Il teatro e la drammaturgia secondo Massimo Odierna: da allievo di Ronconi ad autore, attore e docente del Teatro dell’Orologio

Il teatro e la drammaturgia secondo Massimo Odierna: da allievo di Ronconi ad autore, attore e docente del Teatro dell’Orologio

Il tre è un numero primo, oltre ad essere ricorrente nella cronologia d’autore di Massimo Odierna. Nella sua drammaturgia il teatro ha una dimensione triplice. C’è l’aspetto della follia creativa, nell’esplorazione e nella rappresentazione dei meccanismi sociali e comportamentali delle persone. È presente anche una percentuale di istrionismo e teatralità partenopea che unisce diversi elementi tra loro: si gioca con la capacità espressiva, con la musica, le emozioni e le suggestioni che creano una relazione tra palcoscenico e pubblico. C’è infine una predisposizione a sviluppare ambivalenze tra i generi e i colori dell’animo umano, le alternanze tra grottesco e drammatico, il cambio da vittima a carnefice all’interno dello stesso momento teatrale.

Il 2019 è stato l’anno di Signorotte. Un testo che originariamente superava il centinaio di pagine e che completa la trilogia del disagio insieme con Toy Boy (2016) e Posso lasciare il mio spazzolino da te? (2017). La scrittura e il teatro per Massimo Odierna sono anche un atto di disobbedienza, nell’ aggiungere qualcosa alla realtà. Soprattutto quando esiste un forte senso di frustrazione e insoddisfazione a causa di regole e codici troppo rigidi. Scrivere, andare in scena e formare nuove generazioni e nuovi talenti e complementare con l’urgenza artistica che muove ogni azione.

Massimo Odierna

Massimo Odierna

“Collaboro – dichiara – con la realtà della scuola del Teatro dell’Orologio, sono un docente di improvvisazione e scrittura creativa, con loro c’è un dialogo aperto”. Durante il nostro incontro è emersa la sua generosità e lo slancio nel ricordare tutti gli attori con cui ha condiviso la stagione teatrale: Vera Dragone, Luca Mascolo, Alessandro Meringolo, Vincenzo D’Amato, Alessandra Fallucchi, Sara Putignano Viviana Altieri, Martina Galletta, Luca Pastore ed Elisabetta Mandalari. Alcuni di questi fanno parte, insieme con lui, di Bluteatro, la compagnia di giovani attori professionisti Under 35, di cui Massimo Odierna è socio fondatore. Dopo aver condiviso con noi il racconto, i ricordi di un frammento di carriera e di vita da palcoscenico, ci affida un piccolo e ultimo frame personale: “Sono un fan delle atmosfere anni ‘80 e ’90 – confessa- un po’ tra Ritorno al futuro e i video di Michael Jackson. C’è un po’ di quell’eccesso, quasi trash, degli anni 80. Cerco sempre di inserire un passaggio musicale, quando posso, di fare quasi dei videoclip. Momenti in cui, in maniera bizzarra e leggera, all’improvviso si balla, anche il personaggio più cattivo, perché tutti devono avere la possibilità di poterlo fare. ”

Come racconteresti la tua drammaturgia sul disagio, le suggestioni e le esperienze dal punto di vista backstage?

Disalogy è un esperimento che include tre mie drammaturgie. Dal backstage posso dire che c’è stato un insieme di fiducia e di complicità, da parte mia e degli attori che hanno preso parte a questo progetto, e anche la voglia di scoprire dove ci avrebbero condotto quelle tre bizzarre composizioni. Solitamente io propongo un testo, lo condivido con gli attori e da quel momento in poi iniziamo a lavorarci insieme. Quasi tutti sono professionisti con cui collaboro da anni, compagni di Accademia che già conoscono la mia cifra, la mia “follia”. Durante le prove si aggiusta un po’ il tiro, si cambia qualche battuta, si ragiona in gruppo anche se io sono piuttosto esigente e ho ben chiaro dove voglio arrivare. Le prove si svolgono quasi sempre in maniera serena, leggera. È normale che ci siano dei momenti, come in qualsiasi lavoro, in cui ci si confronta e ci si scontra su diversi punti di vista, ma quella follia che spesso si ritrova durante gli spettacoli è la stessa che adottiamo durante le prove.

Questo significa lavorare bene divertendoci, con serietà e con quel pizzico di originalità che io cerco sempre di restituire agli attori e al lavoro di regia. Una volta scritta una drammaturgia non appartiene più all’autore. Il regista deve possedere la capacità di saper condurre gli attori in un luogo dove coesistono il tragico, il comico, l’assurdo, il bizzarro, l’intrattenimento. Dove c’è anche una cura abbastanza maniacale del lavoro sulla circostanza. Sono regista unicamente dei miei testi. Un “cre-attore”, mi definisco così, un attore che crea dei mondi che mette in scena, dando un senso a tutto questo.

Io scrivo in un modo abbastanza compulsivo. Quando inizio qualcosa cerco sempre di lasciarmi trasportare dalle mie visioni, dai dialoghi, dalle circostanze. Mi interessano quelle storie dove c’è una sorta di incoerenza, dove i personaggi sono diversi tra loro e, a causa di un disagio comune, si incontrano, si scontrano e vanno per le loro strade. Una volta finita la stesura della drammaturgia, il mio approccio al testo avviene, non dico come se fosse il lavoro di un altro, ma con il rispetto che bisogna avere nei confronti di ciò che è stato scritto. Cerco di staccarmene, di interrogarmi insieme agli attori. Quello che mi interessa maggiormente è come e se gli attori entrano in quel mondo da me immaginato, se si fidano e se rimangono affascinati, come lo sono stato io, al punto di voler continuare quel viaggio. Questo per me è forse il risultato più bello perché io ragiono da attore. So cosa vuol dire quando un regista ti fa entrare in un determinato mondo, quando ti mette in difficoltà.

Signorotte, a differenza degli altri due, è un testo nuovo. È nato con più di 100 pagine che sono state riviste insieme a tre amiche-colleghe con cui condividiamo da anni tante esperienze teatrali. Per unire il filo: se in Posso lasciare il mio spazzolino da te ci sono tre individui che, in un certo senso, si danno un addio, in Signorotte ci sono tre amiche che si ritrovano dopo tanti anni. Agli attori lascio carta bianca, mi piace che loro possano, insieme con me, diventare ognuno autore di se stesso.

I tre testi di Disalogy sono stati scritti in altrettanti momenti diversi della tua vita?

Nelle mie storie non c’è nulla di esclusivamente autobiografico. C’è però una parte del mio vissuto e del mio modo di essere, una certa spregiudicatezza nel vivere in maniera avventurosa la vita. Mi sono chiesto spesso: “Se le cose fossero andate così, cosa sarebbe potuto succedere?”.

C’è quindi un aspetto legato un po’ al mio percorso personale ma c’è anche la creatività che porta in altri mondi e direzioni. Questioni come il grande passo nell’iniziare una relazione, andare in profondità o restare in una zona di mezzo e continuare a giocare, sono situazioni che ho attraversato anche io, però non è tanto l’aspetto biografico a essere importante. Mi interessa capire se ci sono degli elementi, dei riferimenti comuni, in quello che scrivo, come la paura, la solitudine, la bellezza del caos, il piacere fine a se stesso, l’amicizia, gli scontri, vivere anche in maniera cruda i rapporti. Cercando sempre di evitare il taglio morale e di non lasciare alcun messaggio. In ogni personaggio metto sempre una ambivalenza che gli permette di essere vittima e carnefice di se stesso. Secondo me c’è una sorta di compromesso tra gli aspetti creativi e l’esperienza personale.

I fantasmi, le maschere sono i mostri che si agitano all’esterno o quelli che vivono all’interno di ognuno di noi sotto forma di piccole o grandi ossessioni?

Il mostro è ben definito, in maniera quasi da horror movie, in Posso lasciare il mio spazzolino da te? C’è una sorta di aspetto tragicomico dell’orrore, un corpo a sé, un personaggio che entra, spaventa ed esce di scena. Quasi una parodia dell’essere mostro. In Toy boy è presente un horror vacui che la protagonista femminile cita perché è la prima ad aver paura di questo vuoto dell’esistenza. In quello che scrivo ci deve essere sempre un’inquietudine latente, dove potrebbe succedere qualsiasi cosa in qualsiasi momento. così come accade nella vita reale. In quei momenti di folle lucidità i personaggi fanno cose al di sopra delle loro possibilità. Mi piace non dare coordinate precise senza classificare i personaggi. La cosa che più mi affascina è il gioco di contrasti tra forza e debolezza.

In una tua dichiarazione hai detto che bisogna continuare a raccontare e osare raccontando. Cosa è necessario fare per usare?

Bella domanda. Vorrei poter rispondere e lanciare anche un messaggio, ma non so cosa sia necessario. Per me, forse, è continuare a raccontare delle storie. Osare vuol dire cercare di seguire lucidamente la propria follia. Non intendo la sbadataggine o il caos fine a se stesso, ma la propria creatività. Che sia un racconto, un film o un quadro. Cercare di seguire sempre la propria idea, la propria urgenza di esserci, la necessità di dichiarare se stessi. Un continuo divenire creativo che orienta il lavoro individuale. Io per ora mi limito a raccontare delle storie, interpretandole quando posso. Se è richiesto, cerco di comunicare, di lasciare qualcosa agli allievi, quando mi occupo di formazione. Seguire senza insicurezza, senza timore, la propria lucida follia: in questo io mi ritrovo anche perché quando lo faccio mi sento vivo. Sento che sto dentro a quello che devo fare. Ognuno di noi se ne accorge quando vive appieno la propria centratura, quando fa quello che sa e che vuole fare. Si sviluppa energia, vitalità, creatività a prescindere dalle conseguenze, anzi, non si dovrebbe nemmeno pensare al risultato, ma al processo.

Lo scambio di emozioni e l’esperienza di formazione con i ragazzi della scuola del teatro dell’Orologio: cosa ha significato e cosa continua a significare per te?

Ai ragazzi di cui mi sono occupato per la loro formazione ho detto che posso raccontare e cercare di dare loro quello che io sono adesso. Comunicando in maniera sincera e sana. Quando questo arriva, ritorna sempre indietro qualcosa e molto di quella pura e creativa follia dei ragazzi. Questo mi piace perché è uno scambio che avviene attraverso diversi canali e livelli. Insegnare mi aiuta a migliorare come drammaturgo e scrivere mi serve per potenziare il mio essere attore.

Che cosa ha lasciato dentro di te l’esperienza con il maestro Ronconi?

Da un punto di vista umano e professionale quello è stato un incontro che mi ha aiutato a crescere e che rimarrà per sempre dentro di me. Questo vale per me come per gli altri miei colleghi che hanno avuto la fortuna di incontrarlo nella sua ultima fase e che forse è stata quella migliore da un punto di vista umano e artistico. Dopo l’Accademia trovarsi faccia a faccia con lui in un laboratorio, sperimentare il tipo di lavoro che faceva sul testo con gli attori, il modo di spendersi, di stravolgere anche il senso comune della recitazione è stata una formazione intensa. Il mio approccio con quel linguaggio è stato facile e l’ho fatto anche con una dose di ingenuità.

Quel primo laboratorio è stato molto fortunato, tra i partecipanti il Maestro ha individuato me, Fabrizio Falco, Sara Putignano, Lucrezia Guidoni, un gruppo con cui ha voluto portare avanti e sviluppare successivamente I Sei Personaggi in cerca d’Autore. Adesso, più di prima, mi rendo conto meglio della lezione che ho ricevuto. Incontrarlo al Centro Teatrale Santacristina, essere scelto da lui come protagonista di un suo spettacolo, ha cambiato anche il mio approccio al lavoro. Il suo esempio è stata la mia lezione: la maniacalità quasi ossessiva, la generosità di un uomo che aveva problemi di salute, ma nonostante tutto era lui che sosteneva noi in classe con un’energia incredibile. Non potrò mai dimenticare la sua capacità di tenere duro, di dialogare anche con l’ultimo arrivato nello stesso modo e con la stessa attenzione con cui lo faceva con i personaggi famosi. Anche da chi aveva solo una battuta pretendeva il massimo e quando si arrabbiava desideravi stare dall’altra parte del mondo. Io però sono stato fortunato perché c’è sempre stata una grande stima reciproca.

Quattro sono stati i laboratori con lui. Al Santacristina, insieme ad altri attori, ho vissuto quel mondo, le lezioni con lui, la devozione totale nei confronti del nostro mestiere. Ronconi è stato un uomo, un Maestro che stava dentro al discorso teatrale e restituiva tutta quella energia. È stato anche una specie di padre, di guida con tutto l’amore e la passione che spendeva soprattutto nel suo centro teatrale. Lì si poteva concedere il lusso di darsi del tempo, stava in un luogo protetto senza lo stress della macchina che doveva andare avanti. Si cenava con lui, a volte stava e partecipava anche agli scherzi che facevamo tra di noi. Il debutto a Spoleto con Ronconi è stato un periodo di grande stress, ma quell’esperienza non la cambierei con nessun altra. Li ho capito l’integrità e il rigore di una personalità complessa che ha consegnato a me e ad altri del mio gruppo un bene dal valore incommensurabile. Sono quegli incontri fortunati che non decidi tu quando si manifestano e, forse per questo, sono tra i più belli che possano accadere perché ci si incontra a metà strada.

Febbraio d’ossessioni e dipendenze. La gelosia, l’amore e gli istinti da Shakespeare agli anni ‘70

Febbraio d’ossessioni e dipendenze. La gelosia, l’amore e gli istinti da Shakespeare agli anni ‘70

Con un salto indietro nel passato, raccontando le storie di re, regine e cortigiani, i destini segnati dagli oracoli del dio Apollo, le stragi degli anni di piombo, le cellule terroristiche, i rapimenti di persona, lo sfondo nero dell’omicidio di Pasolini, si possono descrivere e interpretare il presente e l’attualità. Altrimenti si può rimanere tra le storie dei giorni nostri, in mezzo alle inquietudini di ragazzi quasi adulti.

M.C. Escher

M.C. Escher

Da sempre l’uomo si è chiesto il senso di un eterno fluire, di una cronologia che potrebbe sembrare un insieme casuale di eventi, tra i decenni e i secoli. È uno studio continuo, una lezione: tutto ha un inizio e una fine. Questo vale per le cose, le persone, gli animali. La vita inizia e termina, il resto è solo transitorio. José Mujica scrisse che: “La vita è questo, un minuto e se ne va. Abbiamo a disposizione l’eternità per non essere e solo un minuto per essere”.

Un concetto simile lo aveva espresso William Shakespeare, molto tempo prima dell’ex Presidente dell’Uruguay, nel celebre monologo di Amleto. Il racconto d’inverno di Shakespeare, andato in scena al Teatro India dal 7 al 10 febbraio, con la Compagnia dei Giovani del Teatro dell’Umbria, è una delle sue opere più complesse dal punto di vista narrativo, fa parte delle cosiddette “Romances”.

Scritta intorno al 1610, debuttò il 15 maggio 1611 al Lobe Theatre di Londra. Rappresenta l’ultima fase della produzione shakespeariana insieme a Pericle, Cimbellino e La Tempesta. Gli studiosi del Bardo ascrivono The winter’s tale – Il racconto d’inverno a un “tardo romanticismo” ma forse l’uomo, non il celebre drammaturgo di Stratford-upon-Avon, era sofferente. Shakespeare aveva pianto la morte del figlio Hamnet, avvenuta a soli 11 anni e questo è difficile non sentirlo vibrare ancora oggi.

Andrea Baracco ha curato l’allestimento, insieme a Maria Teresa Berardelli, e ha firmato la regia dell’opera che egli stesso definisce come una “favola nera” che inizia con “C’era una volta un uomo che abitava vicino a un cimitero”.

La storia ha per protagonista Leonte, re di Sicilia, grande amico del re di Boemia Polissene. Due fratelli, senza legame di sangue, definiti “agnelli gemelli”. Un’ossessione cieca, la gelosia, li dividerà per sempre. Sospettando una relazione tra l’amico e la moglie, la regina Ermione, Leonte distruggerà tutto ciò che ha di più caro. Perderà la moglie, vittima di un ingiusto processo e a nulla servirà il coraggioso appello della dama Paulina. La sposa innocente morirà in prigione, dopo aver partorito la loro figlia Perdita, la quale, ritenuta dal padre sovrano come il frutto di un adulterio, verrà scacciata, abbandonata nei boschi.

Morirà Mamilio, il figlio maschio, l’erede. La bambina si salverà e si innamorerà di Florizel, figlio di Polissene. L’epilogo avverrà in Sicilia tra melodramma e magia. Ermione, conservata come statua viene riportata in vita da Paulina, custode della sua memoria, si ricongiungerà con la figlia e il marito. Il peso dello spettacolo si regge su un gruppo coeso di attori: Mariasofia Alleva, Luisa Borini, Edoardo Chiabolotti, Jacopo Costantini, Carlo Dalla Costa, Giorgia Filippucci, Silvio Impegnoso, Daphne Morelli, Ludovico Röhl.

IL RACCONTO D’INVERNO di William Shakespeare, regia di Andrea Baracco

IL RACCONTO D’INVERNO di William Shakespeare, regia di Andrea Baracco

12 baci sono lunghi come 12 mesi, un anno immaginato e vissuto tra il 1974 e il 1975

Il tempo e gli eventi possono usurare gli affetti, le passioni, le relazioni. In un gorgo di sentimenti non sempre limpidi. È sempre possibile redimersi, rimediare ai propri errori, alla brutalità, anche quando non c’è rimedio? C’erano due fratelli, il loro legame era di sangue in questo caso. Vivevano in provincia, a Napoli, città che un tempo fu la capitale del Regno delle Due Sicilie. Erano gli anni ’70, periodo di disordini, di conflitti sociali e politici. Il 14 novembre 1974, il Corriere della sera pubblicava l’editoriale con il titolo “Che cos’è questo golpe?”. Un forte j’accuse, scritto da Pier Paolo Pasolini quel testo convergerà in Scritti corsari, pubblicato successivamente nel 1975

12 baci sulla bocca è lo spettacolo scritto da Mario Gelardi, con la regia di Giuseppe Miale di Mauro. È il secondo appuntamento, dopo “Gli Onesti Della Banda”, che il Teatro di Roma ha riservato alla Compagnia NEST di Napoli al Teatro India. Massimo (Andrea Vellotti) sta per prendere in sposa l’unica donna che ha avuto nella sua vita. Dovrebbe essere felice, invece sembra non esserci conforto al suo malessere interiore. Suo fratello Antonio (Stefano Meglio) è un uomo che sa stare in quel mondo, con un ruolo a metà tra il giustiziere e il criminale, un picchiatore fascista.

Tra i due fratelli si inserisce Emilio (Francesco Di Leva). Un giovane lavapiatti con l’obiettivo di essere promosso in sala, in quel ristorante a conduzione familiare, e il sogno di andare a vivere a Londra. La sua “colpa”, se così potrebbe definirsi, è di aver fatto emergere una passione latente, quella di Massimo nei suoi confronti. La loro è inizialmente un’attrazione fisica, una lotta erotica.

Successivamente inizia a diventare qualcosa di diverso, che è intrinsecamente eversivo, un atto rivoluzionario contro l’ordine eterosessuale e patriarcale. Andrà punito con la stessa condanna barbara che verrà emessa contro Pasolini. Un atto di verità il sentimento di Emilio, cancellato con il suo sangue, perché nessuno osi turbare gli equilibri di una società. E di due fratelli maschi che hanno fin dalla nascita il vincolo precostituito alla riproduzione della specie. L’amore può avere una forte connotazione politica quando implica il coraggio di una scelta, tra sapere e tacere, essere e non essere. L’emancipazione dalla sottomissione e dalla dipendenza.

E quel sangue deve essere mostrato ed esibito. È una traccia di memoria, una prova del delitto e di un candore che è andato perso. Di un silenzio che è complice e carnefice. C’è il dramma in 12 baci sulla bocca, passa attraverso la violenza, così come avviene nella fabbrica shakespeariana. C’è il senso della tragedia dell’animo umano, in una battuta finale di 12 baci sulla bocca: “Tutti tenimm’ dint’ nu mariuolo, nu fetente” (Teniamo tutti una carogna, un fetente dentro).

12 baci sulla bocca

12 baci sulla bocca

L’Operazione – lo spettacolo da vedere per forza!

C’è un gruppo, anzi, un collettivo di quattro attori di oggi. È come se vivessero e si ispirassero agli anni ’70. Quello scantinato dove provano e si confrontano, quello spazio sotterraneo è come se fosse una bolla spazio-temporale. Uno di loro è l’autore del testo che porteranno in scena e che ha come protagonisti una cellula di terroristi negli anni di piombo, ma c’è un’altra storia che si sviluppa parallelamente.

In scena fino al 3 marzo allo Spazio Diamante di Roma, lo spettacolo L’Operazione è stato scritto da Rosario Lisma ( potete ascoltare qui l’intervista radiofonica a Clusteradio ) il quale lo interpreta con Fabrizio Lombardo, Andrea Narsi, Alessio Piazza e con la partecipazione di Gianni Quillico. La produzione è a cura del Teatro Franco Parenti, con la collaborazione di Jacovacci e Busacca.

Parla di quel lavoro che gli uomini non nobilitano, soprattutto quando le tutele vengono a mancare. Racconta di quanta incertezza ci sia in un paese come l’Italia, dove “si è giovani finché non si svolta”. Anche fino ai quarant’anni. “E se non si è svoltato, si passa dall’essere giovani all’essere falliti”, come recitano i protagonisti in scena. Intrappolati nella morsa di un precariato permanente, in un sistema che non è fondato sulla meritocrazia. Dove gli attori dipendono dal giudizio di un critico teatrale che può determinare, con il suo potere, la felicità o l’oblio, la buona o la cattiva sorte. Una figura quella di Mezzasala che viene continuamente evocata e ricercata in modo ossessivo dai quattro personaggi-attori.

La riflessione contenuta tra i quadri de L’Operazione è un approfondimento, un’analisi, senza la presunzione dell’assolutezza, sulla tendenza a ricercare nuove forme espressive. Una corsa a volte audace, a volte sregolata. Sperimentare e reinventare l’arte rischia di trasformarsi così in un’ossessione. E tra una frenesia e l’altra, una celebre citazione di Eduardo De Filippo: “Chi cerca lo stile trova la morte, chi cerca la vita trova lo stile”, finisce nei dialoghi dei quattro protagonisti.

Alla fine della storia cercheranno di trasformarsi in brigatisti, nel disperato tentativo di recuperare un po’ di dignità, ma il loro atto finale durerà il tempo di un’improvvisazione teatrale. C’è bisogno di tanto carattere, non solo di studio dei personaggi, sembra che suggerisca questo Rosario Lisma, come autore del testo e come regista, affinché possa essere messo in atto fino in fondo un progetto sovvertitore dell’ordine delle cose. L’Operazione parla molto di questi nostri tempi in cui l’assuefazione è forte al punto che tutto sembra iniziare e finire nello stesso momento, come una storia di Instagram.

L'Operazione di Rosario Lisma

L’Operazione di Rosario Lisma

“Posso lasciare il mio spazzolino da te?”

È ancora la vita, con le sue difficoltà e con le sue due metà di tragedia e commedia che ispira l’ultima proposta teatrale che abbiamo inserito nel nostro piccolo racconto di febbraio. Il suo titolo è un riflesso di una quotidianità, mediante una semplice domanda che contiene una richiesta sottintesa. Di quelle che una ragazza qualunque può rivolgere al suo fidanzato: “Posso lasciare il mio spazzolino da te?”. In altri termini significa: possiamo dare una svolta al nostro rapporto?

Massimo Odierna è l’autore del testo Posso lasciare il mio spazzolino da te? e il regista dello spettacolo che dal 18 al 20 febbraio è andato in scena al Teatro de’ Servi di Roma e al Nuovo Teatro Sanità di Napoli, dal 23 al 24 febbraio. Il cast che ha interpretato quella che viene definita come una “black comedy” è costituito da Martina Galletta, Luca Mascolo, Alessandro Meringolo e Luca Pastore.

Tre ragazzi sono i protagonisti: “Lei”, una ragazza in cerca della giusta occasione come attrice che costringe “Lui” , il suo fidanzato un po’ succube, a giocare alle storie inventate da “Lei”. C’è anche “L’amico” cinico, il coinquilino che abusa di alcool e sostanze di vario genere. Storie di insoddisfazione, di frustrazione e di inquietudine. C’è, infine, una quarta presenza, la figura inquietante dello speziale. Il medico della peste, con il becco di uccello e un lungo pastrano nero, appare e svanisce di tanto in tanto. Quella maschera è come un segnale di pericolo che quando si accende indica un’istanza nascosta.

Bisogna correre il rischio, osare, è il messaggio che ci lascia Massimo Odierna. È necessario continuare a raccontare, a condividere le storie, i nostri sogni.

Posso lasciare il mio spazzolino da te?

Posso lasciare il mio spazzolino da te?

E allora ecco che tutta l’eternità che spendiamo per “non essere” davanti a un breve, intenso minuto di “essere” comporta la scelta tra vivere da morti o morire da vivi. Raymond Chandler ne “Il grande sonno” si chiede:

“Che importa dove si giace quando si è morti? In fondo a uno stagno melmoso o in un mausoleo di marmo alla sommità di una collina? (…) Si dorme il grande sonno senza preoccuparsi di essere morti male, di essere caduti nel letame”.