È morto a Parigi il 15 aprile 2020 l’attore e regista Bruce Myers.
Nato nel 1942 a Radcliffe (Inghilterra), Bruce Myers ha frequentato la Royal Academy of Drama Art a Londra. Diventa presto attore della Royal Shakespeare Company fino all’incontro con Peter Brook nel 1970, col quale lavora a tutti gli spettacoli del Centro Internazionale di Creazione Teatrale che Brook dirige a Parigi al Theatre Bouffes du Nord e compiendo tournée in tutto il mondo.
Alcune tra le più importanti messe in scena alle quali ha partecipato sono: The Mahabharata, Amleto, La Tempète, Il grande inquisitore e Love is my sin. Lavori cinematografici cui ha preso parte sono stati L’insostenibile leggerezza dell’essere di P. Kaufman, Mahabharata di P. Brook, Le petit lieutenant di X. Beauvois. Negli corso degli anni ha firmato varie regie teatrali, tra cui Il Dibbuk di Semën An-skij e il Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare, in co-regia con Luca Giberti. Ha diretto workshop in diverse città del mondo, da Rio de Janeiro ad Adelaide, New York, Gerusalemme, Londra, Vienna, Melbourne e tante altre.
In Italia ha collaborato col Piccolo Teatro di Milano, alla Biennale Teatro di Venezia e dal 2009 con il Centro di Creazione Teatrale Internazionale “Policardia Teatro” in Versilia; oltre a tenere spesso laboratori in varie città italiane come a Roma, da alcuni anni è docente presso l’Accademia nazionale d’arte drammatica, Ferrara, Torino e Palermo.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Il teatro è l’arte dell’essere umano o dell’uomo come essere: contiene in sé tutti i linguaggi artistici possibili. Lo strumento – e nello stesso tempo il soggetto – del teatro è il corpo umano, sia nella sua materialità che immaterialità. Il teatro è contemporaneamente musica, danza, pittura, scultura, poesia, e infine, scrittura.
Il rapporto tra teatro e scrittura è ambiguo: si può scrivere di teatro, sul teatro o per il teatro, ma non si può scrivere teatro. Grammaticalmente e logicamente non ha senso. Eppure, c’è l’opera di un’artista del Novecento che ci dimostra che è possibile scrivere teatro: l’opera di Antonin Artaud.
Antonin Artaud
In una fantomatica biblioteca della letteratura teatrale della storia, una sezione sarebbe sicuramente dedicata a tutti quei testi che hanno l’obiettivo di trasmettere e descrivere i principi creativi e la genesi di fenomeni teatrali determinanti nella storia del teatro. Questi testi possono avere svariate forme di genere e di stile: possono avere la forma di un diario, di un saggio, di un racconto. Sono dei testi che sfuggono ad ogni etichetta di sorta, che potrebbe avere come denominazione comune l’antropologia teatrale: sto parlando di testi come “Il punto in movimento” di Peter Brook, “Scritti Teatrali” di Brecht, “Per un Teatro Povero” di Grotowski. Questo genere di scrittura vive una contraddizione genetica: la volontà pedagogica e antropologica che spinge questi autori a scrivere questi testi non è quella di creare emulatori e “musei” ispirati ad essi, ma è quella di far riflettere in maniera profonda sulle domande che hanno spinto questi artisti a ricercare altro rispetto al modello del teatro vigente, rispetto a come si fa teatro nella norma, e a sperimentare contaminazioni diverse che hanno prodotto e producono stili diversi che oggi, a volte a torto, sono diventati la base degli insegnamenti scolastici delle accademie. Il paradosso è che proprio quella stessa scrittura, nata per una riflessione profonda sui processi produttivi artistici del teatro, ha prodotto involontariamente proprio quegli stessi musei ed emulatori che hanno cristallizzato in forme eterne processi fluidi come quelli della creazione collettiva del teatro stesso: ma, come in ogni fenomeno dell’essere umano, c’è sempre l’eccezione che conferma la regola, e questa eccezione è la scrittura di Artaud.
Antonin Artaud (1896-1948) è un’artista che vive un profondo paradosso. La sua opera ha influenzato tantissimo la cultura teatrale, sia pratica che teorica: molti fenomeni teatrali sono stati definiti o si sono auto-definiti artaudiani, in maniera propria e non, e molti filosofi, scrittori, perfomers hanno basato le loro ricerche o sono stati influenzati in maniera decisiva dall’opera dell’artista marsigliese. Ma, se andiamo ad osservare la sua carriera artistica, la sua produzione come artista autonomo in teoria non giustificherebbe la sua influenza nel mondo del teatro. La sua carriera nel mondo del teatro dura dal 1920 al 1935, dall’anno in cui si trasferì a Parigi, fino al viaggio in Messico. Dopo la formazione iniziale e la collaborazione a vario titolo con l’atelier di Charles Dullin, Artaud comincia la sua carriera da attore, sia di teatro che di cinema; anche se lavora con i migliori registi dell’epoca, come Louis Jouvet, Pitoëff, Lugne-Poe per il teatro, Carl Dreyer, G.W. Pabst, Able Gance e Fritz Lang per il cinema, la brevità dei ruoli e l’incostanza del lavoro non gli permetteranno mai di acquisire un certo status economico. Come regista, la carriera di Artaud si può racchiudere in due esperienze essenziali: il progetto del Thèâtre Alfred Jarry (1927-1930), condivisa con Robert Aron e Roger Vitrac e che organizza in tutto solo 4 eventi, e la messa in scena de “Les Cenci”, l’unico testo scritto diretto e interpretato da Antonin Artaud nel 1935, che va in scena per un mese per un totale di 17 repliche. “Les Cenci” rappresentano forse il punto più alto della carriera da regista di Artaud, e nello stesso tempo, la fine, perché dopo il suo fallimento Artaud deciderà di partire per il Messico, e da lì in poi, non avrà più le possibilità materiali per andare in scena con un suo testo fino alla sua morte.
La storia del teatro ci insegna che non è certo la quantità a dare valore ad un’esperienza artistica, ma la vera assenza nella carriera di Artaud è quello di non esser mai riuscito, nonostante i numerosi tentativi, a creare un gruppo di lavoro con cui portare avanti delle idee. Artaud collaborava con molti artisti, soprattutto scrittori e pittori, ma non riuscì mai a creare i presupposti materiali e artistici affinché si creasse intorno alla sua figura quella piccola comunità che si instaura in un lavoro teatrale. Non si può parlare di Grotowski, senza parlare di Ryszard Cieślak, oppure non si può parlare di Brecht senza parlare di Kurt Weill, o Helene Weigele: dietro questi artisti c’è sempre un microcosmo di collaboratori, attori, assistenti a volte determinanti per la riuscita di un progetto artistico. Dietro ad Artaud, non esiste questo microcosmo. Allora cosa rimane in Artaud? La sua scrittura, che viene incarnata nel suo testo più importante, “Il Teatro e il suo doppio”, una miscellanea di saggi scritti all’inizio degli anni Trenta. La scrittura in Artaud non è la trasmissione di un’esperienza, ma diventa l’esperienza stessa, perché non potendo lavorare con un gruppo di lavoro, essa diventa la sua “fortezza”, come scrive la sua biografa Florence de Mèredieu nella sua biografia di Artaud, cioè diventa il campo in cui poter esercitare la sua idea di arte. Il progetto artaudiano non era semplicemente un voler riformare il teatro, ma tutta la Cultura dell’Uomo Occidentale, e riconnetterla con i ritmi più fecondi della Vita. La scrittura di Artaud mantiene intatto i processi vitali del pensiero umano: sfida costantemente le figure logiche e grammaticali, creando uno stile di scrittura performativa che mantiene in vita i processi creativi. Inconsciamente, Artaud ha creato un possibile modello di “scrivere teatro”, una scrittura che non diventi narrazione o trasmissione cristallizzata in formule da emulare o da appendere in un museo, o che usi formule pre-esistenti che sterilizzano ogni contaminazione feconda, ma una scrittura che attraverso immagini, contaminazioni, segni grafici cerca di ricreare il ritmo creativo del Teatro, e quindi, dell’essere umano. L’opera di Artaud è una vera e propria performance: Artaud detta ad alta voce, buca i fogli, lascia il segno grafico visibile, tortura il soggetto e l’oggetto affinché la sua scrittura possa mantenersi vitale.
Il teatro di Artaud, essenzialmente, non esiste, e chiunque si dica di seguire un modello artaudiano di teatro, sbaglia; ma questo non vieta di poter prendere ispirazione dell’opera di questo artista e dai suoi testi.
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