Intervista a Pier Lorenzo Pisano, vincitore del Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli”

Intervista a Pier Lorenzo Pisano, vincitore del Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli”

Intervistiamo il drammaturgo Pier Lorenzo Pisano: nato a Napoli, studia a Venezia, laureandosi in Conservazione dei Beni Culturali. Intraprende un percorso attoriale specializzandosi presso la Guildhall School Of Music and Drama (Londra). Comincia a lavorare come attore e assistente alla regia per cinema e teatro, e come montatore in vari progetti tra cui il documentario Torn – Strappati, vincitore di un Nastro d’Argento e presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Completa la sua formazione diplomandosi come regista cinematografico presso il Centro Sperimentale di Roma (scuola nazionale di cinema). Il suo cortometraggio di esordio Così in terra, è stato selezionato in concorso al Festival di Cannes 2018. Parallelamente si dedica alla scrittura ottenendo riscontri nei maggiori premi italiani di drammaturgia e sceneggiatura, tra cui il Premio Hystrio 2016 con Fratelli, il Premio Riccione-Tondelli nel 2017 con Per il tuo bene e il Premio Solinas 2018.

Per il tuo bene ha debuttato in Italia a gennaio presso il teatro delle Passioni di Modena e presso l’Arena del sole di Bologna con la regia dell’autore. È stato rappresentato, in traduzione francese, presso il Théâtre Ouvert (Parigi). La versione francese è stata inoltre presentata in apertura del Festival di Avignone 2018, nel programma “Forum des Nouvelles Écritures Dramatiques Européennes”.

Qual è stato il primo incontro con il teatro?

Da piccolo non stavo mai fermo, i miei mi spedivano ai corsi di teatro per stancarmi. Ricordo la prima volta che sono stato dietro le quinte: ho scoperto tutto quel mondo nascosto, enorme e polveroso che sono i camerini, i corridoi…un labirinto da esplorare. Più che per il corso in sé, andavo lì per il fascino di quel posto. Ho fatto anche qualche laboratorio al liceo, cose ignobili, ma molto divertenti. L’incontro con il vero teatro però è stato a Venezia. C’è questo teatrino minuscolo, l’Avogaria, che da fuori non sembra nemmeno un teatro; è un palazzo normale con una piccola porta che dà su un campo. Poi quando entri scopri un palco con file di sedie, tutto in miniatura. Ho iniziato lì, come attore.
L’incontro con la drammaturgia è stato successivo. Ho sempre scritto molto, anche se non per il teatro. La prima volta forse avevo buttato giù un piccolo testo per un bando, non ricordo bene, e poi ho continuato. Sceglievo dei bandi e scrivevo. Non inviavo i testi; mi servivo delle scadenze per portare a termine la scrittura, come una sorta di allenamento.

Quali sono state le esperienze più proficue e importanti per la tua formazione di attore?

L’esperienza attoriale più significativa l’ho avuta a Firenze. Ho seguito un seminario di un mese con Anatolij Vasiliev, sperimentando il suo metodo degli étude. Semplificando tantissimo: si lavora sulle situazioni emotive e sulle strutture di potere, sostituendo le immagini del testo con immagini personali. Il risultato è che quando provi la scena rivivi davvero il percorso del personaggio, ed ogni volta che la ripeti, succede di nuovo. Non c’è recitazione. Alla fine, quando ritorni al testo vero e proprio, la scena funziona perchè ormai la dinamica si è sedimentata.

Per quanto riguarda l’ambito drammaturgico ?

Ho un bellissimo ricordo dell’incontro con Michele Santeramo, a San Miniato. Ha un metodo creativo molto personale, ed è generoso. Ti dice: io faccio così, tu prendi quello che vuoi. Ricordo una frase che sintetizza molte cose, forse è sua o è rubata a sua volta: “Tutte le battute sono Scusa o Vaffanculo. Il resto è chiacchiericcio”. Ho scritto un dialogo di Fratelli che prende questo suggerimento alla lettera. Anche l’incontro con Mark Ravenhill è stato importante, perché mi ha spostato il fuoco ancora di più sulla famiglia, che era il tema di cui lui si interessava in quel periodo. C’è stato uno scambio molto forte con gli altri ragazzi del laboratorio, che venivano da ogni parte del mondo. Ogni famiglia ha delle regole diverse, eppure si dà per scontato che le proprie regole valgano per tutti. Ma una famiglia di Taiwan non funziona come una famiglia napoletana, anche se saltano fuori punti di contatto incredibili.

Perché hai scelto la famiglia come tema d’indagine sia in “Fratelli” sia in “Per il tuo bene”?

Mi ha sempre affascinato. Ogni grande narrazione è una storia di famiglia. Prendi tutta la mitologia greca, egiziana, indiana…Anche il cristianesimo: la storia di un figlio e di un padre lontano. Persino Star Wars non è nient’altro che questo: tre generazioni, di padre in figlio. È qualcosa da cui siamo irresistibilmente attratti. Ti racconto questa cosa: tempo fa ho avuto una discussione con mio padre e abbiamo litigato. Sul momento non mi era importato molto, ma quando sono tornato a casa mi sono accorto che mi tremavano le mani. È questa la forza della famiglia. Sono rapporti che ti spostano, che hanno un potere enorme su di te, che tu lo voglia o meno.

In questo senso come si pone la tua esperienza di vita rispetto all’ideazione drammaturgica di “Fratelli” e “Per il tuo bene” ?

Quando scrivo, scrivo di cose che mi bruciano. Butto giù la prima stesura in pochissimo tempo, come un flusso, perché sono temi, contesti e personaggi che mi toccano molto. Non è una scrittura autobiografica, non c’è la mia vita dentro, in nessuno dei testi ci sono cose che mi sono successe davvero. Ma sono dinamiche che conosco. E c’è sicuramente il mio punto di vista. Poi, comunque, rileggendomi capisco molte cose su di me. Capisco perché i personaggi dicono certe cose. Il testo mi fa un po’ da specchio.

Quale sono le affinità e quali le divergenze fra questi che possiamo considerare finora i tuoi testi più importanti?

Diciamo così: Fratelli è un testo drammatico e un tentativo di capire come sopravvivere al dolore – se si può. Per il tuo bene è un testo drammatico e un tentativo di capire come sopravvivere alla famiglia – se si può uscirne. Sono due angolazioni diverse, a partire dal tipo di scrittura. Fratelli si costituisce quasi interamente di monologhi, flussi di coscienza molto dilatati. Ogni monologo ha moltissime immagini con le quali i personaggi costruiscono il mondo della storia. Per il tuo bene è più tradizionale, ci sono luoghi definiti e la scrittura alterna i dialoghi a un tipo particolare di monologhi brevi, quasi delle dichiarazioni.
Poi, in Fratelli c’è un tempo diverso: il racconto si riavvolge all’indietro attraverso salti temporali, con un meccanismo di disvelamento sia della trama sia emotivo, anche se il flusso resta nel complesso abbastanza chiaro. E c’è un tipo di rapporto tra i fratelli molto stretto, in un certo senso involuto, post-apocalittico: sono chiusi nel loro microcosmo, e sentono il peso infinito di un’assenza.
In Per il tuo bene il tempo è lineare, ci sono più personaggi, e c’è un discorso che oltre a parlare di famiglia, approfondisce come la famiglia vede gli estranei e come ci si rapporta. Fratelli è più specifico; Per il tuo bene è più esaustivo. Fratelli è già esploso. Per il tuo bene è in punta di piedi, è tutto in bilico, potrebbe succedere qualunque cosa da un momento all’altro, ma non ancora.

Oltre a scrivere di teatro, ti occupi anche di cinema: come cambia il tuo modus operandi quando scrivi una sceneggiatura?

Banalmente, la differenza più grande è che la sceneggiatura racconta per immagini, mentre il teatro è scrittura di scena pura, con le dovute eccezioni. Poi, la sceneggiatura non è un prodotto finito, è uno strumento di lavoro concreto, che per questo richiede un’impaginazione molto precisa, ad esempio per effettuare lo spoglio. C’è anche una questione culturale: il testo teatrale può diventare qualcosa di sacro e intoccabile, e sono tutti gli altri a doverci girare intorno. La sceneggiatura invece continua a cambiare -per le mani del regista cinematografico o degli attori stessi- fino al giorno in cui non si gira la scena. Il vantaggio di scrivere per entrambi i media è che puoi provare ad unire il meglio dei due mondi. La forte scrittura di scena del teatro, dialoghi in cui anche se non si dice nulla emergono i rapporti e il conflitto, e il rigore descrittivo della sceneggiatura, che ti impedisce di essere troppo didascalico. Scrivere una bella sceneggiatura, comunque, in quanto testo da lavoro, non è sempre indicativo del risultato finale, richiede un regista bravo. Invece, nel caso della trasposizione cinematografica di un testo teatrale, ci sono mille esempi positivi: mi vengono in mente Killer Joe, o Carnage. Se la regia è buona, il testo fa un ulteriore salto, altrimenti mantiene comunque la sua efficace scrittura di scena.

Quali sono le sensazioni dopo aver ricevuto un premio prestigioso come il Premio Tondelli? Che ricordi hai della serata di premiazione e dell’incontro con alcuni fra i più importanti nomi del teatro italiano contemporaneo?

Pensare di essere nella stessa, ristretta lista, con gli altri autori che hanno ricevuto questo premio è incredibile. Sul palco Fausto Paravidino ed Emma Dante hanno letto l’inizio del testo. Dopo ho avuto occasione di parlare e confrontarmi con i giurati, tutte persone che stimo molto e di cui seguo il lavoro nei vari ambiti. È stato emozionante, e un bellissimo regalo.

Il Generale al Brancaccino di Roma. Intervista al drammaturgo Emanuele Aldrovandi

Il Generale al Brancaccino di Roma. Intervista al drammaturgo Emanuele Aldrovandi

In vista del debutto dell’8 e del 9 Marzo al Teatro Brancaccino in Roma de Il Generale diretto da Ciro Masella, con Giulia Eugeni, Eugenio Nocciolini e Ciro Masella, intervistiamo l’autore teatrale Emanuele Aldrovandi per analizzare le tematiche trattate nello spettacolo a partire dalle origini creative del testo scritto dal drammaturgo emiliano le cui parole ci offrono numerosi spunti di riflessione per ragionare secondo una prospettiva comparativa sugli sviluppi della drammaturgia contemporanea in Italia e in Europa.

Dopo essere stata vittima di numerosi attacchi terroristici, una potenza mondiale invade militarmente un piccolo stato considerato responsabile degli attentati, ma il generale che comanda la “missione di pace” si comporta, fin dal suo arrivo, in modo imprevisto: chiuso fra le quattro mura del suo ufficio impartisce al sottoposto ordini apparentemente contraddittori che in un parossismo di distruzione portano all’annientamento del suo stesso esercito. Qual è la genesi della drammaturgia “Il Generale” e qual è stato il processo creativo dall’inizio della stesura del testo fino alla messinscena?

L’opera è nata come prima bozza di scrittura nel 2010 quando frequentavo la Paolo Grassi come esercizio di un corso all’interno dell’Accademia. Ovviamente aveva una forma molto diversa rispetto al testo attuale perché negli anni l’ho riscritta e cambiata. Nel mezzo ha vinto alcuni premi e ha avuto qualche studio e mise en espace e questo mi ha dato l’occasione di cambiarla. Dopo era lì già codificata ed il fatto che Ciro Masella l’avesse letta e avesse voluto metterla in scena mi ha dato lo stimolo per chiudere il processo di scrittura.  

Parlando e confrontandomi con lui sono arrivato a una versione definitiva quindi in realtà è una scrittura che è andata avanti sei anni a partire dal suo nucleo originale del 2010 e cambiando alcune cose fino a quando ha debuttato. L’idea di questa storia, senza fare spoiler, nasce dalle vicende di un generale pacifista che sceglie di combattere la guerra con le stesse armi di chi fa la guerra. Questa idea mi è venuta nel 2002 quando, dopo gli attacchi dell’11 settembre e dopo le guerre americane in Afghanistan e in Iraq. Io ero in seconda liceo e sono andato coi miei compagni di classe a manifestare contro le guerre americane in una manifestazione pacifista.  

Durante la manifestazione hanno messo la canzone Contessa dei Modena City Ramblers che diceva: ”Ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra vogliamo vedervi finire sottoterra”. Tutti coloro che erano lì per manifestare per la pace hanno cantato vogliamo la guerra. Quindi ho pensato che per far smettere di uccidere chi uccide bisogna ucciderlo quindi per far smettere le guerre c’è bisogno di fare un’altra guerra e questo mi è rimasto in testa. Poi c’è stata l’occasione di scrivere questo testo che era nato come commedia ma poi ha preso un tema, come le migliori commedie da Molière in poi, molto profondo nonostante sia trattato in maniera molto divertente. Il tema è come ci si rapporta con ciò che vogliamo combattere, lo si combatte con le stesse armi o si combatte con con altre armi?  Quali armi? A livello tematico questo è il punto di partenza del testo.

Il Generale affronta alcuni temi centrali dell’attuale situazione internazionale, come il terrorismo, o il presunto “scontro di civiltà”, e racconta con linguaggio tragicomico il paradosso di un pacifista che sceglie di sconfiggere la violenza della guerra con una violenza ancora più cieca, estrema e radicale. Nello spettacolo “Il Generale” sono ravvisabili due piano tematici da una parte il potere che prospera sul servilismo ottuso – come scrive Matteo Brighenti – e dall’altra lo zelo cieco al potere dei sottoposti. Riconosci come valida questa chiave interpretativa?

In molti fanno notare l’aspetto dell’ottusità potere e del servilismo dei soldati: in effetti è questo il doppio piano perché se da un lato c’è un uomo che crede di essere illuminato e di aver avuto un’idea rivoluzionaria che fa del bene al mondo ma la mette in pratica in un modo delirante e in questo c’è anche il dramma di un personaggio che si crede buono e che pensa di fare una cosa giusta ma soffre molto per come vanno le cose. È un personaggio che credo abbia lo spessore tragico ma quello è molto merito di come l’ha reso Ciro, bravissimo a interpretare il generale.

Dall’altro canto c’è anche una linea tematica rispetto alle dinamiche di potere per cui come è possibile che un uomo che dà ordini di potere dica dalla prima scena di regalare i mezzi corazzati ai nemici e che mandi i suoi soldati a fare le missioni in cui è evidente che verranno uccisi. Il Generale riesce a convincere il tenente a dare questi ordini e i soldati ad andare a morire quindi l’altro piano che è parallelo a questo è sul potere e sull’ottusità dei sottoposti. Come se in cima alla piramide ci fosse una persona che dà ordini senza senso che portano alla morte dei sottoposti, in questo contesto la piramide stessa e la struttura gerarchica fa sì che le persone siano obbligate o convinte a seguire gli ordini e questa è una delle espressioni di come l’ottusità dei sudditi favorisca i sovrani sanguinari.

Penso che al giorno d’oggi sia un tema abbastanza attuale. Al Generale non interessa questa dinamica di potere né questo desiderio di esercitarlo ma lo utilizza per un fine che per lui è più alto: quindi c’è sia il dramma di un personaggio che cerca un fine più alto sia quella dinamica di potere che funziona perché gli altri la riconoscono.

Che rapporto professionale hai instaurato con Ciro Masella? Quali sono le impressioni rispetto al suo lavoro registico?

Il rapporto con Ciro è stato fondamentale perché il testo era il frutto di varie altre riscritture e quindi confrontandomi con lui sono riuscito a definirlo in maniera compiuta in questo senso è stato molto utile anche il confronto col suo sguardo registico.

Per quanto riguarda lo spettacoli sono soddisfattissimo e lo considero molto bello anche grazie agli altri due attori Giulia Eugeni e Eugenio Nocciolini. Ciro è stato bravissimo a livello interpretativo e credo che abbia diretto anche molto bene i due attori perché comunque ha una cifra molto chiara e molto specifica, coerente con sé stessa e con il testo e anche gli attori lo seguono nella sua scelta interpretativa e registica. Inoltre mi piace moltissimo la scenografia di Federico Biancalani che rende molto bene le atmosfere dello spettacolo.

Il rapporto è stato molto bello anche rispetto all’idea che ha avuto Ciro di come rendere il finale attraverso una scelta registica che considero molto poetica e molto suggestiva. Quando l’ho visto la prima volta ho pensato che fosse molto bello e che Ciro fosse stato molto bravo. Spero che lo spettacolo abbia l’occasione di girare tanto e che abbia lunga vita.

Parlando di drammaturgia, vorrei riflettere in particolare sulla tua figura di drammaturgo e sulla tua storia professionale segnata dalla vittoria nel 2013 del premio Tondelli indetto da Riccione teatro e più in generale capire i problemi attuali e le prospettive future della Drammaturgia contemporanea.

Per quanto riguarda me io sono contento di riuscire a fare l’autore teatrale, quando ho iniziato non era affatto scontato. Sicuramente il Premio Riccione è stato uno spartiacque perché mi ha dato la possibilità di farmi conoscere da più persone e anche il lavoro costante con la compagnia MaMiMò quando facevo l’accademia è stato molto importante perché mi hanno fatto lavorare prima che vincessi i premi e altri riconoscimenti e quindi è stato un modo per cominciare a fare teatro durante l’ultimo anno di Accademia, in modo tale da non essere mai in quel limbo tra formazione e lavoro.

Anche l’impegno e il sacrificio oltre alla fortuna sono fattori importanti. Quest’anno ho iniziato ad insegnare al primo anno della Paolo Grassi e la cosa che dico e che penso sia vera è che bisogna sempre impegnarsi. Io negli ultimi dieci anni non ho fatto altro se non dedicarmi al Teatro e alla scrittura. Sì, c’è la fortuna e l’occasione di vincere i premi ma anche la costanza del lavoro perché in realtà se vinci il premio sei per poco nell’occhio dell’attenzione delle persone.

Io ricorderò sempre ciò che mi ha detto Fausto Paravidino ridendo alle 23.55 duranta la serata finale della premiazione del premio Riccione: “Goditi questi cinque minuti in cui hai vinto il premio perché fra 5 minuti nessuno si ricorderà più niente delle cose che hai scritto” . In realtà Fausto è stato uno di quelli che mi ha più aiutato e supportato. Quello che mi ha detto è vero perché l’attenzione finisce dopo poco e quindi la cosa fondamentale è la costanza del lavoro. Io credo che sia importante cercare di scrivere cose belle che abbiano un’importanza per te. Io cerco di scrivere cose che abbiano importanza e valore per me e quindi se poi queste cose hanno anche un valore importante per gli altri è un bene perché l’obiettivo principale non è mai quello di fare questo lavoro a tutti i costi ma di fare cose che mi piacciono.

Se le cose che mi piacciono mi permettono di fare questo lavoro e piacciono anche agli altri bene quando questo non succederà più troverò altre strade. Non ci sono attaccato per forza con le unghie perché penso che questo attaccamento nel voler lavorare per forza porta la gente a fare delle cose brutte e penso che le cose brutte non fanno bene al teatro e a chi le fa. In questo momento i miei testi stanno cominciando ad andare all’estero e di questo sono contentissimo perché scrivo in italiano ma mi fa piacere in un certo senso essere un drammaturgo europeo legato a vari progetti che mi permettono di far girare i miei testi in tutta Europa. Spero che si possa continuare così.

Per quanto riguarda la drammaturgia, io credo che negli ultimi 10-15 anni, dopo la fine del Novecento, soprattutto in Italia, ci sia stato un abbandono della scrittura e della figura dell’autore in favore di strutture più partecipate. Forse solo il teatro inglese ha espresso autori di un certo calibro che hanno avuto un ruolo importante nella scena mondiale. In Italia c’è stato quasi un buco non tanto per la mancanza di autori bravi quanto per la mancanza di un desiderio sia delle politiche culturali sia del pubblico rispetto alla scrittura. Io credo che negli ultimi anni ci sia un interesse forte soprattutto nel pubblico e lo vedo nei miei lavori ma anche nei tanti lavori di drammaturgia contemporanea che ci sono in scena e credo che il pubblico abbia voglia e un desiderio di sentire nuove narrazioni e di sentirsi rappresentato, di vedere costruiti e ricostruiti in un teatro i conflitti, i dubbi, i problemi e le dinamiche del mondo. Anche gli organizzatori e chi produce teatro si sta rendendo conto di questa cosa e si sta adattando.

La cosa che però deve migliorare e che ogni volta dico perché per me è molto importante è da un lato il fatto che non si può continuare a mettere la drammaturgia contemporanea in rassegne a parte cioè io odio e non sopporto più e credo che sia sbagliato e offensivo continuare a mettere la drammaturgia in “altra scena” in “altre proposte off” ma deve essere allo stesso livello delle altre proposte artistiche a partire dalla grafica delle locandine, di come vengono costruiti gli abbonamenti e di come vengono pensate le stagioni dei teatri.

Perché il rischio è che il pubblico si convinca che questo sia qualcosa di altro rispetto al teatro, ed accade soprattutto in Provincia. Questo per fortuna non succede spesso nelle grandi città come Milano, Bologna o Roma in cui questa pratica è sdoganata però ci sono molti altri teatri in cui questa cosa è all’ordine del giorno. Anche nei teatri di provincia vorrei che ci fosse un classico di Shakespeare come tutti gli anni nel cartellone con accanto uno spettacolo di qualsiasi altro autore contemporaneo con la stessa dignità perché il pubblico deve avere la possibilità di essere nelle condizioni di scegliere se una cosa ha valore, non come una proposta di qualcosa che vale meno.

Sicuramente il sistema italiano è registico-centrico, quindi un autore per far mettere un testo in scena deve convincere un regista a lavorarci. In altri paesi come in Germania o in Inghilterra esistono dei comitati di lettura che scelgono testi e poi scelgono il regista giusto in base a quel testo e questo lo vedo infattibile nel breve periodo ma credo che a lungo andare questo si possa fare. In Italia gli unici comitati lettura sono quelli dei premi.

A livello produttivo mi auspico che nel prossimo futuro anche nei grossi teatri italiani ci siano comitati di lettura come nel Royal Court o nei teatri tedeschi a cui arrivano cento testi li leggono tutti e ne scelgono uno e poi decidono di creare una produzione incentrata sul testo non come in Italia dove le produzioni vengono affidate al regista e poi lo stesso regista sceglie cosa fare o magari chiede al drammaturgo di scrivere un’opera di Shakespeare o di fare un’altra cosa. Secondo me ci vorrebbero entrambe le cose perché altrimenti si rischia che molta creatività dei drammaturghi venga persa nel momento in cui non si riesce ad andare in scena. Questo farebbe bene alla nuova drammaturgia ma anche al pubblico che si troverebbe di fronte a cose nuove.

Per approfondire —> Intervista a Ciro Masella a Radio Onda Rossa

Nell’ambito di Spazio del Racconto
rassegna di drammaturgia contemporanea 2017/2018 – III edizione

Teatro Brancaccino 8 – 9 marzo 2018

IL GENERALE

di Emanuele Aldrovandi
regia Ciro Masella
con Ciro Masella, Giulia Eugeni, Eugenio Nocciolini
scena Federico Biancalani
luci Henry Banzi
costumi Micol J. Medda/Federico Biancalani/Ciro Masella
suoni Angelo Benedetti cura di Julia Lomuto riprese Nadia Baldi

Segnalazione speciale per la nuova drammaturgia al Premio Calindri 2010
Testo vincitore del Premio Fersen alla drammaturgia 2013
Selezionato dal Teatro Stabile del Veneto per Racconti di guerra e di pace 2015

Autore e rappresentante di una nuova generazione teatrale. Intervista al drammaturgo Emanuele Aldrovandi

Autore e rappresentante di una nuova generazione teatrale. Intervista al drammaturgo Emanuele Aldrovandi

Di Emanuele Aldrovandi, emiliano classe 1985, possiamo senza dubbio asserire che sia uno fra gli autori più talentuosi nel panorama drammaturgico italiano under 35. Giovane certo, ma già con tanti testi pubblicati e premi vinti lungo il suo cursus honorum, fra cui ricordiamo il più importante riconoscimento italiano per la nuova drammaturgia il “Premio Riccione Pier Vittorio Tondelli”, conquistato nel 2013 con Homicide House.

Aldrovandi, rappresentante autorevole di una nuova generazione di drammaturghi sia per i temi sia per le forme drammaturgiche originali utilizzate, nel 2015 è finalista al “Premio Riccione” e al “Premio Scenario” con Scusate se non siamo morti in mare, al “Premio Testori” con Allarmi! e vince il “Premio Hystrio” con Farfalle. Sempre con Farfalle, nel 2016 vince il Mario Fratti Award. Fra le sue ultime opere citiamo Isabel GreenNessuna pietà per l’arbitro, Il Generale. I suoi testi sono pubblicati in Italia da CUE Press e sono tradotti in inglese, tedesco, francese e catalano.

Si occupa anche di insegnamento, tenendo da anni un corso di scrittura a Reggio Emilia con il Centro Teatrale MaMiMò e collaborando con vari enti di formazione fra cui Residenza Idra, Accademia Perduta e la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi.

Emanuele Aldrovandi

Emanuele Aldrovandi

Da dove parti per scrivere un testo?

Mi verrebbe da dire che ogni volta è diverso, ma dovendo trovare un filo conduttore credo che finora le idee siano quasi sempre nate da pensieri, problemi, paradossi, sentimenti o situazioni reali a cui non riuscivo a trovare una soluzione. L’invenzione di storie e personaggi mi serve per dare forma a qualcosa di complesso che non potrei esprimere in nessun altro modo e che, in un certo senso, scopro e approfondisco proprio attraverso quelle storie e quei personaggi. Questo vale anche quando lavoro su “commissione”, cerco sempre di essere sincero con i miei dubbi.

Come capisci di essere arrivato alla stesura definitiva?

Le dead-line. All’inizio erano le esercitazioni all’Accademia, poi le scadenze dei premi e dopo, quando i miei testi hanno cominciato a essere messi in scena, i debutti. Mi dicevo: “Lo puoi cambiare fino al giorno del debutto”. Poi però andavo alla prima e mi veniva voglia di spostare ancora una parola o invertire una frase. Ho dovuto metterci un limite. Le pubblicazioni e le traduzioni sono molto efficaci: quando vedo un testo pubblicato o tradotto in una lingua che non conosco mi dico “Ok, adesso non ci puoi fare più niente”.

Racconti storie fortemente connesse con il presente: credi che il teatro possa avere un impatto sulla società?

No. Almeno non in modo diretto e immediato. Perché il teatro non è più la “piazza” della nostra società. Gli spettacoli che vogliono “sensibilizzare”, “scandalizzare” o “muovere” infatti mi fanno sempre un po’ pena, perché in generale vengono visti quasi solamente da pubblico già sensibilizzato, già scandalizzato o già mosso e questo ovviamente non incide affatto sulla società, è solo un tipo di intrattenimento diverso da quello mainstream. Io però credo fortemente nell’impatto che l’arte drammatica può avere sul futuro, perché il teatro è uno dei pochi luoghi in cui le persone possono prendersi il tempo di andare in profondità di qualcosa.

E più la nostra vita diventerà un susseguirsi continuo di situazioni e stimoli parcellizzati, più sarà raro e cruciale riuscire a ritagliarsi degli spazi di profondità, in cui il contesto ti obbliga a lasciare il cellulare in tasca, a non parlare con nessuno e a immergerti in quello che sta succedendo. Per questo credo che il teatro continuerà a essere necessario.

Cosa vorresti che dicesse un tuo lettore o spettatore dopo aver letto o visto rappresentato un tuo testo?

Io vorrei che le persone uscissero arricchite nella complessità del ragionamento. Non perché “sanno più cose”, ma perché le hanno viste da punti di vista che non si aspettavano e questo le ha fatte pensare. Vorrei rompere le sinapsi incrostate che limitano il nostro modo di vedere la realtà e che ci portano a semplificare, a creare dicotomie e avere pregiudizi. Questo, rispondendo anche alla domanda di prima, non ha un impatto sul presente, ma può averlo sul futuro.

Come ti rapporti alle messe in scena dei tuoi testi? Segui le prove?

Soffro. Ma col tempo ho imparato a soffrire con distacco. Seguo le prove il meno possibile. Cerco di rispondere a tutte le domande che mi vengono fatte e che possono servire per la riuscita del lavoro, ma in generale credo sia giusto che l’autore faccia un atto di fiducia nei confronti del regista e degli attori. Poi in realtà ogni progetto è diverso per cui la vera risposta è: dipende.

Insegni drammaturgia alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi e al Centro Teatrale MaMiMò: come si insegna a scrivere? Ci sono delle regole imprescindibili per comporre un testo teatrale?

In campo artistico le regole servono solo per poter essere infrante. Però bisogna conoscere il materiale di cui è composta la cosa che si vuole infrangere, altrimenti si finisce nel ridicolo. Credo che il compito di una scuola sia offrire sguardi competenti e profondi che possano arricchire i percorsi degli allievi, ma ogni percorso è diverso e non c’è niente di imprescindibile.

Quali sono i tuoi drammaturghi contemporanei preferiti, italiani e stranieri?

Italiani Paravidino, Carnevali e Santeramo. Stranieri Mayorga. Se invece di “preferiti” (termine che obbliga a un sintesi) mi avessi chiesto quali sono quelli che “mi piacciono” avrei fatto un elenco molto più lungo: credo che la drammaturgia italiana stia vivendo un momento molto florido di cui forse ci si renderà conto compiutamente solo fra qualche anno.

 Se bruciassero tutti i libri del mondo e ne potessi salvare solo uno, quale sceglieresti?

I fratelli Karamazov.

Sei tra i giovani drammaturghi italiani più premiati. Secondo te cosa serve al teatro in questo momento?

Che la qualità conti più della quantità. Che i numeri siano il mezzo e non lo scopo. Che gli organizzatori siano al servizio degli artisti e non viceversa.

Prossimi progetti?

Andare a New York a maggio a vedere la produzione americana di Farfalle/Butterflies (sarà in scena per due settimane al The Tank Theater). Finire di scrivere un testo per la prossima stagione per Marco Plini che ogni tanto mi chiama minaccioso: “Allora, stai a lavorà a ‘sto testo o no?”. Ultima cosa, ma non in ordine di importanza: dedicarmi alla regia, sia a teatro (la prossima stagione metterò in scena Farfalle, sarà la mia prima regia), sia al cinema (ho appena finito di girare un cortometraggio e sto scrivendo una sceneggiatura per un lungo).