Intervista a Pier Lorenzo Pisano, vincitore del Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli”

Intervista a Pier Lorenzo Pisano, vincitore del Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli”

Intervistiamo il drammaturgo Pier Lorenzo Pisano: nato a Napoli, studia a Venezia, laureandosi in Conservazione dei Beni Culturali. Intraprende un percorso attoriale specializzandosi presso la Guildhall School Of Music and Drama (Londra). Comincia a lavorare come attore e assistente alla regia per cinema e teatro, e come montatore in vari progetti tra cui il documentario Torn – Strappati, vincitore di un Nastro d’Argento e presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Completa la sua formazione diplomandosi come regista cinematografico presso il Centro Sperimentale di Roma (scuola nazionale di cinema). Il suo cortometraggio di esordio Così in terra, è stato selezionato in concorso al Festival di Cannes 2018. Parallelamente si dedica alla scrittura ottenendo riscontri nei maggiori premi italiani di drammaturgia e sceneggiatura, tra cui il Premio Hystrio 2016 con Fratelli, il Premio Riccione-Tondelli nel 2017 con Per il tuo bene e il Premio Solinas 2018.

Per il tuo bene ha debuttato in Italia a gennaio presso il teatro delle Passioni di Modena e presso l’Arena del sole di Bologna con la regia dell’autore. È stato rappresentato, in traduzione francese, presso il Théâtre Ouvert (Parigi). La versione francese è stata inoltre presentata in apertura del Festival di Avignone 2018, nel programma “Forum des Nouvelles Écritures Dramatiques Européennes”.

Qual è stato il primo incontro con il teatro?

Da piccolo non stavo mai fermo, i miei mi spedivano ai corsi di teatro per stancarmi. Ricordo la prima volta che sono stato dietro le quinte: ho scoperto tutto quel mondo nascosto, enorme e polveroso che sono i camerini, i corridoi…un labirinto da esplorare. Più che per il corso in sé, andavo lì per il fascino di quel posto. Ho fatto anche qualche laboratorio al liceo, cose ignobili, ma molto divertenti. L’incontro con il vero teatro però è stato a Venezia. C’è questo teatrino minuscolo, l’Avogaria, che da fuori non sembra nemmeno un teatro; è un palazzo normale con una piccola porta che dà su un campo. Poi quando entri scopri un palco con file di sedie, tutto in miniatura. Ho iniziato lì, come attore.
L’incontro con la drammaturgia è stato successivo. Ho sempre scritto molto, anche se non per il teatro. La prima volta forse avevo buttato giù un piccolo testo per un bando, non ricordo bene, e poi ho continuato. Sceglievo dei bandi e scrivevo. Non inviavo i testi; mi servivo delle scadenze per portare a termine la scrittura, come una sorta di allenamento.

Quali sono state le esperienze più proficue e importanti per la tua formazione di attore?

L’esperienza attoriale più significativa l’ho avuta a Firenze. Ho seguito un seminario di un mese con Anatolij Vasiliev, sperimentando il suo metodo degli étude. Semplificando tantissimo: si lavora sulle situazioni emotive e sulle strutture di potere, sostituendo le immagini del testo con immagini personali. Il risultato è che quando provi la scena rivivi davvero il percorso del personaggio, ed ogni volta che la ripeti, succede di nuovo. Non c’è recitazione. Alla fine, quando ritorni al testo vero e proprio, la scena funziona perchè ormai la dinamica si è sedimentata.

Per quanto riguarda l’ambito drammaturgico ?

Ho un bellissimo ricordo dell’incontro con Michele Santeramo, a San Miniato. Ha un metodo creativo molto personale, ed è generoso. Ti dice: io faccio così, tu prendi quello che vuoi. Ricordo una frase che sintetizza molte cose, forse è sua o è rubata a sua volta: “Tutte le battute sono Scusa o Vaffanculo. Il resto è chiacchiericcio”. Ho scritto un dialogo di Fratelli che prende questo suggerimento alla lettera. Anche l’incontro con Mark Ravenhill è stato importante, perché mi ha spostato il fuoco ancora di più sulla famiglia, che era il tema di cui lui si interessava in quel periodo. C’è stato uno scambio molto forte con gli altri ragazzi del laboratorio, che venivano da ogni parte del mondo. Ogni famiglia ha delle regole diverse, eppure si dà per scontato che le proprie regole valgano per tutti. Ma una famiglia di Taiwan non funziona come una famiglia napoletana, anche se saltano fuori punti di contatto incredibili.

Perché hai scelto la famiglia come tema d’indagine sia in “Fratelli” sia in “Per il tuo bene”?

Mi ha sempre affascinato. Ogni grande narrazione è una storia di famiglia. Prendi tutta la mitologia greca, egiziana, indiana…Anche il cristianesimo: la storia di un figlio e di un padre lontano. Persino Star Wars non è nient’altro che questo: tre generazioni, di padre in figlio. È qualcosa da cui siamo irresistibilmente attratti. Ti racconto questa cosa: tempo fa ho avuto una discussione con mio padre e abbiamo litigato. Sul momento non mi era importato molto, ma quando sono tornato a casa mi sono accorto che mi tremavano le mani. È questa la forza della famiglia. Sono rapporti che ti spostano, che hanno un potere enorme su di te, che tu lo voglia o meno.

In questo senso come si pone la tua esperienza di vita rispetto all’ideazione drammaturgica di “Fratelli” e “Per il tuo bene” ?

Quando scrivo, scrivo di cose che mi bruciano. Butto giù la prima stesura in pochissimo tempo, come un flusso, perché sono temi, contesti e personaggi che mi toccano molto. Non è una scrittura autobiografica, non c’è la mia vita dentro, in nessuno dei testi ci sono cose che mi sono successe davvero. Ma sono dinamiche che conosco. E c’è sicuramente il mio punto di vista. Poi, comunque, rileggendomi capisco molte cose su di me. Capisco perché i personaggi dicono certe cose. Il testo mi fa un po’ da specchio.

Quale sono le affinità e quali le divergenze fra questi che possiamo considerare finora i tuoi testi più importanti?

Diciamo così: Fratelli è un testo drammatico e un tentativo di capire come sopravvivere al dolore – se si può. Per il tuo bene è un testo drammatico e un tentativo di capire come sopravvivere alla famiglia – se si può uscirne. Sono due angolazioni diverse, a partire dal tipo di scrittura. Fratelli si costituisce quasi interamente di monologhi, flussi di coscienza molto dilatati. Ogni monologo ha moltissime immagini con le quali i personaggi costruiscono il mondo della storia. Per il tuo bene è più tradizionale, ci sono luoghi definiti e la scrittura alterna i dialoghi a un tipo particolare di monologhi brevi, quasi delle dichiarazioni.
Poi, in Fratelli c’è un tempo diverso: il racconto si riavvolge all’indietro attraverso salti temporali, con un meccanismo di disvelamento sia della trama sia emotivo, anche se il flusso resta nel complesso abbastanza chiaro. E c’è un tipo di rapporto tra i fratelli molto stretto, in un certo senso involuto, post-apocalittico: sono chiusi nel loro microcosmo, e sentono il peso infinito di un’assenza.
In Per il tuo bene il tempo è lineare, ci sono più personaggi, e c’è un discorso che oltre a parlare di famiglia, approfondisce come la famiglia vede gli estranei e come ci si rapporta. Fratelli è più specifico; Per il tuo bene è più esaustivo. Fratelli è già esploso. Per il tuo bene è in punta di piedi, è tutto in bilico, potrebbe succedere qualunque cosa da un momento all’altro, ma non ancora.

Oltre a scrivere di teatro, ti occupi anche di cinema: come cambia il tuo modus operandi quando scrivi una sceneggiatura?

Banalmente, la differenza più grande è che la sceneggiatura racconta per immagini, mentre il teatro è scrittura di scena pura, con le dovute eccezioni. Poi, la sceneggiatura non è un prodotto finito, è uno strumento di lavoro concreto, che per questo richiede un’impaginazione molto precisa, ad esempio per effettuare lo spoglio. C’è anche una questione culturale: il testo teatrale può diventare qualcosa di sacro e intoccabile, e sono tutti gli altri a doverci girare intorno. La sceneggiatura invece continua a cambiare -per le mani del regista cinematografico o degli attori stessi- fino al giorno in cui non si gira la scena. Il vantaggio di scrivere per entrambi i media è che puoi provare ad unire il meglio dei due mondi. La forte scrittura di scena del teatro, dialoghi in cui anche se non si dice nulla emergono i rapporti e il conflitto, e il rigore descrittivo della sceneggiatura, che ti impedisce di essere troppo didascalico. Scrivere una bella sceneggiatura, comunque, in quanto testo da lavoro, non è sempre indicativo del risultato finale, richiede un regista bravo. Invece, nel caso della trasposizione cinematografica di un testo teatrale, ci sono mille esempi positivi: mi vengono in mente Killer Joe, o Carnage. Se la regia è buona, il testo fa un ulteriore salto, altrimenti mantiene comunque la sua efficace scrittura di scena.

Quali sono le sensazioni dopo aver ricevuto un premio prestigioso come il Premio Tondelli? Che ricordi hai della serata di premiazione e dell’incontro con alcuni fra i più importanti nomi del teatro italiano contemporaneo?

Pensare di essere nella stessa, ristretta lista, con gli altri autori che hanno ricevuto questo premio è incredibile. Sul palco Fausto Paravidino ed Emma Dante hanno letto l’inizio del testo. Dopo ho avuto occasione di parlare e confrontarmi con i giurati, tutte persone che stimo molto e di cui seguo il lavoro nei vari ambiti. È stato emozionante, e un bellissimo regalo.

54° Premio Riccione per il Teatro: i vincitori

54° Premio Riccione per il Teatro: i vincitori

Sabato 23 settembre, in piazzale Ceccarini, si è celebrata la 54ª edizione del Premio Riccione per il Teatro, manifestazione che pochi giorni fa ha ricevuto la medaglia del Presidente della Repubblica. Nato nel 1947, il più longevo concorso italiano di drammaturgia ha festeggiato i suoi primi 70 anni con una serata-evento presentata da Graziano Graziani (Radio 3) e dall’attrice Silvia D’Amico. Alla serata, culminata con la premiazione dei vincitori del concorso, ha partecipato anche la giuria, presieduta da Fausto Paravidino e composta dallo stesso Graziani e da Giuseppe Battiston, Arturo Cirillo, Emma Dante, Federica Fracassi, Claudio Longhi, Renata Molinari, Laurent Muhleisen e Christian Raimo.

Assegnato con cadenza biennale all’autore di un testo teatrale (in italiano o in dialetto) ancora non rappresentato, il Premio Riccione per il Teatro (5000 euro) è andato quest’anno a Vitaliano Trevisan per Il delirio del particolare. Ein Kammerspiel. Nato a Sandrigo (Vicenza) nel 1960, Trevisan è uno dei più affermati scrittori e drammaturghi italiani e ha già ricevuto una menzione speciale al Premio Riccione nel 2015. Per il teatro ha curato l’adattamento di Giulietta di Federico Fellini e ha scritto, tra gli altri, Il lavoro rende liberi e Solo RH, portati in scena rispettivamente da Toni Servillo e Roberto Herlitzka; di recente ha inoltre adattato Il giocatore di Dostoevskij. Al cinema ha lavorato come attore e sceneggiatore in diversi film, tra cui Primo amore di Matteo Garrone.

Trevisan ha superato gli altri finalisti Carlotta Corradi (Nel bosco), Francesca Garolla (Tu es libre) e Fabio Massimo Franceschelli (Damn and Jammed). Tutti i finalisti restano comunque in gara per un premio di produzione da 15.000 euro, assegnato per favorire la rappresentazione dell’opera presentata in concorso. Franceschelli ha inoltre conquistato la menzione speciale “Franco Quadri” (1000 euro), riservata al testo che meglio coniuga scrittura teatrale e ricerca letteraria. Nato a Roma nel 1963, Franceschelli si alterna tra saggistica e drammaturgia, critica e narrativa. È autore di commedie, monologhi e drammi rappresentati in Italia e all’estero, ed è redattore della rivista di drammaturgia contemporanea Perlascena.

Come accade da molti anni, il concorso – organizzato da Riccione Teatro e dal Comune di Riccione con il sostegno della Regione Emilia-Romagna e di Hera – riserva un riconoscimento a sé agli autori under 30, il prestigioso Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli” (3000 euro). In questa categoria è risultato vincitore Pier Lorenzo Pisano con Per il tuo bene, storia di una famiglia che cerca di superare con leggerezza un momento difficile. Anche questa, come ogni famiglia, ha le sue regole. E si basano tutte sul ricatto d’amore. Nato a Napoli nel 1991, laureato in conservazione dei beni culturali a Venezia, Pisano ha studiato come attore, perfezionandosi alla Guildhall School of Music and Drama di Londra, e ha approfondito il suo interesse per la scrittura teatrale con Michele Santeramo, Stefano Massini e Mark Ravenhill. Ha già ottenuto i primi riscontri come drammaturgo e sceneggiatore (Hystrio e Solinas, tra gli altri) e ha lavorato anche come assistente alla regia e montatore cinematografico. Di recente si è diplomato al corso triennale di regia del Centro sperimentale di cinematografia.

In finale, Pisano ha superato Christian Di Furia (Un pallido puntino azzurro), Riccardo Favaro (Nastro 2), Tatjana Motta (Nessuno ti darà del ladro). I finalisti partecipano anche in questo caso all’assegnazione di un premio di produzione (10.000 euro).

Quest’anno è stato inoltre introdotto un Premio speciale per l’innovazione drammaturgica, assegnato fuori concorso a una personalità capace di aprire nuove prospettive al mondo del teatro. Il premio è andato a Chiara Lagani, attrice e drammaturga ravennate, fondatrice della compagnia Fanny & Alexander. A decidere il vincitore, che sarà protagonista di una personale al prossimo Riccione TTV Festival, è stato un comitato scientifico formato dai critici di quattro riviste: Lorenzo Donati (Altre Velocità), Francesca Pierri e Andrea Pocosgnich (Teatro e Critica), Francesca Serrazanetti (Stratagemmi), Carlotta Tringali (Il Tamburo di Kattrin).

Per il tuo bene di Pier Lorenzo Pisano. Dal Premio Riccione-Tondelli al debutto nazionale

Per il tuo bene di Pier Lorenzo Pisano. Dal Premio Riccione-Tondelli al debutto nazionale

Per il tuo bene Ph. Luca Del Pia

Per il tuo bene Ph. Luca Del Pia

Per il tuo bene è il testo scritto dal regista e autore Pier Lorenzo Pisano, classe ’91, che ha ricevuto importanti premi di drammaturgia e sceneggiatura, tra cui il Premio Hystrio 2016 e il Premio Solinas 2018, e proprio con Per il tuo bene il 12° Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli”:

«Poteva essere l’ennesima banale pièce sulla famiglia – si legge nella motivazione della giuria – che il teatro contemporaneo sa ormai sfornare in centinaia di esemplari ogni anno. È, invece, un testo maturo con un progetto e una forma ben definiti. L’autore mostra attenzione per le psicologie e per il confronto- scontro tra le generazioni e, soprattutto, rivela un’ottima capacità di toccare temi e interrogativi stringenti attraverso una scrittura semplice e diretta, a tratti quasi spersonalizzata. […] Pier Lorenzo Pisano è riuscito così a individuare una particolare angolazione da cui parlare con sorprendente vitalità di ciò che ormai è divenuto quasi irrappresentabile, il mistero del legame che unisce una madre a un figlio».

Per il tuo bene, di cui Pisano cura anche la regia, dopo il debutto modenese al Teatro delle Passioni, in scena fino al 20 Gennaio, arriverà al Teatro Arena del Sole di Bologna dal 22 gennaio al 3 febbraio e allo Spazio Tondelli il 15 Febbraio. Una produzione di Emilia Romagna Teatro Fondazione, Arca Azzurra Produzioni e Riccione Teatro. Lo spettacolo è stato rappresentato, in traduzione francese, presso il Théâtre Ouvert (Parigi). La versione francese è stata inoltre presentata in apertura del Festival di Avignone 2018, nel programma “Forum des Nouvelles Écritures Dramatiques Européennes”

Un giorno, nasce un bambino.
È puro, intatto: non sa niente.
Poi, incontra i suoi genitori. E comincia ad imparare delle cose.
Magari inizia anche bene, con le poppate e tutto, ma dopo poco, pochissimo, i genitori sbagliano qualcosa. Spengono la luce all’improvviso, mettono la musica a volume troppo alto, insomma fanno un errore. Lui piange. E la valanga comincia a smuoversi.
Uno sbaglio alla volta, gli errori si accumulano. E il bambino continua a imparare.
Impara ad urlare, a buttare il cibo a terra, a dire le parolacce, a picchiare i suoi compagni di classe, a giocare a videopoker, a guidare contromano, e tutto perché, uno dopo l’altro, gli errori si sono accumulati, lo hanno danneggiato: è diventato un adulto, pieno di scelte sbagliate. Ed è pronto per riprodursi.
Questa è la famiglia.

Per il tuo bene Ph. Luca Del Pia

Per il tuo bene Ph. Luca Del Pia

Intervista a Pier Lorenzo Pisano

Iter produttivo: dalla vittoria del Premio Tondelli alla coproduzione di ERT

Vincere il premio è stato di per sé un bellissimo traguardo. Per fortuna è stato anche un trampolino, grazie al “sostegno alla produzione” di Riccione Teatro. Alla fine i produttori che mi hanno dato spazio e fiducia, e che ringrazio infinitamente, sono tre: Emilia Romagna Teatro Fondazione, Arca Azzurra Teatro e Riccione Teatro.

ERT è una casa accogliente e intelligente, che lavora moltissimo sul territorio. Mi hanno lasciato libertà creativa totale; ho trovato in Claudio Longhi, e nei suoi collaboratori, interlocutori aperti e appassionati, che si sono innamorati del progetto.

A proposito di lavoro sul territorio, recentemente ERT ha organizzato una serie di incontri legati al Premio Riccione, che si chiamano “Leggere il contemporaneo” con gli allievi attori della scuola dell’ERT che hanno letto i testi finalisti del Premio Tondelli. È qualcosa che non era mai stato fatto prima, e che aiuta a sensibilizzare alla nuova drammaturgia.

Durante le prove, come si è sviluppato il percorso di creazione?

Quando ho scritto “Per il tuo bene” la mia intenzione era che la drammaturgia stesse in piedi da sola, che funzionasse già in lettura. Poche didascalie, non avevo mai pensato a come sarebbe stato visivamente. Quindi mi sono immerso in un lavoro di riscoperta, prima da solo, poi con la scenografa e la costumista. Abbiamo creato qualcosa che secondo me riprende lo spirito del testo.

Lavorare con gli attori è stato molto interessante. Come autore e regista, sei il custode del significato di ogni virgola. Però è anche vero che in teatro le parole sono di chi le dice, ogni sera in carne ed ossa, sulla scena. E’ bello vedere come le cose si possano trasformare. Li ho lasciati liberi di fare proposte e invenzioni, sempre all’interno del testo che è rimasto invariato. I significati e le dinamiche sono state rinegoziate durante le prove, portando ad un arricchimento generale. Poi, dal momento che il periodo di lavoro era tra dicembre e gennaio, la pausa natalizia è stata molto utile perché gli attori potessero riscoprire e studiare consapevolemente come si sta in famiglia, tematica centrale dello spettacolo.

Per il tuo bene Ph. Luca Del Pia

Per il tuo bene Ph. Luca Del Pia

Gli attori in scena: un cast giovane ma con grandi potenzialità.

E’ un gruppo molto eterogeneo, anche se sono tutti di formazione teatrale. Non avendo un cast di attori fisso, me li sono andati a scovare in giro per spettacoli. Era una missione difficile perché tre ruoli su cinque sono molto giovani. Alcuni li ho scoperti ai saggi della Silvio D’Amico, altri in spettacoli più strutturati. La ricerca è stata molto ampia, geograficamente e temporalmente. Sono molto contento delle scelte fatte, durante le prove si è creata un’atmosfera molto positiva e propositiva. Si sono tutti appassionati al progetto, dai costruttori delle scene, al direttore di scena, al fonico, ecc, ogni giorno qualcuno mi portava delle piccole proposte da discutere insieme. Abbiamo montato molto rapidamente la struttura dello spettacolo, il lavoro vero è stato sugli attori. Ho voluto anche fare due o tre prove aperte per calibrare il rapporto col pubblico.

 

Per il tuo bene Ph. Luca Del Pia

Per il tuo bene Ph. Luca Del Pia

A distanza di tempo dalla prima scrittura, lavorando molto sulle intenzioni del testo, hai colto nuovi significati e prospettive attraverso cui osservare le storie raccontate in “Per il tuo bene”?

Spesso la famiglia è utilizzata come contenitore di storie, perché è un potenziatore di dinamiche: ogni rapporto in famiglia è più forte. In particolare “Per il tuo bene” è una piccola incursione sul significato stesso della famiglia, e su come possano funzionare questo tipo di relazioni così intense e così disastrose.

Una cosa che mi ha colpito molto, rileggendo il testo in vista delle prove, è quanto sia inevitabile, quando parli di nucleo familiare, parlare di società. Ad esempio, c’è il personaggio dello Sconosciuto: un esterno, l’uomo che incontri tutti i giorni per strada, praticamente una comparsa nella vita degli altri. È incredibile come certi discorsi che nel testo sono riferiti alla famiglia, si riflettano sulla contemporaneità. Se leggi adesso il monologo dello Sconosciuto dove dice: “Io non sono famiglia…” pensi subito alla politica recentissima, e a situazioni che non esistevano o erano ancora in potenza al momento della scrittura.

Dopo un brillante periodo di prove, “Per il tuo bene” è pronto per il debutto: cosa ti auguri per questo spettacolo e per il suo pubblico?

Sarei contento se alla fine dello spettacolo uno spettatore chiamasse la madre per chiederle: “Come stai?”.

Per il tuo bene

testo e regia Pier Lorenzo Pisano
scene Giulia Carnevali
luci Vincenzo Bonaffini
costumi Raffaella Toni
musiche originali Mattia Persico
assistente alla regia Camilla Brison

con

Laura Mazzi – Madre/Nonna
Marco Cacciola – Zio/Sconosciuto
Edoardo Sorgente – Figlio
Alessandro Bay Rossi – Fratello
Marina Occhionero – Ragazza
direttore tecnico Robert John Resteghini
direttore di scena Marco Fieni
capo elettricista Vincenzo De Angelis
fonico Pietro Tirella

scene costruite nel Laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione

capo costruttore Gioacchino Gramolini

costruttori Marco Fieni (costruzioni in ferro), Sergio Puzzo, Riccardo Betti

scenografa decoratrice Lucia Bramati
grafica AMS LAB
foto di scena Luca Del Pia

Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Arca Azzurra Produzioni, Riccione Teatro

Testo vincitore del 12° Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli”

ZONA ROSSA, teatro “casa e puteca”

ZONA ROSSA, teatro “casa e puteca”

Dall’avvento della pandemia, due sono le giornate che hanno segnato il corso degli eventi per il comparto culturale: il 4 marzo e il 24 ottobre 2020. In queste date il sipario del teatro italiano è calato definitivamente. I blocchi dell’attività spettacolare hanno incentivato la proliferazione delle più disparate reazioni artistiche: nel mese di marzo, e in quelli a venire, la creazione artistica si è riversata sul web portando il mondo del teatro a confrontarsi con le possibilità offerte da altri linguaggi.

Con la riapertura dei luoghi della cultura, avvenuta in primavera, gli esperimenti mediali hanno lasciato spazio a fervidi dibattiti sulla preservazione dell’artigianalità del mestiere, minacciato come appare dalla componente multimediale, in assenza del teatro.

La messa in sicurezza delle sale teatrali non ha evitato la seconda chiusura intercorsa nel mese di ottobre. Un duro colpo per l’intero settore che ha saputo unirsi per levare alto un grido di aiuto e di affermazione. A questa seconda fase pandemica, che a differenza della prima consente lo svolgimento delle attività spettacolari purché in assenza di pubblico, il teatro ha reagito dedicandosi al processo creativo, avendo modo di dilatare il tempo della creazione rispetto alle prassi vigenti in epoca pre-Covid. 

In questo contesto si inserisce Zona Rossa, il progetto ideato da Daniele Russo e Davide Sacco, che ha trasformato il Teatro Bellini di Napoli in una bottega teatrale, una casa, abitata da un gruppo di artiste e artisti.

Come in un reality show pensato per il web, le telecamere seguono i momenti quotidiani e il processo creativo portato avanti da Alfredo Angelici, Federica Carruba Toscano, PierGiuseppe di Tanno, Licia Lanera, Pier Lorenzo Pisano, Matilde Vigna, i 6 artisti che porranno fine alla loro permanenza al Bellini solo quando un nuovo DPCM sancirà la riapertura al pubblico dei teatri. Una fuoriuscita che avverrà attraverso la porta principale, il palcoscenico, con lo spettacolo creato durante questo lockdown teatrale.

Adattandosi alla sperimentazione portata avanti dal progetto, Simone Giustinelli e Stefano Patti, ideatori de L’ultimo nastro di Krapp ―  il programma radiofonico che ha dato voce alla crisi del settore durante la quarantena ― documenteranno il viaggio di Zona Rossa con una docuserie in quattro episodi.

Intervistato, Daniele Russo, direttore artistico del Teatro Bellini di Napoli, racconta questo esperimento sociologico dalla grande eco mediatica, con un focus sul report realizzato da L’ultimo nastro di Krapp.

Nella presentazione del progetto Zona Rossa viene definita un’installazione, una performance, una provocazione, un manifesto. A quali delle tematiche emerse nel dibattito sul blocco dello spettacolo dal vivo e sul ruolo della cultura in Italia si rivolge questa provocazione e con quali obiettivi? Quali sono i “punti” di questo manifesto?

Daniele Russo: Zona Rossa nasce dalla voglia di non fermarsi, una voglia che avevamo testimoniato già con il progetto di Piano Be, che ha rappresentato per noi un modo di reinventare la programmazione e l’utilizzo dello spazio. Avevamo cercato una maniera più dinamica di sfruttare al meglio i soli 200 posti agibili contro i 900 di capienza effettiva. 

Zona Rossa è, innanzitutto, un modo per rendere produttivo un tempo potenzialmente morto, in cui mettere in discussione le dinamiche giuste e sbagliate del nostro settore, visibili già in epoca pre-Covid. Alla base di Zona Rossa c’è quindi il pensiero che il teatro si faccia in teatro e a prescindere dalla smania di qualche artista di far valere la propria conoscenza, il proprio nome, riversando il il teatro in altri linguaggi ― perché questo sono lo streaming e la televisione ― e finendo per svenderlo. Noi non ci siamo voluti piegare.

Se poi tra due anni saremo ancora con le sale chiuse, probabilmente anche noi inizieremo a produrre cinema, perché al teatro per il cinema non credo più di tanto. La risposta immediata, nel marzo scorso, fu quella di rendere i nostri spettacoli fruibili in podcast, ritornando alla forma del radiodramma, ma non abbiamo mai messo un nostro spettacolo interamente online. Abbiamo creduto fortemente che diffondere il processo creativo di uno spettacolo teatrale, potesse essere sia un modo per far conoscere qualcosa di poco noto, sia un modo per utilizzare il nostro linguaggio ― che è quello del teatro ―, insieme a quello della tv, dello streaming. 

Zona Rossa è una sorta di programma TV: ci rifacciamo alla regia televisiva, abbiamo utilizzato un altro linguaggio per i nostri contenuti, ma senza cambiare la frontalità, la polvere, l’odore del teatro. Abbiamo semplicemente aperto una finestra su una parte di teatro che il grande pubblico non conosceva e in questo ci siamo sentiti molto aderenti al nostro pensiero. 

Per quanto riguarda l’aspetto produttivo, quando ho presentato il progetto ho sottolineato come, pur essendo alla guida della direzione artistica del Teatro Bellini, ed essendo quindi editori prima ancora che artisti, io e mio fratello non sempre riusciamo a dedicarci ai progetti spettacolari che abbiamo maggiormente a cuore. 30 giorni di prove sono quasi il tempo “ufficiale” da dedicare al processo creativo, ma è un’ufficialità che non può essere adottata in maniera generalizzata, poiché ciascuno spettacolo dovrebbe avere a disposizione il proprio tempo di gestazione

Una maggiore attenzione nei confronti dell’atto creativo è necessaria, invece si è finiti per standardizzare la formula. Zona Rossa è un’operazione a lungo termine: gli artisti hanno intrapreso questo percorso senza un’idea precostituita del lavoro che avrebbero fatto, per cui il tempo andava necessariamente ampliato e non solo per l’azione in sé che è legata al DPCM, ma anche e soprattutto artisticamente. 

Il fatto che il gruppo non si conoscesse, non solo ha allungato ulteriormente il tempo della creazione, ma ha proiettato Zona Rossa, e il teatro tutto, in una dinamica da esperimento sociologico che riporta al centro il concetto di tempo di creazione e la possibilità del fallimento. Il gruppo di Zona Rossa dovrà certamente uscire dalla porta principale, il sipario, con uno spettacolo ma se dovessero fallire nell’idea primordiale, cioè quella di un progetto di gruppo fortemente vissuto, andrebbe bene anche così. Questo è un altro concetto che, per quanto riguarda il teatro, non ci è concesso nell’Italia del numerificio ministeriale. 

Non mi piace parlare di manifesto perché non ho la presunzione per redigere un manifesto, ma credo che le istanze che il progetto porta con sé possano essere condivise da qualunque artista. Legarsi al DPCM è per noi una richiesta di attenzione politica: abbiamo vissuto il primo passaggio del DPCM che ci ha rimandati alla chiusura del progetto entro il 5 marzo, ma tutto ciò è avvenuto senza che si parlasse del teatro. Questa è un’altra istanza presente in Zona Rossa: parlate di noi.

La mediaticità che il progetto ha acquisito è un bene per il settore. Essendoci difesi con i contenuti abbiamo potuto accettare anche l’accostamento che alcuni hanno fatto tra Zona Rossa e il Grande Fratello. 

Il teatro deve avere il coraggio di essere mediatico, popolare rispetto al discorso, non rispetto a quello che portiamo in scena. Dovremmo essere parte del processo, anzi dovremmo essere il fulcro della ripartenza. Zona Rossa vuole contribuire a gridare la necessità del teatro.

Il fatto che gli artisti stiano vivendo un nuovo lockdown a distanza di pochi mesi, rinchiudendosi in teatro con 5 sconosciuti, sacrificando la vicinanza degli affetti in un momento in cui crollano certezze e abitudini, ha proprio lo scopo di riaffermare l’utilità di questo lavoro, non tanto a livello di tutele sindacali quanto di centralità.

Zona Rossa rappresenta una possibilità concreta di coinvolgere l’audience nel processo creativo e di documentarlo. In che misura la presenza virtuale del pubblico nella fase di costruzione dello spettacolo sta incidendo sulla creazione? 

DR: Misurandolo in termini numerici, il progetto sta avendo una grande visibilità. Il mio grande dispiacere è che, pur avendo avuto questa operazione una grande eco mediatica, il teatro non ha la capacità di imporsi sui grandi numeri. Se il coraggio fosse maggiormente diffuso, un progetto come Zona Rossa potrebbe “teatralizzare” molte più persone di quanto non riesca a fare con la forza di un solo teatro. 

Mi rendo conto che il teatro ha importanti potenzialità, per questo annunciai Zona Rossa come un atto di fede e di amore verso il teatro: credo nella forza del teatro e soprattutto di ciò che avviene dietro le quinte, del processo. Il processo attiva la mente, è interessante, incuriosisce, fa viaggiare. Vorrei che la televisione si rendesse conto di questo e che, le rare volte in cui programma il teatro, non si occupasse solo di divi prestati al teatro o di riprese di spettacoli, ma che facesse trasmissioni sul teatro. 

Durante la prima settimana di lavoro, ho suggerito agli artisti di far entrare di più il teatro nello streaming e meno lo streaming nel teatro. Tornando al sotteso discorso sociologico, bisognerebbe lasciare i cellulari all’ingresso del teatro, disconnettersi dal mondo. Da questo punto di vista, il processo creativo è stato inquinato. Occorre tener presente, poi, che da un punto di vista artistico, paradossalmente non siamo abituati a un eccesso di libertà. 

Zona Rossa è un esperimento e io sono convinto che gli artisti faranno un grande lavoro, perché tutti hanno una profonda sensibilità. Il processo resta la parte più importante e più rischiosa di ciò che stanno facendo, perché anche rispetto al settore svelare le proprie modalità creative è una grande responsabilità.

L’avvento della pandemia ha posto nuova luce sulle possibilità dello streaming e dei processi mediali applicati allo spettacolo dal vivo, non senza polemiche. Qual è la tua posizione in merito? L’operazione messa in campo con Zona Rossa è un esperimento che si nutre dell’attualità o vuole rappresentare anche una risposta possibile? 

DR: Sì, vuole sicuramente rappresentare una proposta possibile. Tutti i teatri italiani avrebbero dovuto e potuto mettere in campo quest’operazione, facendole così acquisire una forza maggiore. Ciascun teatro avrebbe potuto definire la propria linea editoriale attraverso la scelta degli artisti coinvolti. Noi non abbiamo inventato nulla. Abbiamo avuto solo il coraggio di credere fortemente che il teatro inteso come mondo e non come semplice restituzione dello spettacolo potesse essere interessante. Invece è ancora dilagante l’idea che il teatro sia lo spettacolo. 

L’incontro tra gli spettatori, l’ascolto della voce reale dell’attore o dell’attrice, l’errore del tecnico o dello scenografo, fanno parte del teatro, sono la vita del teatro e sono il motivo per cui il teatro funziona. Da spettatore, non ho bisogno di vedere un prodotto artigianale inserito in un contenitore industriale ― perché il cinema è un’industria. Nel momento in cui riprendi la parola, il gesto, l’emozione, con una telecamera stai utilizzando un linguaggio che è proprio del cinema, al di là dei modi in cui decidiamo di chiamarlo.

Mi sentirei inadatto, come attore, a trasporre un mio spettacolo per la televisione, perché difendo l’artigianato del mio mestiere. Alternativamente, se si decide di adattarsi allo streaming, occorre pensare a qualcosa che abbia senso a prescindere dal Covid, a un’operazione che abbia una componente tecnica che necessita e che impone lo streaming.

L’ultimo nastro di Krapp è un progetto nato alcuni anni fa, rimodellato e riproposto durante il lockdown per raccontare il blocco del settore culturale, in particolare quello dello spettacolo dal vivo. Come è cambiato il progetto dagli esordi fino al format L’ultimo nastro di Krapp #Homedition?

Simone Giustinelli: L’ultimo nastro di Krapp nasce da un grande senso di solitudine. Nel 2015 avevo deciso di passare un periodo da eremita in un paese della Ciociaria con qualche centinaio di anime. Ero avvolto in questa grande solitudine e lì ho pensato a L’ultimo nastro di Krapp, un programma radiofonico andato in onda per due stagioni.

Stefano Patti: Il tema della solitudine è importante. Abbiamo proprio pensato a un modo per mettere in dialogo le persone tra loro, creare delle connessioni. In un momento come quello del lockdown, non c’era nulla da “valutare” artisticamente, ciò che per noi era davvero importante era parlare degli artisti e lasciare che i critici per un momento ragionassero sulla funzione della critica, mentre noi fossimo indotti a ragionare sulla funzione dell’arte che veniva fortemente messa in discussione. 

SG: Volevamo che in quella trasmissione entrasse il presente. La soluzione che abbiamo trovato, che è qualcosa che un pò ci portiamo dietro anche ora, è stata chiedere alle persone delle cose riguardo ai loro desideri, per sollecitare la capacità di programmare, di inventare il futuro. Quando i problemi diventano molto grandi sembra che il futuro non esista più, mentre il futuro esiste sempre, è l’unica certezza.

SP: Io sono principalmente un attore e il rischio di questo mestiere risiede spesso nel chiudersi nei propri problemi e nelle proprie esigenze, non avendo l’opportunità di confrontarsi liberamente con le diverse professionalità del settore. Con #Homedition abbiamo raccolto diversi sguardi, quello dei direttori di festival, degli organizzatori, dei registi, in questo è stato decisamente illuminante. 

SG: Credo sia necessario riflettere sul valore della costruzione dei legami. All’interno di #Homedition abbiamo anche fatto in modo che delle persone si conoscessero. Alcuni ci hanno detto che grazie a Krapp, durante il lockdown, hanno potuto fare degli incontri imprevisti. Una piacevole scoperta è stata il fatto che abbiamo ospitato persone che si sono assunte la responsabilità del loro ruolo di artisti.

SP: Nel corso delle puntate, L’ultimo nastro di Krapp è diventato una sorta di foyer virtuale in cui, anche dopo la trasmissione, tutti gli ospiti potevano incontrarsi, condividendo degli spunti interessanti, dei principi di collaborazione. Il dialogo è diventato reale quando abbiamo trovato un equilibrio tra la nostra mission, fare informazione creativa, e il preservare una sorta di anarchia rispetto a ciò che sarebbe potuto accadere in puntata. 

#Homedition ha condotto alla collaborazione con festival e teatri per il racconto di eventi e programmazioni: da #Mezzogiornodifuoco, il ciclo di interviste con cui avete approfondito la ripresa delle attività del Teatro Stabile di Catania, a #PianoBe del Teatro Bellini di Napoli interrotto, insieme alla programmazione, a causa della nuova chiusura dei teatri intercorsa nel mese di ottobre. Con Zona Rossa, il Teatro Bellini ha avviato un progetto che indaga il processo creativo, rendendolo fruibile per il pubblico. Come si struttura l’intervento di L’ultimo nastro di Krapp per la narrazione di Zona Rossa?

SG: Dopo la chiusura dei teatri di ottobre abbiamo dovuto ripensare le azioni di Krapp. Da un lato c’era la volontà di continuare un percorso che era iniziato e si stava sviluppando con due strutture importanti come il Teatro Bellini di Napoli e lo Stabile di Catania; dall’altra non potevamo non riconoscere quanto quella seconda chiusura avesse inciso sugli umori e sulle speranze di un intero settore, lasciando tutti noi senza parole. 

Ci è sembrato inopportuno, all’inizio, continuare le nostre attività ― pur se pensate per un ambiente digitale, pur se costruite e sviluppate per una produzione e una fruizione a distanza. Abbiamo parlato con Daniele Russo e con Laura Sicignano e con loro abbiamo deciso di aspettare, e nell’attesa maturare un pensiero più consapevole, una risposta piccola ma decisa all’ennesima mortificazione. È stato il periodo in cui, d’altro canto, abbiamo sostenuto un progetto come Litura, in cui artiste e artisti hanno prestato la loro schiena per guardare con il pubblico la desolazione dei palcoscenici vuoti.

Zona Rossa è poi arrivato improvviso e incendiario come il risveglio di un vulcano. Abbiamo pensato potesse essere l’occasione giusta per ristabilire un contatto con la programmazione del Bellini, con il loro e il nostro pubblico, e un modo per metterci ancora una volta in discussione in termini di linguaggi e modalità di lavoro. La forma che abbiamo scelto è quella del documentario

SP: Tenda e zaino in spalla, siamo andati ad accamparci sul palco grande del Teatro Bellini e abbiamo vissuto per tre giorni con gli artisti residenti, raccogliendo voci, suoni, immagini, momenti di ordinaria follia, di uno dei progetti più unici e accattivanti nati in questo momento in Italia. Nascerà un documentario in quattro puntate, per raccontare, con gli occhi de L’ultimo nastro di Krapp, il progetto di Zona Rossa con i suoi protagonisti.

Per noi si tratta di un formato nuovo, dell’ultima piccola scommessa da teatri in lockdown che abbiamo fatto con noi stessi e che vuole essere il nostro modo per dire che il comparto dello spettacolo è vivo, continua a produrre idee, provocare, edificare. Ci siamo, insomma, nonostante tutto e faremo il possibile per continuare a esserci.

La forza de L’ultimo nastro di Krapp è la capacità di mettere in relazione diverse modalità di fruizione (la radio, il video) e dunque diversi linguaggi mediali con lo spettacolo dal vivo. Qual è, nella vostra esperienza, il rapporto che intercorre tra spettacolo dal vivo, comunicazione e New Media? 

SG: Il rapporto è ancora troppo debole. Con Stefano stiamo cercando di capire come la nostra comunicazione, cioè il racconto dell’Ultimo nastro di Krapp possa diventare sempre più popolare: in Italia ci sono dei media che il teatro non utilizza affatto come il cinema, la sala cinematografica intesa come medium, la televisione, la radio, privandosi di fatto di settori di pubblico. In qualsiasi discorso programmatico di un direttore teatrale sentiamo dire che la stagione vuole essere popolare, inclusiva, orizzontale. 

Questa affermazione, che è molto corretta, ha bisogno anche di un ragionamento profondo su come questo prodotto culturale e popolare, elaborato da una direzione artistica, venga comunicato. Non penso che le storie che avvengono in teatro siano meno divertenti o meno accattivanti di quelle che avvengono in televisione anzi, l’aspetto umano e “analogico” dello spettacolo dal vivo fa sì che il rapporto tra spettatori e scena sia molto più intimo di quello che si crea mediante un prodotto televisivo. Credo che debba essere rimossa la patina di diffidenza nei confronti della comunicazione su ampia scala: questa è la vera sfida per lo spettacolo dal vivo in questo momento.