L’Aria di Pierfrancesco Nacca in scena per l’Italia

L’Aria di Pierfrancesco Nacca in scena per l’Italia

Abbiamo discusso con il drammaturgo e attore Pierfrancesco Nacca e la regista Giulia Paoletti intorno all’evoluzione scenica de L’Aria, in scena il 13 e il 14 Aprile al Teatro  Garbatella di Roma, cercando di mettere in luce le peculiarità artistiche e contenutistiche dell’opera ambientata in un carcere, dove i personaggi/detenuti sono i simboli di un’umanità abbandonata e costretta all’isolamento sociale ed esistenziale.

Pierfrancesco Nacca muove i suoi primi passi artistici con la “Compagnia Teatrale C.G. Viola” di Taranto. Studia al Dams di Bologna con docenti del calibro di Claudio Longhi, Gerardo Guccini e Marco De Marinis. Frequenta la Scuola  di Alta Formazione “Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini” di Roma dove si diploma e dove collabora con diversi registi del panorama italiano: Armando Pugliese, Giuseppe Marini, Veronica Cruciani e Massimo Venturiello. La sua passione per la scrittura riesce a concretizzarsi grazie all’incontro con l’autore Gianni Clementi con il quale scriverà, insieme all ass.cult “Atto21”, una commedia tragi-comica intitolata “E Pinocchio prese il fucile”. Scrive per il teatro e lavora insieme all’attore e maestro d’armi Massimo Cimaglia. Pierfrancesco Nacca è uno dei componenti di Atto21, compagnia teatrale nata alla fine del percorso accademico della Scuola di Alta Formazione “Officina Pasolini.

 

Un’ora sola per sentirsi liberi, per respirare aria pulita, un’ora sola per guardare il cielo.

L’Aria è il pretesto per raccontare la storia di quattro detenuti: Nicola, Mario, Rosario e Carmine, rinchiusi in un istituto di detenzione del nostro paese. Raccontano pezzi della loro vita, quella vera, prima di essere reclusi, fino ad arrivare poi al momento della carcerazione. Cosa si nasconde dietro ai loro reati? Dietro a quei volti scavati, dietro al loro taglio di capelli, dietro a quelle tute acetate? Forse, semplicemente, solo uomini.

La situazione delle strutture carcerarie italiane è vergognosa e drammatica, il sovraffollamento e le precarie condizioni igieniche rendono la detenzione infernale, mettendo a dura prova il rispetto e la dignità umana che spesso viene calpestata.

Quelle strane morti, improvvise, sospette, quelle foto violacee di volti emaciati, di membra lacerate, gridano ancora giustizia: Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli…

Pierfrancesco Nacca

L'Aria di Pierfrancesco Nacca

L’Aria di Pierfrancesco Nacca

Genesi e processo creativo de L’Aria

Risponde Pierfrancesco Nacca (attore ed autore):

“Ho scritto diversi testi per il teatro ma solo alcuni hanno visto la luce del sole, uno di questi è proprio “L’Aria”. L’ idea di raccontare la reclusione nasce dal forte desiderio di dare voce e dignità alle minoranze e al disagio che esse vivono quotidianamente all’interno di quel micro mondo che è il carcere. Ho iniziato questo processo scrivendo ed interpretando un monologo per un contest di corti teatrali, “Bestia”: una storia comune, ambientata in periferia, dove i grandi caseggiati delle case popolari, fanno ombra sulle ville dei ricchi; un quartiere, dove il furto e il malaffare costituiscono l’unica fonte di guadagno, in cui i giovani non hanno possibilità di scegliere cosa fare nella vita. E’ già tutto scritto, tutto predestinato…

Si può dire che con questo monologo ho piantato il seme e che questo, a distanza di un anno, abbia dato alla luce un frutto, “L’Aria”. Un passo sicuramente importante e decisivo per questo testo è stato quello di continuare a tenere vivo il rapporto di committenza con un vecchio amico tutt’ora recluso nella Casa Circondariale di Taranto. Grazie al nostro scriverci, ho potuto mettere nero su bianco alcuni gerghi, usi e costumi tipici di quell’ambiente.

Ho continuato la mia ricerca studiando tutti quei casi irrisolti che hanno avuto luogo nel nostro bel paese e ho cominciato a sfogliare libri come “Sorvegliare e punire” di Michel Foucault per capire a fondo da dove deriva quella strana pratica del rinchiudere per correggere (e non per torturare, questo lo aggiungo io).

Ho letto, visto e poi trascritto diverse interviste di alcuni detenuti ed ex detenuti del carcere di Rebibbia, Poggio Reale e della Dozza , per poi mettere in moto la mia immaginazione e creare così un testo semplice, lineare, crudo e dal cuore grande.”

Personaggi e tematiche trattati nello spettacolo

“Con L’Aria ho voluto portare fuori dalle mura dei penitenziari, non solo il reato ma l’uomo, l’uomo con tutte le sue fragilità e con tutte le sue paure. L’obiettivo è quello di raccontare le vite dei detenuti, denunciare gli abusi di potere subiti e sdoganare quel credo popolare secondo il quale tutti i detenuti sono uguali. E’ facile dire “buttate via la chiave” senza sapere, conoscere e comprendere cosa ci sia dietro quell’uomo, dietro il suo taglio di capelli, dietro quel volto scavato, dietro quella tuta acetata.. Cosa c’è prima del detenuto? L’uomo! Un uomo non può essere mai solo ed esclusivamente il reato che compie.

In questo testo si parla degli abusi di potere ai danni dei detenuti da parte di chi rappresenta lo Stato, la legge. Ne L’Aria si parla di sovraffollamento delle carceri, di reinserimento nella società, di rieducazione ma anche di abuso di legittima difesa, di scelte sbagliate e della disperazione di uomini abbandonati dalle istituzioni e spesso anche dalle proprie famiglie.

Non racconto storie di pazzi omicidi, di stupratori seriali, malavitosi o serial killer, Racconto storie di uomini che loro malgrado si sono trovati a commettere degli errori (dei reati anche importanti) perché non avevano scelta (o forse si). Nonostante il testo sia dedicato a Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Michele Ferrulli e Giuseppe Uva e a tanti altri, non ho messo in scena le loro vite ma quelle di altri uomini con nomi diversi, con storie diverse per mandare un messaggio chiaro:

Non credete che quello che è successo a Stefano Cucchi non possa capitare anche a voi!

Voglio fare una domanda ai lettori: tenendo in considerazione che il carcere è lo specchio della società in cui viviamo, uno straniero, un musulmano, un omosessuale, come vivrebbe la detenzione?

Parliamo e parleremo anche di questo ne L’Aria, ma attenti, non è tutto come sembra…”

Lavoro registico con gli attori

Risponde Giulia Paoletti (regista):

“Il motivo iniziale che mi ha spinto a voler lavorare registicamente su questo testo è la forma che è stata scelta dall’ autore per raccontare il vissuto dei quattro personaggi. L’intervallarsi dei dialoghi dei detenuti ai brevi monologhi (che sono la risposta ad un’intervistatrice che non viene, però, mai messa in scena) dà un ritmo molto preciso alla storia.

Quello che ho ricreato con gli attori in scena è proprio questo tempo scandito e monotono che traspare attraverso i gesti, le parole, la ripetitività quasi ossessiva dei singoli passi e delle traiettorie. Sono partita da un training fisico, spesso accompagnato con della musica, per ricreare un luogo circoscritto che può essere quello di un cortile di un carcere o i pochissimi metri quadri di una cella e ho dato delle regole specifiche da seguire per far sentire gli attori costretti a rispettare una disciplina precisa.

In un clima così ferreo diventare vulnerabili è più facile e i personaggi si reggono infatti su un equilibrio molto precario. Inoltre c’è stata un’approfondita ricerca iniziale rispetto ai quattro personaggi tramite esercizi sensoriali e di improvvisazione che ha permesso ad ogni attore di avvicinare il proprio personaggio a sé stesso e di farlo vivere trovando il giusto equilibrio tra l’esperienza personale e quella del personaggio. Nel testo, in più, traspare una quasi totale assenza di giustizia e di rispetto delle regole da parte di chi, invece, dovrebbe dare l’esempio. Chi ha il potere spesso è il primo che trasgredisce le leggi e che abusa della propria forza. Davanti a questo ci si può sentire o totalmente impotenti e lasciarsi andare o assurgere ad un esempio universale di vittima dell’umanità.”

Ringraziamenti

“Ci tengo particolarmente a ringraziare gli enti che hanno deciso di patrocinare il nostro lavoro on le seguenti motivazioni: Amnesty International: “per la sua efficacia nel descrivere la vita e il passato delle persone che vivono recluse, e ricordare al pubblico, ancora una volta, alcune storie spezzate e finite troppo presto”

Cucchi Onlus: “per aver dato voce in modo coinvolgente a storie e a situazioni che si trovano a vivere i detenuti nelle carceri italiane, sensibilizzando allo stesso tempo sul tema delle morti di stato e sulla necessità di fare luce e giustizia”.

Doveroso da parte mia è ringraziare i miei colleghi: (la regista) Giulia Paoletti; (gli attori) Alessandro Calamunci Manitta, Andra Colangelo, Gabriele sorrentino; (voice off) Marina Lupo; (scene e costumi) Nicola Civinini; (grafica) Paolo Rossetti; (ufficio stampa) Nuvole Rapide Produzioni e la Compagnia Teatrale C.G. Viola di Taranto.

In fine e non per ultima ringrazio mia madre che mi ha insegnato a giocare al gioco dell’attore.”

 L’ Aria 

Di: Pierfrancesco Nacca
Regia: Giulia Paoletti
Con: Alessandro Calamunci Manitta Andrea Colangelo , Pierfrancesco Nacca, Gabriele Sorrentino

Voice off: Marina Lupo
Scene e costumi: Nicola Umberto
Grafica: Paolo Rossetti
Trailer: Carlo Barbalucca

Special thanks: Compagnia teatrale C.G. Viola – Old Fashion Taranto –Nuvole Rapide Produzioni
Patrocini: Amnesty International – Associazione Stefano Cucchi – Onlus – Antigone

Polvere della Compagnia Cesare Giulio Viola sull’Ex-Ilva di Taranto

Polvere della Compagnia Cesare Giulio Viola sull’Ex-Ilva di Taranto

Polvere della Compagnia Cesare Giulio Viola sull'Ex-Ilva di Taranto
Polvere della Compagnia Cesare Giulio Viola sull’Ex-Ilva di Taranto

C’è un mostro che dorme indisturbato, accovacciato su un fianco, imponente, sbuffa continuamente, di notte e di giorno. È un’ombra inafferrabile ed inarrestabile, una mano nera che copre l’intera città di Taranto. Una piaga che accomuna il destino di molte famiglie. Ha nome di donna, probabilmente di origine etrusca, un tempo i romani chiamavano con il suo nome l’Isola d’Elba: ILVA. ILVA in altre parole significa ferro, in altre ancora morte. Un vero e proprio Olocausto nella città di Taranto, solo negli ultimi sei anni ci sono stati 11.550 morti, una media di 1.650 morti l’anno.

La criminale gestione della famiglia Riva prima, il silenzio-assenso dei principali partiti politici sui problemi relativi all’inquinamento dell’aria e del suolo e infine l’atteggiamento cinico, spregiudicato e ricattatorio da parte della multinazionale franco indiana ArcelorMittal impongono a tutti noi una doverosa riflessione.

Polvere, scritto da Pierfrancesco Nacca e diretto da Giulia Paoletti, è il pretesto per raccontare dal punto di vista di una famiglia tarantina, gli effetti che la grande acciaieria (ILVA) provoca ai danni della città di Taranto e dei suoi abitanti. La famiglia Cataldo è composta da Mimmo, Marina e il figlio Piero, insieme vivono nel quartiere Tamburi a ridosso dell’impianto siderurgico. Mimmo lavora per l’acciaieria come operaio metalmeccanico specializzato, mentre Marina insegna nella scuola elementare Ugo De Carolis. Da qualche tempo Marina è in aspettativa perché ha riscontrato un carcinoma alla pleura (il tumore più diffuso nella città di Taranto). Piero, loro unico figlio, vive un rapporto conflittuale con il padre, lo ritiene il responsabile diretto della malattia della madre.

Questa triste vicenda viene smorzata dalla figura di un ragazzino, che non è altro che la proiezione di Mimmo da giovane, prima che diventasse uomo, lavoratore, marito, padre. Apparirà quasi ex machina all’interno della storia facendoci gustare un’ Italia del passato, una Taranto di una volta, prima dell’ avvento del grande mostro (Italsider e poi ILVA) prima dei social network. Questo Ragazzino tornerà costantemente durante la storia come una boccata d’aria buona. “Polvere” racconta la storia di una famiglia appesantita dal piombo, dal nichel, dalla diossina, dall’arsenico, dal benzoapirene. Una famiglia che fondamentalmente si ama ma è avvelenata e il veleno in circolo darà luogo ad uno scontro generazionale (tra padre e figlio) senza esclusione di colpi.

Intervistiamo la compagnia Cesare Giulio Viola, in vista delle repliche di Polvere del 22 e del 23 Novembre presso il Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma. Scritto da Pierfrancesco Nacca, regia di Giulia Paoletti, in scena Claudio Spadaro, Marina Lupo, Andrea Lintozzi e Pierfrancesco Nacca. Scene di Alessandro Chiti, musiche di Marco Bruno, con la supervisione grafica di Paolo Passarelli.

ILVA e la città di Taranto: come e perché hai scelto di raccontare attraverso la scrittura teatrale la storia della famiglia Cataldo in relazione al problema eco-industriale di Taranto? 

Risponde Pierfrancesco Nacca: Ho deciso di scrivere “Polvere” per denunciare il dramma che vive la città di Taranto, una città splendida, messa in ginocchio da un’acciaieria obsoleta che negli anni è stata gestita da gente senza scrupoli, Stato compreso. Da tarantino volevo omaggiare la mia bella città maledetta per cercare di stimolare le coscienze, perché un altro modo di vivere esiste. A Taranto, in ogni famiglia c’è almeno una persona affetta da tumore, vorrei poter dire che tutto ciò non è normale ma purtroppo a Taranto questa è la normalità. La famiglia Cataldo è la famiglia protagonista di questa storia, ho scelto questo cognome per omaggiare il santo patrono S.Cataldo, non per credenza ma esclusivamente per rispetto, lo stesso rispetto che i tarantini attribuiscono al santo. A Taranto tutti conoscono il ricatto che ci ha messi in ginocchio: lavoro o salute?

C’ è tanta rabbia ma non è veicolata a dovere, la città purtroppo è divisa tra chi non pensa minimamente che tutto questo possa essere un problema, e chi invece i danni che provoca l’Ilva, attuale (Arcelor Mittal) li paga sulla propria pelle o su quella dei propri cari. Tramite i personaggi di Polvere: Mimmo, Marina e Piero, ho voluto dare voce ai tarantini. A chi lavora per il “mostro” e non ha alternativa, a chi è colpito dalla malattia, a chi è incazzato e vuole cambiare le sorti della propria città. All’ interno del testo c’è un quarto personaggio, un ragazzino che porterà una boccata di aria buona, facendoci assaggiare una Taranto del passato, una Taranto genuina, senza industria. Con “Polvere” abbiamo vinto una residenza artistica: TRAC_Centro di residenza teatrale pugliese, che ringrazio. Potevamo scegliere tra diversi teatri e città della Puglia che facevano parte del progetto e alla fine abbiamo avuto la fortuna di poter scegliere il TaTÀ di Taranto, partner attivo della residenza che fa un lavoro eccellente sul territorio. Adesso ci siamo, debuttiamo al Teatro Quarticciolo qui a Roma, dove Veronica Cruciani ci ha voluti fortemente e noi non possiamo che esserne onorati.

In che modo la direzione registica ha interpretato la storia drammatica delle vicende tarantine dell’ILVA e della famiglia Cataldo? 

Risponde Giulia Paoletti: Grazie alla residenza artistica tarantina ho potuto iniziare le prove con gli attori nel migliore dei modi per quanto riguarda la mia visione di questo progetto: avvicinare gli attori alle persone che hanno vissuto e subìto direttamente gli effetti del mostro. Il mio obiettivo primario è sempre quello di trattare i personaggi come esseri umani molto vicini a noi. In realtà non c’è molto da interpretare, nel senso che vanno riportati i fatti esattamente come accadono nella realtà, tutto sta nel volerli vedere o meno. L’idea che ho avuto come messa in scena è stata quella di dividere tutto in 3 quadri, anche a livello scenografico: il passato, il “prima della fabbrica, l’attesa di..”, il presente, dove si consumano conflitti, incontri e scontri, e un futuro o altrove, un quadro che rappresenta l’unica obbligata via d’uscita. Quello che voglio raccontare è come questa piaga si insinui prepotentemente in ogni aspetto della vita, anche familiare. Racconto di esseri umani accesi ognuno da un motore diverso ma che hanno in comune lo stesso combustibile. Inoltre l’intento è quello di mostrare come qualcosa di così nocivo e materiale possa arrivare a mettere in crisi anche i sentimenti e i legami più forti. C’è una frase del testo che racchiude questo enorme interrogativo e dal quale è difficilissimo uscirne per trovare una risposta “lavoro o salute? Scegli. Tanto poi muori comunque.” Noi, attraverso i personaggi, abbiamo tentato di dare più di una risposta con questo spettacolo, ma soprattutto attraverso Vincenzo, Pino, Giovanni… fonti preziose del nostro lavoro.

Foto di Francesco Semeraro

Come si è svolto il processo artistico di creazione dello spettacolo? Quali le riflessioni e le emozioni provenienti da una storia così intensa e di grande attualità? 

Risponde Claudio Spadaro: Iniziare le prove a Taranto, quartiere Tamburi, è stato come inalare “Polvere” dal vivo. Ogni mattina, durante il percorso in auto per raggiungere la sala del TaTÀ, i volti dei residenti, il colore delle facciate dei palazzi e il “Mostro” che spuntava da tutte le parti, ci trasformavano, a poco a poco, nei personaggi. Si proseguiva, quindi, approfondendo intenzioni, dinamiche e stati emotivi, guidati sapientemente da Giulia Paoletti. Gli incontri con persone che si erano distinte per aver svelato i danni provocati dall’Ilva ci fornivano ulteriori informazioni. Ed emozioni. Spesso, tra noi, si discuteva sulle possibili e realistiche soluzioni del problema, complicato, molto complicato. Con Pierfrancesco queste discussioni, a volte, erano particolarmente accese. Replicavamo, con diversi argomenti, gli scontri che i personaggi, padre e figlio, avevano in scena. E vorrei ricordare che lo spettacolo, in un contesto di tragica attualità, tratta anche temi senza tempo, come quello del confronto/ scontro tra padri e figli.

Risponde Marina Lupo: Il processo creativo di Polvere è iniziato durante la nostra Residenza Teatrale, al Teatro TaTÀ di Taranto. Abbiamo lavorato al progetto proprio nel cuore del Quartiere Tamburi, all’ombra delle ciminiere. È stato un momento di condivisione, di arricchimento e a volte, anche di discussione. La città da decenni è sotto ricatto, non è facile scegliere tra salute e lavoro, per questo il sentimento che ci ha accompagnati durante tutto il percorso, è stato soprattutto la rabbia. Il senso di impotenza ha accomunato artisti tarantini e non. Polvere è una storia di ingiustizia sociale, perché è difficile decidere se morire di cancro o di fame. Il mostro, attraverso il tempo, ha cambiato solo nome e padrone. Tutti hanno anteposto produzione e profitto alla sicurezza dei lavoratori, all’ambiente, e alla salute dei cittadini in particolare dei bambini, che hanno il diritto di crescere e di vivere di un ambiente sano.

Foto di Francesco Semeraro

Risponde Andrea Lintozzi: Sicuramente il primo passo è stata l’analisi. Un’analisi prima del tema e poi del testo. Con l’esperienza fatta a Taranto ho avuto modo di entrare in contatto con gente che ha vissuto le problematiche raccontate nel testo. Successivamente mi sono chiesto, e ho chiesto a chi di dovere, come veniva visto questo grande evento dell’apertura della Fabbrica, quando ancora era una voce. Dovendo interpretare un ragazzo più piccolo di me in un anno che ormai non c’è più, il 1965, abbiamo cercato insieme alla regista e ai miei colleghi attori di ricostruire quegli anni passati, quelle vecchie abitudini e quei modi di dire o di fare solo con l’aiuto di piccoli gesti e di parole che si usavano prima e non più ora, in più abbiamo anche lavorato sul dialetto tarantino dato che sono romano. Le emozioni in questo spettacolo si moltiplicano ogni volta: già dalla prima lettura del testo vieni travolto da emozioni molto forti, poi con l’esperienza a Taranto parlando con gente che ha vissuto sulla propria pelle le disgrazie causate dal “Mostro”, è una dose di emozioni drammaticamente coinvolgenti e poi a tutto ciò si aggiungono quelle emozioni che emergono giorno dopo giorno in prova. Insomma dire che questo spettacolo è stato un percorso coinvolgente è dir poco.

Quali sono gli elementi musicali presenti nello spettacolo? In che modo sono stati prodotti e selezionati all’interno dell’impianto drammaturgico? 

Risponde Marco Bruno, tecnico del suono: Questo prodotto è il risultato di sessioni dedicate ma del tutto spontanee, oserei dire a cuore aperto. Ho composto ad occhi chiusi, cercando di materializzare con le note qualcosa che esprimesse la purezza, la bellezza, il legame e l’amore per la nostra terra. Una matrice malinconico-sognatrice che ricrea nella mente dell’interlocutore la proiezione di quello che agli occhi dei tarantini, è la quotidianità: una miscela di consapevolezza, coraggio e rivalsa per una proiezione futura aperta a scenari di, tanto desiderata, valorizzazione del nostro patrimonio socio-culturale.