Il Colloquio di Collettivo lunAzione prende ispirazione dal sistema di ammissione ai colloqui periodici con i detenuti presso il carcere di Poggioreale a Napoli. Tre donne, tra tanti altri in coda, attendono stancamente l’inizio degli incontri con i detenuti: le tre portano oggetti da recapitare all’interno, una di loro è incinta: in maniera differente desiderano l’accesso al luogo che per ognuna custodisce un legame. Siamo andati ad assistere il 16 dicembre 2021 allo spettacolo, nel suo debutto milanese presso il Teatro PimOff. Successivamente, ci siamo intrattenuti per una chiacchierata sul racconto di come è nata la compagnia e come si è arrivati alla creazione di quest’opera, in cui gli autori si sono innamorati di queste vite dimezzate, ancorate all’abisso, disposte lungo una linea di confine spaziale e sociale, costantemente protese verso un aldilà doloroso e ingombrante da un lato e, per contro, una vita altra – sognata, necessaria, negata. Proponiamo quindi questa intervista multimediale, framezzando la forma scritta con degli interventi video.
Come si conoscono Eduardo Di Pietro, Mario Cangiano, Alessandro Errico, Marco Montecatino, Cecilia Lupoli, Federica Del Gaudio e Martina Di Leva?
Eduardo Di Pietro: Collettivo lunAzione è una compagnia nata a fine 2013 da un gruppo di amici, conosciuti tra loro al laboratorio teatrale Elicantropo di Napoli. Nel corso del tempo abbiamo imparato a lavorare insieme e trovato dei metodi per equilibrare il gruppo. Dagli inizi, all’interno dell’amministrazione di compagnia, oltre a me c’erano Cecilia, Martina e Giulia Esposito che sono principalmente attrici, poi si sono aggiunti diversi membri, tra cui Federica come costumista. A seconda dei progetti che abbiamo la necessità di sviluppare coinvolgiamo dei collaboratori. Persone con cui innanzitutto ci troviamo umanamente bene, che è uno degli obiettivi che nel corso del tempo ci siamo prefissati. Cerchiamo un punto di incontro tra le necessità artistiche e quelle di convivenza professionale. Con gli altri membri ci siamo incontrati in diversi contesti, in realtà ci conoscevamo professionalmente tutti da tempo, precedentemente al Colloquio. Abbiamo coinvolto prima Renato Bisogni e poi Mario perché serviva una tipologia di interprete per il progetto che io ancora non conoscevo.
Dalla Campania all’Emilia Romagna. Da Napoli a Faenza. Cosa lega Collettivo lunAzione al Teatro Due Mondi?
EDP:L’impronta del nostro lavoro è fortemente radicata nel nostro territorio, o almeno lo è stato fino ad oggi. L’esperienza al Teatro Due Mondi è strettamente correlata a una residenza artistica che è nata a seguito del premio Scenario. Dovevamo sviluppare lo spettacolo nella sua forma completa per il debutto che sarebbe poi venuto a seguire, e da lì è nata un’amicizia. È stata un’esperienza bellissima in uno spazio ideale per lavorare alla creazione scenica. È accaduto un che di sorprendente: riuscire ad approfondire un lavoro in una maniera così intensiva e soddisfacente. Speriamo ci possano essere tante altre occasioni di questo tipo.
Marco Montecatino: L’attore è pur sempre mercenario: dove arriva la chiamata interessante lui risponde. Le esperienze hanno portato bene o male tutti quanti noi anche fuori Campania. Ad esempio mi sono incontrato con Mario a Genova, nonostante fossimo di Napoli entrambi.
Mario Cangiano: La famosa valigia dell’attore! Si è sempre con la valigia in mano pronti a girare. Quando capita di lavorare nella tua città è sempre più bello, però quando poi vai via e la città la porti tu stesso fuori ti dà la spinta per andare in scena ancora con più entusiasmo.
Come si muovono le giovani compagnie campane sul territorio?
Perché il teatro è “in orbita” secondo lunAzione?
EDP: Il sottotitolo è nato per chiarire il nostro ambito d’azione. Il nostro nome rischiava di poter essere interpretato in maniera aleatoria: volevamo chiarire innanzitutto che facessimo teatro, e che il tutto fosse correlato a lunAzione, in orbita come qualcosa che ci fa sognare, viaggiare. Come la Luna influenza la terra, anche noi contiamo di avere una ricaduta, una conseguenza nel lavoro che portiamo agli altri. Stiamo anche pensando di occuparci dell’ambito scientifico, visto che il nome ha il suo effetto collaterale!
Come nasce il testo de Il Colloquio? Unica mente o collettiva?
EDP: Il testo nasce da un’idea di base molto vaga, una situazione teatrale che chiaramente si ispirava alla questione dell’accesso settimanale al carcere. Quindi ho proposto poi agli attori di lavorare insieme. Portavamo delle proposte in larga parte condivise.
Alessandro Errico: Con il materiale raccolto con le sole improvvisazioni potremmo fare altri due spettacoli, altri due Colloqui! Alcune improvvisazioni sono durate anche tre ore, quindi di materiale ce n’era. Ovviamente è stata fatta una cernita in base a quello che si reputava più interessante e utile al raggiungimento del messaggio. Questo lavoro di sbobinamento di ore e ore di girato sono stati a carico di Eduardo e Cecilia. Poi ci sono state anche le interviste, e anche da lì è nato del materiale drammatrugico. Alcune espressioni, alcuni modi di dire ci sono stati proprio regalati da queste signore, che ci hanno raccontato queste storie tragiche, a volte in un modo assolutamente comico che ti strappava una risata. Questa cifra peculiare del Colloquio deriva non solo da uno stile della compagnia, ma anche da un’esperienza diretta d’incontro con queste donne.
Il Colloquio è il vostro primo approccio alle problematiche sociali contemporanee?
Nello spettacolo si gioca sul rapporto – e sull’assenza – di maschile e femminile. Quanto c’è di maschile e femminile in Pina, Annarella e Maria Assunta?
EDP: È una questione affascinante perché è squisitamente teatrale. Aver messo il seme dell’interpretazione femminile da parte di uomini, senza che sia possibile anche lontanamente immaginare che sia qualcosa di nuovo, ha dispiegato tutta una serie di possibilità che sono fiorite. Il fatto che, ad un certo punto, un uomo che interpreta una donna possa poi interpretare un uomo è un salto mortale richiesto all’immaginazione dello spettatore che non si poteva pensare inizialmente. Il tutto è partito dal non creare una base di mimesi rispetto alla storia che stavamo raccontando. Proponevo agli attori un lavoro di ribaltamento. Queste donne che nella vita reale hanno una forza tale da poter competere con quella stereotipicamente maschile, che devono compensare in famiglia l’assenza di un partner e fungere da entrambi i genitori, in contesti dove i ruoli di genere sono stabiliti e le madri devono procacciare il sostentamento economico perché l’uomo non c’è, è in carcere. In maniera dichiarata in scena degli uomini interpretano delle donne, senza orpelli o esagerazioni, cercando di dribblare il pericolo della macchietta e gioco fine a se stesso, cercando di rendere significante questa esplorazione. Poi si sono aperti degli scenari anche interpretativi: ovvero questi uomini sono forse la proiezione dei detenuti che sono la ragion d’essere di questi personaggi. L’assenza più ingombrante della più scontata presenza.
Qual è stata la vostra ricerca nel lavoro fisico sui personaggi?
Alessandro Anglani, laureato in Informatica e Comunicazione Digitale presso l’Università di Bari nel 2014, e diplomato presso la Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna nel 2017. Nella sua formazione, ha unito le conoscenze nell’ambito del corpo in scena con l’identità digitale, arrivando a sviluppare alcuni progetti al Watermill Center di New York gestito da Robert Wilson, quale il workshop “Let ‘em feel your presence”. Si specializza autorialmente in Drammaturgia, Algoritmi e Ipermedia in Italia e all’estero. I suoi progetti di performance interattiva sono arrivati nel 2019 e 2020 semifinalisti alla Biennale College Teatro per registi under 30: “Eliogabalo – l’Anarchico incoronato” e “Montecchi e Capuleti”. Attualmente è impegnato nella promozione del proprio progetto di drammaturgie ipertestuali e nello sviluppo delle proprie performance digitali. Inoltre, offre i propri servizi come web designer e digital PR.
Immaginiamo che due immarcescibili personaggi shakespeariani siano condotti, dalla mano di due creatrici contemporanee senza scrupoli, al desolato universo di Samuel Beckett. Cosa potrebbe succedere? Che strana metamorfosi subirebbero i loro nitidi profili, i loro brillanti discorsi, le loro tragedie, il loro destino? Nella loro nuova e indefinita dimora – uno spazio beckettiano – galleggia un’atmosfera comica e crepuscolare, che sfuma qualsiasi pretesa di nobiltà o di eroismo. Questo spazio impregna tutto di un umorismo che corrode le mura dei castelli e ammuffisce i più splendidi vestiti, trasformando le loro gesta in un cantico clownesco e assurdo.
Le due donne (i personaggi, non le autrici) hanno trasformato i loro pomposi soliloqui in una specie di dialogo “unisonico” e mancato; forse hanno accettato che le risposte non arriveranno mai? Hanno, chissà, portato al limite la massima assoluta dell’attuale società dell’immunizzazione, cancellando la presenza dell’Altro? Ma che domande difficili! E loro non sono interessate a rispondere, hanno altro da fare. Cosa? Cercano un assassino. Cospirano con il pubblico. Scappano da un temibile Padre e da antichi fantasmi. Insegnano a uccidere il nemico, a capire le strategie del loro enigmatico autore e fanno un bel balletto. Fanno ridere!
Lei Lear è uno spettacolo cacofonico, un volo ribelle e spiritoso su alcuni elementi della narrativa di Re Lear, dal punto di vista delle sorelle malvage, Goneril e Reagan, all’interno di una cornice beckettiana e clownesca. Un gioco scenico ibrido, contemporaneo – e qui, la loro tragedia, che sommata al tempo è sempre uguale a commedia, è proprio quella del trovarsi, oggi, in un luogo strano e, chissà, senza futuro.
Lei Lear è lo spettacolo vincitore del Premio PimOff per il teatro contemporaneo 2021.
Muchas Gracias Teatro, fondata da Chiara Fenizi e Julieta Marocco nel 2018, nasce da un lungo e eterogeneo percorso teatrale realizzato dalle artiste sul territorio europeo e sudamericano. Mick Barnfather (Inghilterra), Philippe Gaulier (Francia), Jeremy James e Gilbert Bosch (Spagna), Inês Marocco e Elcio Rossini (Brasile), Alfonso Santagata e André Casaca (Italia) sono alcuni dei riferimenti artistici che, dopo anni di collaborazione, hanno influito sul carattere eccentrico di questa compagnia internazionale. Tra la comicità classica e la sperimentazione contemporanea, Muchas Gracias crea e produce spettacoli che partono sempre da una ricerca sulle potenzialità creative, drammaturgiche e sovversive delle figure teatrali comiche, e sulla forza della comicità come mediatrice tra il performer e lo spettatore. Alle sue fondatrici, due donne simpatiche e un po’ esibizioniste, che si dedicano al teatro dall’inizio del secolo, piacciono le frasi ad effetto e le domande trascendentali, come: “la risata è un’efficace termometro dei sintomi sociali”; “il palco, il crocevia ideale per l’esplorazione dei paradossi contemporanei”; “la platea, il perfetto ricettacolo di scoperte inaspettate e necessarie” e per concludere: “ma, che cosa stiamo facendo?!”. Forte, no? Per arrivare a queste conclusioni e rispondere a queste difficili domande, oltre alla loro ricerca, continuano a collaborare con artisti di diverse provenienze, e a portare i loro spettacoli originali sulle infinite perplessità contemporanee in giro per i festival e i teatri italiani, spagnoli e sudamericani. E c’è chi ci crede! Tant’è vero che diversi teatri e istituzioni hanno deciso di collaborare e di sostenere il loro lavoro: Iberescena (Programa Iberamericano per le Arti Performative), FUNARTE (Fundazione Nazionale per le Arti – Brasile), Ministero da Cultura do Brasil, Segreteria da Cultura e do Desenvolvimento (Porto Alegre, Brasile), Teatro Umbral (Arequipa, Peru), Le Murate PAC (Firenze), ARCI Firenze, Centro Civico Drassanes (Barcellona), Ajuntament de Barcelona (Spagna), Teatro Kaddish (Barcellona), Teatro PimOFF (Italia). Le vere fondamenta del loro lavoro è l’incondizionato Credo nella bellezza dell’essere Umano.
Il Teatro C’art Comic Education con la direzione artistica di André Casaca, ha una tradizione quindicennale sul teatro fisico e la comicità non verbale. La sua concezione artistica e pedagogica, ha consentito in questi anni, la nascita e lo sviluppo di percorsi di ricerca e formazione artistica radicate nella decostruzione della gestualità ordinaria e prevedibile e nella affermazione di un’identità gestuale, lontana dalla rappresentazione. Infatti la compagnia trova nell’Identificazione il fulcro del suo lavoro comico corporeo. Le produzioni del Teatro C’art sono state replicate in festival e teatri d’Italia, Svizzera, Germania, Francia, Portogallo, Palestina, Israele, Turchia, Etiopia, Capo Verde e Brasile.
Ornella Rosato è giornalista, autrice e progettista. Direttrice editoriale della testata giornalistica Theatron 2.0. Conduce corsi formativi di giornalismo culturale presso università, accademie, istituti scolastici e festival. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di progetti volti alla promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
Per indagare lo stato del teatro contemporaneo e offrire processi di cura e di sostegno, il PimOff, per il secondo anno consecutivo, ha indetto un Premio che giungerà al suo esito finale il 23 ottobre. L’eterogeneità delle proposte presentate e selezionate è segno di un’attività fervente, non arenatasi a seguito delle difficoltà che hanno investito il settore dello spettacolo dal vivo negli scorsi mesi.
“Il teatro è ancora vivo”, si grida dalle tastiere e nei foyer, una vivacità che, però, non va rintracciata nella sola — ci si augura sempre maggiore — presenza in sala ma anche e soprattutto nella sperimentazione. La ricerca, croce e delizia dell’arte, richiede tempo, quello che PimOff intende fornire per consentire uno sviluppo creativo sganciato dalle vorticose dinamiche distributive. Proprio qui risiede l’alto valore del Premio PimOff, ideato da una realtà composta da professioniste attente ai processi di crescita dei progetti in concorso e del teatro tutto.
Ne abbiamo parlato con Alessandro Paschitto della compagnia Ctrl+Alt+Canc, regista di Mastroianni e con Julieta Marocco e Chiara Fenizi di Muchas Gracias Teatro/Teatro C’Art, attrici e autrici di Lei Lear, due progetti dalla struttura originale che, attraverso la bizzarrìa, addomesticano il presente.
Mastroianni
Ctrl+Alt+Canc
Come si è avviato il percorso di compagnia di Ctrl+Alt+Canc? Vi è già una riconoscibilità stilistica che caratterizza le vostre produzioni? In questo senso, quali sono i vostri riferimenti?
La compagnia è composta da me, Francesco Roccasecca e Raimonda Maraviglia.Ctrl+Alt+Canc è la sequenza di tasti che si digita disperatamente quando non sa più che fare davanti a un pc malfunzionante, soprattutto se non si è a proprio agio con l’informatica. Ci è sembrato che avesse un significato intuitivo, che fosse un modo immediato e diretto per “contattare un tema”, pur consapevoli di non possedere lo strumento più adeguato. Il percorso è partito con il progetto Opera didascalica con cui debuttiamo a novembre al Teatro di Napoli.
I nostri lavori sono caratterizzati dalla sottrazione della forma: rinunciamo ai meccanismi classici della drammaturgia e della messa in scena ovvero la continuità psicologica, la trama e il personaggio. Cerchiamo di ridurre al massimo le strutture presenti e di lavorare nel qui e ora, sulla presenza e sulla specificità del performer. Non fornendoci appigli, siamo continuamente costretti ad aggrapparci a qualcosa e questa è la ragione drammaturgica che porta avanti il progetto. «Non potendo aggrapparci a niente, ci aggrappiamo alla caduta».
Mastroianni è la performance-concerto che presenterete al Premio PimOff, un progetto che dal divismo cinematografico vira verso una riflessione sulla contemporaneità. Intorno a quali temi ritieni sia urgente accendere o ri-accendere il dibattito? Su cosa riflette Mastroianni?
Cosa importa agli spettatori di ciò che facciamo? Come possiamo entrarci in contatto? Questo è il macro-tema all’interno del quale per me ogni tema è lecito. Dobbiamo lavorare su qualcosa che riguardi in maniera profonda e inattesa chi viene a vedere uno spettacolo teatrale. Un altro macro-tema su cui urge interrogarsi è la forma, non solo quella testuale o registica ma proprio la forma di interlocuzione, quella forma di relazione tra il performer e lo spettatore. Potremmo chiamarla la “cornice comunicativa” o in altri mille modi ancora ma resta il ventaglio di modalità con le quali si comunica con qualcuno. In questo senso Mastroianni parte da un’impossibilità molto concreta: è davvero difficile riuscire a capire attorialmente e performativamente come realizzarlo, c’è un piccolo bug per cui non si riesce a catturarlo. Questo bug, analizzato sempre più da vicino, ci porta lontani da Mastroianni che non è più solo una figura dell’immaginario, un attore, il volto sullo schermo che tutti conosciamo ma un fenomeno, qualcosa che ci abita e che si scompone, una sorta di virus, con un’estensione metastatica che scopriamo abitare tutte le cose.
Tutto è infettato da questa cosa che ha ereditato il nome Mastroianni ma che si è completamente svuotata del suo significato: Mastroianni è tutto quello che non va all’interno di tutte le cose del mondo. La cosa interessante a cui arriviamo è che non siamo noi ad andare alla ricerca di Mastroianni ma siamo gli strumenti attraverso cui Mastroianni si manifesta. Scopriamo che non solo noi non siamo più noi, ma che siamo un’estensione di Mastroianni e questa cosa ci piace, ci fa comodo. Questo è l’altro aspetto interessante: non è solo la rinuncia di qualcosa che non va ma scoprire che siamo noi la cosa che non va.
In questo lavoro è molto forte la compresenza di linguaggi: dalla musica alla performance fino alle video-installazioni. Come avete strutturato questa ibridazione? I plurimi linguaggi utilizzati sono stati mezzo con cui tradurre in scena il piano ideativo dello spettacolo, o piuttosto elementi sorgivi del processo creativo?
La scrittura è stata la sorgente principale. Utilizziamo diversi linguaggi manon c’è la volontà di comunicare delle coseattraverso questo passaggio di testimone, quanto piuttosto di creare un “guazzabuglio” di immagini e musica: lo spettacolo inizia come una conversazionenel qui e ora tra noi e gli spettatori e man mano è come se marcisse. In questo caso, infatti, la commistione dei linguaggi non è una cosa che chiarifica ma che sporca la comunicazione. Intendiamo di fatti indagare come, attraverso il linguaggio, non si crei un mondo altro o una realtà diversa di rappresentazione, ma come si faccia emergere nella realtà scenica qualcosa di diverso. Attraverso il linguaggio la realtà stessa che stiamo abitando in quel momento si deforma e rivela valori inaspettati. Ci interessa più far emergere la realtà presente anziché fingere una seconda realtà a cui noi abbiamo sempre avuto difficoltà a credere. Abbiamo bisogno di sentire che stiamo parlando di cose vere e riconoscibili a cui chiunque può accedere.
Diverse realtà italiane stanno apprezzando il tuo percorso artistico. Il Premio PimOff è un’attenzione rinnovata verso la tua arte. Che tipo di sviluppo stimolerebbe la vittoria di questo premio?
Ci regala la risorsa più importante in assoluto: il tempo e, insieme, la sostenibilità di quel tempo. Sostenere un lavoro teatrale in questo periodo significa attingere a qualunque risorsa temporale e materiale, costruire uno spazio in cui non chiudere il prodotto velocemente ma metterlo in crisi e aprire delle domande. Ci piacerebbe porci una domanda e conservare la possibilità di non rispondere subito, per prendere un tempo di sedimentazione dentro di noi. Questo tempo consente al lavoro di diventare un frutto maturo uscendo dalla logica e dall’ansia prestazionale che in alcuni casi è sicuramente efficace perché può aiutare a dare il meglio, ma in altri significa non approfondire davvero la soluzione.
Oltre alla tutela di uno spazio protetto dal punto di vista del finanziamento, della risorsa e del tempo, c’è la possibilità di un seguito. Al posto di questo vecchio mito dei “contatti” ci sono degli interlocutori con cui condividere la volontà di continuare insieme un percorso. Abbiamo bisogno di incontrare lo staff del Pim Off perché vogliamo capire cosa vedono nel nostro lavoro e abbiamo voglia di incontrare la loro realtà. Successivamente, possiamo proseguire in qualche modo e andare fino in fondo a un certo tipo di percorso: quando questo capita il pubblico si sente infinitamente contattato.
LeiLear
Muchas Gracias Teatro / Teatro C’Art
Come è avvenuta la scelta di collaborare con Teatro C’Art? Come hanno trovato una sintesi le vostre modalità compositive?
Julieta Marocco: Abbiamo conosciuto André Casaca durante un laboratorio da lui condotto e a noi interessava avere uno sguardo “clownesco” sul nostro lavoro – che di per sé ha una carica clownesca importante – nato da una collaborazione con Alfonso Santagata. Abbiamo creato tre personaggi in un contesto noir da cui spesso partiamo per dirigerci verso una comicità naïf legata all’improvvisazione, al contatto con il pubblico e all’assurdo. Eravamo sicure che avremmo trovato la forma scenica più adeguata anche grazie al supporto di André. Ci siamo trovati subito bene nonostante le diverse modalità di lavoro completandoci a vicenda. È stato un bell’incontro perché ci ha fatto crescere e lavorare in modo naturale, fluido e nel rispetto del materiale che avevamo già.
Durante la finale del Premio PimOff presenterete lo spettacolo Lei Lear, l’ultima parte di una trilogia di spettacoli di creazione denominata “Trittico Urbano”. Mi parlereste di questa trilogia? Perché Lei Lear ne è l’epilogo?
J.M: La trilogia è una produzione internazionale, soprattutto per il mio essere fortemente radicata in Brasile e in Spagna. La trilogia nasce da un’attenzione alle differenze tra lo sguardo pubblico e privato. Io provengo da una realtà in cui lo spazio è molto differenziato rispetto a quella europea: ciò che è pubblico fa parte di un universo completamente distante da ciò che è privato. L’idea di indagare il senso della condivisione è cambiata nel tempo ma è sempre rimasta nel nostro lavoro, tornando con forza nell’ultimo anno e mezzo.
Chiara Fenizi: Volevamo finire questa trilogia con la volontà di lavorare su uno spazio virtuale. Abbiamo una modalità di lavoro poco predefinita, ci piace iniziare dalla forma dei personaggi o dalla suggestione di un’immagine o di un luogo; le nostre decisioni vengono assieme alla ricerca poi, a un certo punto, emerge una particolarità tematica che mette fine al lavoro. Ci facciamo tante domande e non riconosciamo quello che sta succedendo. Risulta difficile fare una previsione, è come se vivessimo per la prima volta un momento storico per cui non abbiamo riferimenti e facciamo fatica a immaginare quale sarà il prossimo episodio.
Questo è il luogo che stiamo cercando di far emergere nel nostro lavoro, anche perché abbiamo preparato questo spettacolo in casa, in piena pandemia proprio quando la chiusura ci ha fatto vivere il rapporto con lo spazio in modo diverso: da lì è venuto tutto. A parer mio i lavori vengono sempre contaminati da ciò che avviene nel proprio tempo.
Nei materiali di presentazione Lei Lear viene definito uno spettacolo “cacofonico”. Perché? Quali atmosfere lo caratterizzano?
J.M: È concretamente cacofonico. La simbiosi tra i due personaggi crea nervosismo, precarietà. La tensione che si è generata nei mesi di preparazione è diventata parte del lavoro. Questo crea cacofonia, una strana interferenza mentre parliamo all’unisono e che va trasposta all’intera struttura dello spettacolo: è come se mancasse una certezza drammaturgica e registica
C.F: Emergein questo senso la volontà di avere l’altro, di dominarlo e di averlo sotto controllo. C’è la costante necessità di dare la battuta all’altro e queste dinamiche sceniche raccontano spontaneamente ciò che volevamo raccontare non sapendo inizialmente come farlo.
In cosa la vittoria del Premio PimOff potrebbe essere d’aiuto alla crescita del progetto?
J.M: Mi piacerebbe inserirmi in un contesto che per la nostra compagnia è abbastanza sconosciuto. Mi piace l’idea di raccogliere e unire proposte che si dicono contemporanee e dare loro visibilità pur essendo in fase di crescita. Lavorando a livello internazionale, abbiamo ancora tanto da conoscere del mondo teatrale italiano.
C.F: Per noi lavorare in Italia non è stato semplice. Questo ci spingerebbe un a inserirci nel contesto italiano che a noi è risultato abbastanza difficile. Vorremmo continuare la nostra ricerca in Italia. Questo premio può essere un accesso, un’occasione di condivisione e di studio.
Ornella Rosato è giornalista, autrice e progettista. Direttrice editoriale della testata giornalistica Theatron 2.0. Conduce corsi formativi di giornalismo culturale presso università, accademie, istituti scolastici e festival. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di progetti volti alla promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
Su cosa si interrogano gli artisti di oggi? Quali occasioni hanno le compagnie contemporanee per portare all’attenzione del pubblico il proprio lavoro? E con quali mezzi?
A queste domande tenta di rispondere il Premio PimOff per il teatro contemporaneo, realizzato da PimOff, realtà milanese che fonda i propri principi identitari sulla messa in campo di processi di cura e di sostegno nei confronti di progetti inediti del panorama teatrale nazionale. Tramite una call pubblica sono state selezionate quattro compagnie che, il 23 ottobre, durante la finale del Premio, potranno presentare i propri progetti artistici in forma di studio. Una giuria composta da operatori e pubblico decreterà lo spettacolo che avrà diritto a un prolungato periodo di residenza presso PimOff e gli spazi dei partner associati, oltre a un supporto concreto nelle fasi di ultimazione e circuitazione nazionale.
Per approfondire i processi artistici che sottendono le creazioni teatrali in concorso al Premio PimOff, abbiamo dialogato con le compagnie finaliste, aprendo spazi di riflessione sui loro progetti e sullo stato dell’arte.
Iniziamo con il Collettivo BEstand e la Compagnia Basti/Caimmi, rispettivamente in gara conOccidente e What is a fancy word for ending, due lavori accomunati da un approfondimento tematico lirico e cosciente, che muove agilmente tra le contraddizioni del presente e le ricadute di queste ultime sul futuro.
Collettivo BEstand
OCCIDENTE
Collettivo BEstand si prefigge l’obiettivo di portare avanti un’indagine sull’immaginario collettivo, fornendo nuove possibilità di riflessione sul contemporaneo. Che cosa significa per voi fare un teatro politico oggi?
Giuseppe Maria Martino: Fare un teatro politico significa per noi ragionare su un certo tipo di immaginario, con la consapevolezza di vivere il proprio tempo, di essere pienamente nel nostro contemporaneo. Decidere di di fare delle scelte politiche per il nostro collettivo ha a che vedere con chi ti produce, a chi vuoi proporre il lavoro. Non parlare di politica ma fare un teatro consapevole, in questo senso è politico.
Dario Postiglione: Per me politico è soprattutto critico, ovvero non ignorare tutti gli elementi critici che accompagnano la produzione: la proposta artistica da un lato e lo sguardo sul contemporaneo dall’altro. Non proponiamo una denuncia e non invitiamo il pubblico a schierarsi in senso strettamente politico. Il nostro teatro è politico per via di qualcosa che è insito nello sguardo e nel modo di lavorare. Sappiamo che l’idea che l’arte possa essere distaccata dalla politica è solo un’illusione, per questo cerchiamo di esserne consapevoli a livello ideale e lavorativo.
Volendo approfondire le tecniche compositive che sottendono il vostro lavoro, in che modo si struttura l’intervento artistico di BEstand e come interagiscono sulla scena i diversi linguaggi adottati?
G.M.M: Lavoriamo a partire dalla scrittura scenica, dalla scelta di alcuni temi, di una domanda intorno alla quale fare ricerca. Non ci prefiggiamo un obiettivo in termini di linguaggio, perché esso è aderente all’opera e quindi alla domanda che cerchiamo di formalizzare nel miglior modo possibile. Per quanto riguarda Occidente abbiamo sperimentato un approccio diverso: per la prima volta siamo stati sostenuti da una produzione che ci ha offerto la possibilità di scegliere, di fare ricerca.
D.P: Sono un autore abituato a scrivere in solitaria e a vedere come il testo venga tradotto sulla scena. Con Occidente,però, non siamo partiti dal testo, abbiamo cercato un cuore concettuale artistico, qualcosa che ci premesse particolarmente, pensando a come tradurlo in scena a partire dall’interazione tra la nostra poetica e gli attori. Ciascuno porta un proprio linguaggio. Normalmente svolgiamo una ricerca per tentativi: si forma progressivamente un’immagine, un’idea estetica, poi capiamo in che direzione stiamo andando.
A proposito dell’indagine sul contemporaneo condotta dal vostro collettivo, Occidente alza la posta in gioco, prendendo le mosse dal tempo presente e immaginando un futuro possibile in cui convenzioni e contraddizioni della società occidentale di oggi vengono scandagliate e messe in discussione…
D.P: Per Occidente ho estratto dal genere fantascientifico alcuni elementi che mi interessavano per utilizzare il futuro come una di cartina di tornasole, come una cassa di risonanza del presente. Per questo motivo Occidente è stato definito distopico, anche se noi preferiamo definirlo “realismo distopico”. Non ci sono i termini di una distopia, si tratta della nostra proiezione di ciò che sarà la civiltà occidentale tra venti, trenta o quaranta anni. Ho incrociato tre cose nella scrittura di Occidente: l’immaginario fantascientifico/distopico; la filosofia critica della sinistra dialettica della scuola di Francoforte – la decadenza, l’inefficacia e la vecchiaia di un certo tipo di critica –; la poesia e il suo destino in quanto forma d’arte che per prima in Occidente ha cercato un rapporto verticale e sacro con la realtà. Unendo questi tre piani, la storia è venuta da sé.
G.M.M: Nel passaggio alla messa in scena i temi della morte della poesia, la tirannia del talento, la crisi degli intellettuali, non cercano il realismo o la sola leggibilità dell’opera. Dal momento che i personaggi sono diversi, ognuno di loro mantiene un codice teatrale, musicale e cinematografico e sviluppa un linguaggio: dall’incontro tra questi linguaggi ne risulta uno solo ma vincente.
La finale al Premio PimOff, rappresenta una possibilità che si innesta in un panorama funestato dalla crisi del settore, amplificata più che generata dalla diffusione della pandemia. Che vantaggi comporterebbe la vittoria del PimOff ? In quanto giovani artisti, quali azioni ritenete necessarie per il futuro del settore?
Chiara Cucca: Il collettivo BEstand è costituito da un gruppo di fondatori ai quali, seconda del progetto, si aggiungono maestranze e attori che scommettono con noi e che decidono di abbracciare una modalità di lavoro che spesso non è né sostenibile né sostenuta. Per me anche questo è molto politico: la cura delle relazioni all’interno del collettivo, l’apertura nei confronti di tutte le professionalità della città.
Per quanto riguarda la politica culturale chiederei alle direzioni artistiche degli stabili e delle produzioni medio-grandi, più coraggio nel guardare a una scena contemporanea che a Napoli risulta ancora claustrofobica. Abbiamo deciso di partecipare al PimOff proprio per cercare di uscire dalla realtà napoletana in cui lavoriamo ormai da 4 anni. È un momento di apertura utile a capire cosa sta succedendo nel resto d’Italia e per intercettare altri artisti che, come noi, cercano di vivere una realtà teatrale non elitaria, che portano avanti i propri progetti anche nella mancanza.
D.P: Mostrare il nostro lavoro al PimOff diMilano rappresenta già una vittoria per noi, perché ci consentirà di mostrare il nostro lavoro a un pubblico diverso. A Napoli abbiamo dimostrato già una credibilità, ora la sfida è ampliare il confronto.
BASTI/CAIMMI What is a fancy word for ending
Come è nata la vostra compagnia, perché avete sentito l’esigenza di unire i vostri percorsi artistici?
Anna Basti: Ci siamo incontrate anni fa lavorando come performer per la compagnia Muta Imago. Contestualmente ho iniziato a lavorare a dei progetti in maniera autonoma ma sentivo di non aver voglia di portarli avanti da sola. Ho pensato subito di coinvolgere Chiara perché ci eravamo trovate molto bene, sia rispetto ad un fare scenico sia rispetto al modo di gestire il lavoro in sala. Unlock è statoil primo lavoro che abbiamo curato insieme. Ci troviamo oggi in una nuova fase: se Unlock nasceva da un un mio desiderio di ragionare su certi temi, oggi, con What is a fancy word for ending, il nostro secondo progetto a quattro mani, affrontiamo un desiderio di Chiara. Ciò che mi stimola molto di questo incontro è che proveniamo da due percorsi molto diversi. Interessante è notare come i nostri sguardi, pur essendo originariamente divergenti, tendono allo stesso obiettivo, insieme si contaminano e si pongono in un dialogo sempre molto aperto. Questo per me è molto prezioso.
Da alcuni anni portate avanti una ricerca artistica che indaga la relazione tra i dispositivi di controllo e il corpo. Perché avete scelto di occuparvi di questa tematica?
Chiara Caimmi: Questa ricerca è stata il cuore del progetto Unlock, un affondo sugli effetti patiti dal corpo per l’immersione in una rete di dispositivi di controllo, non solo tecnologici e digitali ma anche sociali e culturali. Un macro-tema che ha guidato quella che poi è diventata una “piattaforma progettuale”. Anche con What is a fancy word for ending, partendo da un tema facciamo in modo di non limitare l’indagine alla forma scenica ma lasciamo che sia proprio l’argomento a suggerire il modo di essere trattato. Unlock è supportato da un laboratorio e ci piacerebbe che accadesse lo stesso con What is a fancy word for ending. Il tema dei dispositivi di controllo è talmente vasto che sta riverberando in altri nostri progetti: in What is a fancy word for ending ci confrontiamo sulla relazione tra i nostri corpi, la cultura d’appartenenza, le tradizioni, i rituali e la loro assenza. È il tema che ci ha avvicinato e quello a cui torniamo più spesso.
A.B: I nostri corpi non possono essere sganciati dalla dinamica relazionale che li conduce, li modifica e li condiziona: resta dunque una nostra base di indagine che continueremo a portare avanti.
What is a fancy word for ending, che indaga il tema della fine e le possibilità di un nuovo inizio, è lo studio con cui siete in concorso alla finale del Premio PimOff. Come avete lavorato alla commistione dei diversi piani che caratterizzano questo lavoro e come si inserisce nel tempo presente la trattazione del tema della fine?
C.C: La nostra collaborazione parte da un processo di ibridazione: cerchiamo un’intersezione tra i nostri interessi e i nostri modi di intendere lo stare in scena in generale, a quel punto i linguaggi si compenetrano in maniera piuttosto naturale. In What is a fancy word for endingutilizziamo principalmente tre media: prevalentemente i corpi, ma anche il suono ed alcuni apporti video. Rispetto al posizionamento nel presente, le riflessioni su questo progetto nascono ben prima della questione Covid.
Da molti anni immaginavo di fare uno spettacolo composto da soli finali, in seguito, creandolo insieme ad Anna l’idea ha preso forme diverse e si è arricchito di tantissimi spunti. In questo processo già in corso è arrivato il covid, portando con sé tutte le sue fini e le sue ripartenze. Ciò ha precipitato nel nostro quotidiano tutte quelle riflessioni che invece prima rimanevano più legate a un discorso di memoria, di, proiezione. È diventato immediatamente urgente e concreto riflettere su cosa accade nello spazio tra una fine e una ripartenza.
PimOff intende, attraverso questo premio, sostenere la creatività teatrale contemporanea. Che valore ha per voi, considerando lo stato del settore, un’attenzione di questo tipo?
C.C: Per noi è un’occasione a dir poco preziosa. Lavorando entrambe come interpreti, la nostra condizione di creatrici esiste innanzitutto per una nostra fortissima volontà, quindi è un sospiro di sollievo e una conferma trovare realtà che si prendono anche cura di quel momento molto delicato e molto importante della creazione che anticipa il debutto. È importante che nella fase produttiva ci sia tutta una rete di sostegno ma anche di sguardi amici, di occasioni di scambio e di confronto, per arrivare al momento dell’apertura al pubblico. Che ci sia questa attenzione, non soltanto al risultato ma al processo, mi sembra essenziale.
Ornella Rosato è giornalista, autrice e progettista. Direttrice editoriale della testata giornalistica Theatron 2.0. Conduce corsi formativi di giornalismo culturale presso università, accademie, istituti scolastici e festival. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di progetti volti alla promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
Con il Premio PimOff per il teatro contemporaneo, giunto alla sua seconda edizione, PimOff conferma il suo impegno a sostenere la creazione teatrale contemporanea italiana, intervenendo in supporto alle fasi di ultimazione e circuitazione nazionale di progetti inediti.
Giovedì 21 ottobre debutta in prima nazionale a PimOff il progetto vincitore del Premio PimOff per il Teatro Contemporaneo 2020, Twittering Machine, del collettivo ADA, in seguito ad una residenza artistica presso il medesimo spazio.
Sabato 23 ottobre ciascuna delle compagnie finaliste avrà a disposizione 30 minuti per presentare in forma scenica il proprio lavoro di fronte a pubblico e giuria, la quale al termine della serata decreterà la compagnia vincitrice del Premio. Il progetto vincitore si aggiudicherà ben tre residenze artistiche: una presso PimOff, una presso Gli Scarti (SP) e una negli spazi di Sementerie Artistiche (BO). Infine in palio anche una data all’interno della stagione di PimOff nell’autunno 2022.
A partire da quest’anno, infatti, la rete di partner nell’ambito del Premio PimOff per il teatro contemporaneo si amplia: le associazioni culturali Gli Scarti e Sementerie Artistiche, di cui vi sarà rappresentanza nella giuria, parteciperanno all’iniziativa proponendo alla compagnia vincitrice la possibilità di sviluppare il suo progetto attraverso due residenze presso i loro spazi. A partire da questa edizione PimOff avvia anche una media partnership con la webzine Theatron2.0, che curerà la documentazione e la cronaca del premio in tutte le sue fasi.
Infine, cureranno la documentazione del Premio gli allievi e le allieve dei corsi di Foto Video e New Media e di Tecnologia del Suono dell’Accademia Teatro alla Scala.
Ornella Rosato è giornalista, autrice e progettista. Direttrice editoriale della testata giornalistica Theatron 2.0. Conduce corsi formativi di giornalismo culturale presso università, accademie, istituti scolastici e festival. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di progetti volti alla promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
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