Una bottega di teatro e umanità. Intervista a Putéca Celidonia

Una bottega di teatro e umanità. Intervista a Putéca Celidonia

Putéca Celidonia è una giovane compagnia napoletana formata da ex-allievi della Scuola del Teatro Stabile di Napoli. La sua identità è composta da interventi di diverso tipo: da un lato l’intensa attività formativa in contesti non facili come il rione Sanità, l’istituto di detenzione giovanile di Nisida e il centro di accoglienza per migranti a Caserta. Dall’altro l’attività scenica della compagnia, con lo spettacolo Dall’altra parte. 2+2=? che ha debuttato al Napoli Teatro Festival e si è aggiudicato il Premio Giovani Realtà del Teatro

Nella nostra conversazione il drammaturgo e regista Emanuele D’Errico e gli attori Clara Bocchino e Dario Rea – a cui si aggiungono nella formazione della compagnia Marialuisa Diletta Bosso, Teresa Raiano, Umberto Salvato mostrano la profonda sincerità che anima il loro lavoro, al punto da scontrarsi con i tempi dettati dai meccanismi produttivi del teatro in Italia. L’urgenza di qualcosa di vero e forte da raccontare, nutrita dal calore delle strade napoletane, sta però ottenendo riconoscimento: Putéca Celidoniaha infatti vinto il premio ANCT, conferito dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro

Parlando dei rischi e delle difficoltà che un giovane gruppo si trova ad affrontare, D’Errico ci ha raccontato in modo semplice e potente l’obiettivo che stanno perseguendo: «ognuno di noi ha rinunciato alle attività da scritturato perché lavorare in autonomia ci rende felici».

Parliamo dei vostri laboratori. Che tipo di lavoro fate con i bambini del rione Sanità, con i ragazzi detenuti a Nisida e i migranti dello Sprar? Diversificate l’approccio o i principi sono gli stessi?

Dario Rea: Abbiamo iniziato con i bambini in Sanità in maniera del tutto spontanea. Il fratello di Emanuele, Davide D’Errico, è presidente della Onlus Opportunity che ha preso in gestione questi due locali confiscati alla camorra nel rione Sanità e si è offerta di mettercene a disposizione uno. Con questo rifugio ci siamo chiesti cosa potessimo restituire al quartiere e abbiamo iniziato semplicemente mettendo un cartello sulla porta con scritto “giovedì prossimo laboratorio di teatro per bambini”. 

La settimana dopo si è presentata la prima bambina, poi le iscrizioni sono aumentate sempre di più fino a doverle chiudere. Abbiamo iniziato soprattutto giocando, lavorando sulla coscienza dello spazio e delle proprie emozioni. Abbiamo trattato questi bambini come degli attori, con orari da prove, alla fine dell’anno abbiamo fatto con loro uno spettacolo grazie a Campania dei festival.

Clara Bocchino: Sono tre linguaggi differenti, senz’altro. Quello che utilizziamo con i bambini è molto diverso rispetto a quello che usiamo con i ragazzi e le ragazze a Nisida, dove va a nostro favore il fatto che non siamo troppo distanti di età. Proviamo a entrare nel loro “mood” per portarli nel nostro. È un discorso completamente diverso con i ragazzi dello Sprar di Caserta, considerando che lì la comprensione dell’italiano è limitata, poi con le mascherine non ne parliamo. Ma in quel caso è veramente uno scambio, anche noi stiamo imparando tanto da loro.

Emanuele D’Errico: Affrontiamo un tema scelto da noi in base alla situazione in cui ci troviamo. Le drammaturgie che vengono prodotte come risultato dei laboratori nascono dalla relazione tra noi e chi ci troviamo davanti. Nello spettacolo dei bambini, chiamato Non c’è differenza tra me e il mondo, ci sono tutta una serie di elementi che provengono da cose che i bambini stessi hanno inventato. 

Allo stesso modo, la drammaturgia su cui stiamo lavorando a Nisida si chiama Tappo’ Munno?, che significa “Tutto a posto mondo?”: tappo’ è una locuzione che i ragazzi utilizzano in continuazione. Lo spettacolo parte dal tema da noi proposto della cosmogonia, dopodiché ognuno di loro doveva inventare una storia su come il mondo è nato. Ne sono uscite alcune incredibili, ad esempio secondo una di queste il mondo sarebbe nato da una sfida tra bar nell’universo. Per loro è stata veramente una sorpresa recitare facendo semplicemente quello che fanno tutti i giorni ma mettendolo in forma, così da sublimare la loro quotidianità.

D.R.: Quando si lavora in situazioni come il carcere la tentazione è quella di far diventare tutto uno sfogo, di parlare della condizione in cui queste persone si trovano. Invece il lavoro che abbiamo fatto è stato quello di basarci sull’immaginazione e la fantasia, dando il messaggio per cui distaccandosi dalla propria storia personale si può essere qualsiasi cosa, in modo che potessero raccontarsi per come fossero in quel momento e non per il loro passato. 

Rimanendo sempre a Sanità, le immagini che ho visto del festival ‘A voce d’’o vico sono veramente belle, sembra esserci stato molto coinvolgimento e partecipazione. Ci raccontate di quella esperienza?

E.E.: È stato magico, sono accadute tante cose che non ci aspettavamo. Gli spazi nel quartiere sono minuscoli e ci siamo subito chiesti come potessimo far esibire i bambini. Abbiamo pensato ai balconi, in modo da portare il teatro nelle loro case…non il Netflix del teatro, ma il teatro del vicolo. Tutto questo peraltro prima della pandemia, siamo stati un po’ anticipatori sul simbolo dei balconi. Abbiamo deciso di affiancare ai bambini degli attori ed attrici riconosciuti e anche dei musicisti come Eugenio Bennato.

La cosa più bella è che gli abitanti del quartiere hanno vissuto il festival come se fosse la propria festa. Spontaneamente ci hanno aiutato a pulire la strada, ci hanno portato i dolci, ci hanno detto: «Adesso quando tornano ad esibirsi? Dobbiamo fare una colletta e farli tornare!». Dopo Settembre d’’o vico volevano ottobre d’’o vico, novembre d’’o vico… questo entusiasmo è stata la nostra soddisfazione più grande. Purtroppo quest’anno non siamo riusciti a farlo e ci è dispiaciuto tantissimo, soprattutto per loro.

Un’altra iniziativa che abbiamo fatto a Sanità, insieme alla onlus Opportunity, è stata “Il vicolo della cultura” installando delle piccole librerie a forma di edicole votive, è un book sharing a cielo aperto che finora tutti gli abitanti hanno rispettato, non ci sono stati furti o danneggiamenti. Anche in quel caso per l’inaugurazione abbiamo fatto delle recite dai balconi lungo tutta la via, chiedendo alle persone di entrare nelle loro case. ‘A voce d’’o vico ci ha permesso di guadagnarci la loro fiducia.

D.R.: Tutti gli artisti che hanno partecipato alla manifestazione, circa quattordici per cinque appuntamenti, lo hanno fatto gratuitamente. Eugenio Bennato, Maurizio Capone, Antonella Morea, Maldestro…hanno capito la bellezza di tutto questo, ma volendo riproporlo ci riesce difficile immaginarlo nuovamente senza un supporto economico, purtroppo non semplice da ottenere. Tra i progetti per il futuro ci piacerebbe portare il festival nei quartieri periferici delle altre città d’Italia.

Come vi siete attrezzati per l’emergenza covid? Avete portato avanti le attività?

C.B.: Purtroppo il laboratorio con i bambini abbiamo dovuto interromperlo, gli spazi non ci permettevano di portarlo avanti. Proviamo comunque a mantenere un contatto con loro, per quanto possibile. A Nisida e allo Sprar siamo riusciti ad andare avanti al netto di qualche breve interruzione.

D.R.: Questo periodo di parziale sospensione in realtà è stato per noi molto importante, ci siamo presi questo tempo per riorganizzarci al nostro interno e per discutere tra noi gli obiettivi della compagnia e le modalità per raggiungerli. Abbiamo riflettuto tanto sull’opportunità o meno di portare in scena il nostro spettacolo, Dall’altra parte. 2+2=?, con le restrizioni sul distanziamento.

E.E: Nel caso specifico di questo spettacolo abbiamo sviluppato un’intuizione che avevamo già, infatti la drammaturgia prevedeva tre gemelli nella pancia della mamma legati tra loro da una corda. Il distanziamento ci ha spinto a sperimentare sempre più a fondo cosa si potesse fare legati a questa corda, l’impedimento è diventato un’opportunità, ma in altri casi non lo avremmo portato in scena, non tutti gli spettacoli si possono adattare. Eravamo in stagione al Mercadante con un altro lavoro che è saltato e che è difficile immaginare nei prossimi tempi, perché prevede una scenografia di 2 metri per 2 con cinque attori all’interno.

Nei vostri piani futuri pensate di continuare a tenere insieme l’attività della compagnia e quella laboratoriale?

E.E: Noi immaginiamo la nostra attività divisa in tre parti: produzione, formazione e territorio. Sono tutte e tre strettamente legate, anzi vorremmo arricchire l’una con l’altra. L’anno prossimo lanceremo un corso di scenografia e realizzazione di costumi, sarebbe un sogno se in un bene confiscato alla camorra lavorassero delle persone per realizzare i costumi dei nostri spettacoli. Riusciamo a fare tutte e tre le cose perché per noi una prerogativa fondamentale è darci il tempo necessario

Dall’altra parte. 2+2=? è stato un viaggio di due anni. Abbiamo bisogno di un periodo abbastanza lungo per portare avanti un progetto nel modo giusto, certo poi sarebbe importante che lo spettacolo girasse e fosse visto anche in altre città. Il lavoro a cui ci stiamo dedicando ora necessiterà almeno di un anno e mezzo di preparazione.

Parte da Giorni felici di Beckett ma trasportato in un basso napoletano, con una coppia di anziani rinchiusi in casa. Vorremmo trasformare la sabbia di Beckett in una matassa di filo, anche perché in Sanità tutte le donne cuciono, da qui l’idea di legarlo al laboratorio che partirà. Io ho tradotto Giorni felici in napoletano, poi abbiamo bussato alle porte del quartiere e abbiamo fatto delle interviste che abbiamo inserito nel testo, oltre a una parte libera di scrittura.

D.R: Ci siamo resi conto che la nostra poetica nasce proprio dalla tripartizione delle nostre attività. I lavori partono da una necessità del territorio, diventano laboratori e poi produzioni. Il senso di quello che stiamo facendo è molto più grande di fare uno spettacolo e basta, c’è un mondo dietro e quindi ci prendiamo il tempo per raccontare tutto questo.

Può essere considerato strano che una compagnia giovane, nata da appena due anni, non voglia partecipare ad alcuni bandi ma noi pensiamo sarebbe importante dare vita ad un circuito di distribuzione virtuoso dove la priorità sia quello che si sta raccontando ed è impossibile che tutti i mesi si abbia qualcosa da dire. Per indagare veramente qualcosa c’è bisogno di tempo, che non corrisponde a quello della logica di produzione che c’è in Italia in questo momento.

E.E: È un po’ frustrante lavorare per due anni ad un progetto, vincere un premio, spendere dei soldi di tasca propria e poi non riuscire a distribuirlo. Anche nei teatri nazionali si investe magari mezzo milione per realizzare uno spettacolo che va in scena per due settimane e poi muore lì, abbiamo lavorato come attori in produzioni come queste e viene da chiedersi che senso abbia.

È un problema che stiamo affrontando anche nei vari tavoli di C.Re.S.Co (Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea) di cui facciamo parte, naturalmente non possiamo risolverlo noi, nel nostro piccolo proviamo a creare il nostro sistema ma certo la sostenibilità è difficile da ottenere. L’alternativa è tornare a fare gli scritturati ma sarebbe una frustrazione.

C.B: Vorrei che Putéca Celidonia, come anche tutte le altre compagnie del sud, girassero un po’ di più al nord. Quest’estate sono stata ad Urbino a Fai il tuo Teatro, la prima edizione di questo appuntamento bellissimo di formazione per compagnie e operatori. Ho avuto la prova tangibile che in Campania viviamo in un altro mondo rispetto ad alcune regioni. Credo e spero che il nostro lavoro possa spingere ad un cambiamento di questo sistema un po’ incancrenito che c’è qui da noi.