Casagrande S., Castellano, A. “Gruppo di lavoro, lavoro di gruppo.” Raffaello Cortina Editore, Milano (1992).
http://www.sapere.it/sapere/strumenti/studiafacile/psicologia-pedagogia/Psicologia
http://www.psicologialavoro.it
http://www.psicologico.eu/teatro.html