Paola Landini, diplomatasi ragioniera, ha subito vissuto in controtendenza il nostro mondo e la nostra società. Non ha infatti preso in considerazione i consigli dei genitori di un “lavoro sicuro”, iscrivendosi al corso di Progettazione di Costumi per lo Spettacolo dell’Università di Firenze. Dal 2008 in poi ha cominciato a tessere la sua trama del suo lavoro, entrando nelle sartorie dei teatri italiani, accompagnando artisti in tournée e collaborando nei numerosi festival, che ormai sembrano solamente un timido e sbiadito ricordo.
In questa intervista Paola Landini racconta il collettivo Sarte di Scena, che fin dal primo lockdown si è distinto per attivismo e mutua assistenza all’interno della categoria dei tecnici teatrali, molto colpiti dalla pandemia e dalla crisi sociale in atto.
Come nasce il collettivo Sarte di Scena e quali sono le rivendicazioni che portate avanti?
Il movimento è nato come gruppo Whatsapp tra colleghe e colleghi per condividere informazioni, scambiarsi proposte e idee. Da marzo, con il blocco di tutte le attività incluse quelle teatrali, il nostro lavoro si è improvvisamente azzerato, per tutti noi, dato che siamo in percentuale altissima lavoratori a tempo determinato, a partita iva o con contratto di lavoro intermittente.
Da un momento all’altro ci siamo ritrovati senza aver nessun lavoro, con contratti scaduti e che non sono più stati rinnovati; da quel momento è partita la necessità di allargare il gruppo a sempre più persone e conoscenti o colleghi di lavoro di tutta Italia, per sostenerci e darci una mano a vicenda e destreggiarci tra sostegni al reddito, i pochi lavori disponibili, i sindacati, l’Inps e in generale tutta questa situazione. Da 15-20 persone ora siamo arrivati a essere quasi 80 tra sarte e sarti; in più grazie ai social riusciamo a comunicare e interagire anche con altri gruppi di categorie di lavoro.
Da gruppo di condivisioni di esperienze positive a una comunità e a un collettivo di mutua assistenza e di lotta
Abbiamo colleghe e colleghi sparsi in quasi in tutte le regioni, così riusciamo ad avere un quadro complessivo di quello che succede e di quello che è successo anche a livello nazionale, in teatro, cinema, televisione e pubblicità. Collaboriamo anche con altri gruppi con cui stiamo cercando di farci sentire e, ad esempio, il 10 dicembre siamo riusciti ad arrivare al tavolo del Mibact insieme ad altri 83 movimenti.
Continuiamo a collaborare con loro e, il 6 gennaio a Milano, abbiamo dato vita a una manifestazione, Cultural Mass, in cui abbiamo chiesto il supporto anche al mondo della cultura e della scuola, altri 2 settori molto sacrificati in questo periodo.
La tua categoria è stata molto colpita come tutte quelle dei lavoratori della cultura, quale pensi sia il vulnus, il vero punto debole da risolvere?
Il problema è che la maggior parte dei lavoratori della nostra categoria è precaria. Il problema però è sistemico; il mondo del lavoro negli ultimi anni è diventato sempre più precario, aleatorio e nel mondo della cultura e dello spettacolo, dove si lavora per allestimenti o progetti, è ancora più difficile dare una stabilità al lavoratore. Prima della pandemia, nel 2019 il Mibact si era attivato per allargare le piante organiche dei teatri, dopo che dal 2005 era tutto fermo. Da quell’anno raramente si era sostituito chi era andato in pensione.
Quella era veramente una grande opportunità per il nostro settore, attraverso i bandi di concorsi pubblici per assumere personale a tempo indeterminato, ma poi è arrivata la pandemia e ha sotterrato tutto. Pochissime sono state le assunzioni nel 2019 con questo sistema. Ad oggi nessun teatro ha idea di prendere a tempo indeterminato qualcuno nel nostro settore, perché è molto più comodo e facile averci precari. A noi in parte la precarietà andava anche bene, perché questo ci dava l’opportunità di lavorare ovunque, in qualsiasi produzione, sempre con la valigia in mano, ma quando cominci a salire con l’età diventa difficile questa vita “nomade”.
Stiamo lottando molto per far sì che vengano fatti almeno dei contratti stagionali, ma adesso, dopo la pandemia vorrebbero ricorrere ai contratti intermittenti, precarizzando ulteriormente questo mondo. Questa cosa è orribile e noi ci stiamo ribellando in tutti i modi, attraverso sindacati e avvocati privati, persino rifiutando quei pochi lavori che ci vengono offerti in questa modalità.
E i sindacati?
In alcuni casi c’è collaborazione, mentre in altri c’è corporativismo, tutelando il lavoratore a tempo indeterminato e non il precario e questo è stato ammesso anche da alcuni livelli nazionali. Non voglio in alcun modo generalizzare, perché ci sono anche realtà sindacali che si battono per tutti i lavoratori, indistintamente dalla loro forma contrattuale, ma è innegabile che questo sia un grande problema, ci sentiamo abbandonati e a volte costretti a rivolgerci a privati anche quando non vorremmo.
Anche all’interno del teatro è difficile farsi aiutare; storicamente, nel campo del teatro lirico, ci sono delle categorie, come quelle del coro o dei musicisti, indubbiamente più forti che riescono a far valere le loro ragioni molto di più rispetto ai tecnici o ancor meno a noi sarti e costumisti. Alcune volte ci sentiamo trattati come niente, lasciati completamente da parte, quasi invisibili.
I lavoratori invisibili, il caso della Fondazione dell’Arena di Verona…
Come quando nel corso dell’anno appena terminato, la Fondazione dell’Arena di Verona ha fatto scoprire attraverso i giornali a 600 dipendenti stagionali, tra cui la sottoscritta che lavora lì da 10 anni e altri addirittura da 25, che quell’estate non avrebbero lavorato. Non c’è stata nessuna comunicazione scritta, neanche via email da parte della Fondazione, poiché essendo assunti ogni anno da aprile a settembre, formalmente noi non siamo loro dipendenti, per cui loro non avevano nessun obbligo di comunicazione nei nostri confronti. È stato veramente orrendo, nella sostanza ci hanno detto “voi non esistete”.
In questo caso i sindacati hanno fatto la loro manifestazione nella mattinata, mentre i lavoratori autorganizzati ne hanno avuta un’altra nel pomeriggio. Ecco, quello che manca è una collaborazione tra queste due forze che vogliono la stessa cosa, così come per i sindacati di base. Noi sarte di scena ci siamo poste anche l’obiettivo di far collaborare i lavoratori teatrali, i sindacati confederati e quelli di base, per poter andare in un’unica direzione e trovare una soluzione, ma è molto difficile. Esistere, lavorare ed essere invisibili.
Si parla molto di ItsArt, la Netflix della cultura proposta dal ministro Franceschini, cosa cambierebbe per il vostro settore, come vedete questa proposta?
ItsArt è ancora in costruzione, con un indirizzo email a cui puoi mandare la tua idea di spettacolo. Non c’è scritto chi può inviare cosa, non ci sono requisiti o criteri né tanto meno alcuna spiegazione. Dal mio punto di vista, se il Ministero fa una proposta simile dovrebbe avere un progetto forte, un’idea concreta e definita; ad ora invece sembra un contenitore vuoto dove tu puoi inviare delle “cose”.
Come Sarte di Scena faremo un’assemblea a proposito su quest’argomento e invieremo una richiesta di maggiori informazioni all’indirizzo email di ItsArt, chiedendo quali sono i criteri di ammissione e quali sono i vantaggi che ne trarrà la categoria, perché il ministro Franceschini fino ad ora non lo ha mai spiegato.
In questa operazione, poi, non si pensa alle piccole compagnie che si chiedono se valga la pena investire denaro per uno spettacolo che non possono svolgere in un teatro, né portarlo in tournée. Potranno inserirlo su questa piattaforma ma per guadagnare quanto? E se nessuno lo compra? La scelta della piattaforma poi sembra voler andare nella direzione di accontentare maggiormente un pubblico straniero piuttosto che quello nazionale e questo non è accettabile.
Per quanto riguarda l’idea dello streaming, attivo in Italia già da diversi anni attraverso siti web, piattaforme regionali e la Rai, per noi è da utilizzare in contemporanea con lo spettacolo dal vivo, perché banalmente uno spettacolo caricato in rete toglie alle maestranze giornate lavorative, potendo andare in onda illimitatamente.
In teoria esiste un contratto nazionale che regola lo spettacolo in streaming e il pagamento delle persone, perché, sempre in teoria, dovresti essere pagato di più data la sua infinita replicabilità. In realtà questa cosa non viene mai applicata e quindi i lavoratori percepiscono la paga dei giorni in cui lavorano effettivamente e basta.
Questo è un altro problema anche perché molti teatri in questo periodo hanno deciso di non mandare nulla in streaming, ricevendo ugualmente i finanziamenti. Le Fondazioni Lirico Sinfoniche ad esempio, non avendo gli obblighi di rendicontazione del FUS, hanno messo in piedi solamente qualche concerto, eliminando totalmente la parte tecnica e quindi noi sarti, costumisti, scenografia, trucco e parrucco, che non abbiamo più lavorato.
Per conoscere un po’ meglio il tuo mestiere ti chiediamo, secondo te, è l’abito a fare il monaco o il contrario? Quanto conta l’abito di scena ai fini dell’interpretazione attoriale, quanto conta per il pubblico?
L’abito, insieme al trucco e parrucco, conta tantissimo per far entrare l’artista nel personaggio, dobbiamo saper ascoltare, capire la personalità di chi si ha davanti, oltre all’aspetto fisico. La sarta, possiamo dire, ha un compito psicologico, perché oltre a mettere in misura il costume, deve anche capire se quell’abito è adatto a quella determinata corporatura o fisionomia, se l’artista si sente a suo agio, se gli calza bene, deve capire come riuscire a fargli esprimere al meglio il suo personaggio anche attraverso quel costume. Quello del costumista e della sarta è un lavoro complesso e di raccordo tra il mondo attoriale e quello della scenografia.
Cosa ne pensi della scena dei costumi contemporanea? Quali sono i grandi orientamenti stilistici?
Ti parlo del mio campo maggiore che è la lirica: fino a poco tempo fa si utilizzavano sempre costumi d’epoca. Adesso, anche un po’ per risparmiare e non solo per avanguardia, si tende a fare degli spettacoli moderni. Poi ci sono compagnie, come la Fura dels Baus, che attuano un misto tra storico, moderno e video, ma quella è una categoria a parte. La Fura dels Baus crea spettacoli molto costosi, hanno delle idee innovative che hanno applicato ad esempio alla tetralogia di Wagner o all’Aida moderna e innovativa andata in scena all’Arena di Verona.
È difficile abituare il pubblico italiano a questa visione moderna perché nei nostri teatri sono molto diffusi gli spettacoli in costume storico e anche lo spettatore straniero che viene dall’estero a vedere Aida, ad esempio, non vuole sperimentazioni, perché l’Italia rappresenta la storia del genere. Il moderno in Italia, fatto per avanguardia, fa ancora fatica a prendere piede, anche perché necessita di molti investimenti.
Cosa ne pensi delle opere teatrali vestite da grandi case di moda, è solo occasione di business o reale partnership di valore?
Secondo me sono operazioni di business, come quando nei musical si chiamano nomi televisivi per fare pubblico. Nell’ambito lirico, ad esempio, è più difficile che un cantante famoso lo sia anche in televisione; dei casi possono essere Grigolo o Bocelli.
Chiamare Valentino a Roma per LaTraviata o Dolce & Gabbana alla Scala per la prima di quest’anno, per me è un’operazione di marketing. Raramente infatti succede che la casa di moda faccia confezionare i costumi alla sartoria del teatro, ma arrivano già pronti dal proprio atelièr o dalla propria azienda. Sicuramente queste collaborazioni portano risalto cercando così di conquistare nuove porzioni di pubblico.
Qual è la produzione o l’esperienza artistica che più ti ha segnato professionalmente e che ricordi con particolare emozione?
Sicuramente la mia prima esperienza è stata quella più segnante, nel 2008 subito dopo essermi laureata ho avuto la possibilità di entrare in un festival itinerante di lirica che girava tutta la Toscana durante l’estate e quell’impiego, sottopagato, in cui lavoravo tantissime ore al giorno è stato talmente bello, che non ho più potuto smettere. Quindi piano piano, mandando curriculum un po’ ovunque e facendo crescere la mia rete di contatti ho iniziato a girare diversi teatri e a lavorare anche 10 mesi l’anno, ovviamente non tutti nello stesso posto.
La mia ultima grande emozione è stata a fine ottobre, quando i teatri erano ancora aperti. Siamo riusciti, da Milano, con una compagnia ad andare una settimana in tournée in Toscana, portando Opera Panica di Jodorowskij, con regia di Fabio Cherstich. Era la prima volta che tornavo a lavorare dopo marzo. Il giorno del debutto, all’applauso del pubblico, gli attori sono andati in ribalta e io sono scoppiata in lacrime per l’emozione senza riuscire a fermarmi, senza riuscire a capire perché; in quel momento non riuscivo a spiegarlo. In realtà piangevo perché ero tornata a vivere l’emozione per cui ho scelto veramente questo lavoro.
TITOLO TESI > Può la regia restituire l’opera lirica alla società? Lady Macbeth of Mtsensk di Graham Vick
ISTITUTO > Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi – Diploma Accademico di primo livello in Regia indirizzo Teatro
AUTORE > Andrea Piazza
INTRODUZIONE DELL’AUTORE
Il teatro, e l’arte in genere, sembra allontanarsi sempre di più non solo dal pubblico, ma dalla società intera: così facendo, finisce per isolarsi in una torre d’avorio, protetta ma soffocante. Tale fenomeno risulta tanto più evidente nell’opera lirica, un genere che conobbe in passato una straordinaria popolarità e che oggi è spesso fruita unicamente da una elite colta. La tesi si propone di indagare la poetica e l’azione di un regista di fama internazionale come Graham Vick, attraverso la “sua” Birmingham Opera Company con la quale ogni anno realizza imponenti progetti di opera lirica per tutti e con tutti, per tentare di rispondere a una domanda: è possibile, con gli strumenti della regia, ricomporre la frattura tra teatro e società?
Con la pubblicazione, per la prima volta in italiano, di due conferenze di Graham Vick.
Andrea Piazza, laureato con lode in Regia presso la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano e in Lettere presso l’Università Cattolica, è stato assistente di Graham Vick (Flauto magico, MOF 2018) e ha collaborato al progetto Kafka of Suburbia di Minima Theatralia (2019). Nel 2019 ha debuttato all’Out Off di Milano con la prima nazionale di Non rimpiango nulla in collaborazione con Fabulamundi. Con All You Can Hitler vince Richiedo Asilo Artistico del Festival Invisible Cities Contaminazioni digitali 2020. Con Che cosa sono i morti di F. Toscani è finalista al Premio Scintille 2020. Nel 2021 sarà prodotto dal Teatro Out Off per Le serve di Genet. Insieme alla prosa si occupa di teatro musicale per ragazzi (regie per La Verdi Orchestra di Milano, Verdi Off Teatro Regio di Parma, Teatro Dal Verme di Milano), di progetti multimediali e di danza.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
La Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo indice una selezione per individuare 6 performers/danzatori, di ambo i sessi, per l’opera Marino Faliero di Gaetano Donizetti, un progetto creativo di Ricci/Forte con la regia di Stefano Ricci, che andrà in scena presso il Teatro Donizetti di Bergamo in occasione del Festival Donizetti 2020.
La selezione, che si svolgerà alla presenza del regista Stefano Ricci, avverrà il venerdì 18 settembre 2020 presso il Teatro Sociale di Bergamo Alta, ingresso artisti in vicolo della Ghiacciaia – Bergamo, alle ore 12.00
La candidatura dovrà essere inviata insieme a:
proprio curriculum,
due foto (primo piano e figura intera),
documento di identità
un video di minimo 2 minuti (max. 3 minuti) a camera fissa, non montato, a figura intera (individuale, non collettivo) in cui siano esposte le qualità tecniche tersicoree o acrobatiche indicate nel proprio curriculum
La selezione è volta ad individuare 6 giovani (3 uomini e 3 donne) di età compresa tra i 20 e i 38 anni, fisico asciutto/longilineo, con esperienza teatrale professionale e specifica preparazione nella sintassi del contemporaneo (danza/performance).
Si richiede disponibilità per l’intero periodo di prove e recite, come da calendario. Ciascun prescelto sarà impegnato nel seguente periodo:
Prove: dal 19 ottobre al 18 novembre 2020
Recite: 21 novembre, 28 novembre e 6 dicembre 2020
Le prove e gli spettacoli si svolgeranno per tutto il periodo a Bergamo presso le sale prove della Fondazione e al Teatro Donizetti. Eventuali permessi andranno richiesti preventivamente alla Produzione, che si riserverà la possibilità di accordarli.
COMPENSO
Il compenso previsto è di € 2.000 lorde omnicomprensive, con assunzione tramite contratto di lavoro subordinato a tempo determinato o, se in possesso di P.IVA, contratto da lavoratore autonomo dello spettacolo.
MODALITÀ DI SELEZIONE
Verrà effettuata una preselezione dei candidati idonei a partecipare all’audizione sulla base dei documenti inviati in fase di candidatura. L’esito della preselezione verrà comunicato ai candidati ammessi entro venerdì 11 settembre 2020 a mezzo posta elettronica all’indirizzo e-mail indicato dal candidato nella domanda di partecipazione.
I partecipanti dovranno essere muniti di documento di identità e di codice fiscale. Per i candidati non appartenenti a Paesi membri dell’Unione Europea si richiede il possesso di regolare permesso di soggiorno che consenta lo svolgimento di attività lavorative senza limitazioni orarie, da presentare obbligatoriamente alla selezione.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Nasce da una collaborazione tra ANFOLS (Associazione Nazionale Fondazioni Lirico-Sinfoniche) e Rai Cultura il viaggio musicale nei grandi teatri d’opera italiani in programma su Rai5 da giugno a dicembre.
A partire dal 1° giugno, tutti i giorni – dal lunedì al venerdì alle 10 del mattino, e il mercoledì anche in prima serata alle 21.15 – andrà in onda una scelta di spettacoli in molti casi storici, recuperati con un approfondito lavoro di ricerca negli archivi della Rai e negli archivi dei teatri stessi, in altri casi messi in scena recentemente e proposti per la prima volta in TV.
“Sono particolarmente soddisfatto di questa importante collaborazione con Rai Cultura – dice il Presidente dell’ANFOLSFrancesco Giambrone -. Questo ciclo di spettacoli che nei prossimi sei mesi presenterà le più importanti e prestigiose produzioni di tutte le fondazioni lirico-sinfoniche italiane rappresenta una preziosa occasione di promozione del sistema Paese che rimette al centro della programmazione Rai quel prezioso e inestimabile patrimonio che è rappresentato dal grande melodramma di cui le Fondazioni lirico-sinfoniche sono depositarie. I grandi teatri d’opera italiani e la Rai confermano così la loro insostituibile funzione di servizio pubblico, e il loro incontro nel segno della grande musica contribuirà alla diffusione e alla promozione di quella preziosa parte del nostro patrimonio culturale che è il teatro musicale elemento fondante e riconosciuto internazionalmente della identità del nostro Paese”.
Il ciclo si apre con il Teatro dell’Opera di Roma e proseguirà nelle settimane successive con il Maggio Musicale Fiorentino, il San Carlo di Napoli, il Regio di Torino, l’Arena di Verona, il Massimo di Palermo, il Comunale di Bologna, la Fenice di Venezia, il Carlo Felice di Genova, il Petruzzelli di Bari, il Verdi di Trieste e il Lirico di Cagliari.
I dettagli del palinsesto saranno disponibili sui canali di informazione della Rai
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È curioso registrare come le uniche due opere musicali aventi per soggetto l’Otello di Shakespeare siano ad opera di due operisti italiani: Rossini e Verdi. Ancor più curioso è il fatto che poste ai due estremi dell’Ottocento, queste rappresentino l’inizio e la fine dell’opera italiana ottocentesca, dall’epoca rossiniana a quella verdiana.
Rossini a Napoli
È il 1815, Gioacchino Rossini ha solo 23 anni e fresco di qualche successo a Venezia, viene scritturato dall’impresario del San Carlo di Napoli Domenico Barbaja. Dopo il debutto con grande successo de L’Elisabetta Regina d’Inghilterra nel teatro napoletano, Barbaja e il letterato Francesco Berio di Salsa, impongono a Rossini un nuovo soggetto: Otello. Il 4 dicembre 1816, l’opera debutta riscuotendo grandi consensi tanto da entrare nel repertorio fino al 1870.
Un risultato straordinario per un’opera di quell’epoca, solitamente destinata ad essere dimenticata dopo una sola stagione teatrale. La sua fortuna si lega sicuramente agli ottimi cantanti a disposizione del San Carlo di Napoli tra i quali Isabella Colbran (Desdemona nell’opera) e il tenore Andrea Nozzari (futuro Otello nel melodramma).
Anche l’orchestra a disposizione di Rossini è una delle migliori d’Europa e, grazie a essa, potrà scrivere pagine di musica sorprendenti, come la tempesta presente nell’Otello, e anche innovare l’opera, optando per il recitativo strumentato – accompagnato da tutta l’orchestra – invece che per quello “secco” – accompagnato solo dal clavicembalo.
Questo espediente che può sembrare di natura tecnica, in realtà conferirà maggiore unione e coerenza tra il recitativo e l’aria che diventeranno quasi un tutt’uno, portando all’opera una nuova fluidità nell’azione scenica.
Rossini infatti grazie a un ruolo più centrale dell’orchestra, effetto dell’evoluzione dei tempo e della lezione mozartiana, amplia le forme del melodramma italiano, le rende più fluide e continue, rendendo l’azione avvincente e mai statica. Il compositore non stravolge le convenzioni dell’opera, accoglie le forme chiuse del melodramma, ma le utilizza sempre in maniera naturale e mai artificiale.A questa fluidità scenica si unisce il tipico linguaggio rossiniano improntato su sorpresa e velocità, che imprimono un nuovo timbro di modernità alla musica.
Il libretto
L’Otello di Rossini però non condivide molto con quello di Shakespeare: il teatro del bardo di Avon è ancora troppo cruento per le scene “neo-classiche” italiane. Berio di Salsa, il librettista, attinge infatti dall’adattamento del drammaturgo francese Jean-François Ducis e dalla traduzione italiana di Celestino Masucco. Il dramma è quasi completamente riscritto, qui l’argomento riportato nei libretti:
«Otello, africano al servizio dell’Adria (Venezia), vincitor ritorna da una battaglia contro i Turchi. Un segreto matrimonio lo lega a Desdemona figlia di Elmiro Patrizio Veneto nemico di Otello, destinata in isposa a Rodrigo figlio del Doge. Jago, altro amante sprezzato da Desdemona, ed occulto nemico di Otello, per vendicarsi de’ ricevuti torti, finge di favorir gli amori di Rodrigo; un foglio poscia da esso intercettato, e col quale fa supporre ad Otello rea d’infedeltà la consorte, forma l’intreccio dell’Azione, la quale termina colla morte di Desdemona, trafitta da Otello, indi con quella di se medesimo, dopo avere scoperto l’inganno di Jago, e l’innocenza della moglie».
Le uniche innovazioni apportate a livello drammaturgico sono l’articolazione in tre atti del dramma serio, invece di due, e la presenza di un vero finale tragico, con due uccisioni sulla scena– tra cui un suicida, giustificato probabilmente solo dal fatto che Otello è un Moro.
Gli elementi di successo nell’opera
Il culmine dell’opera è raggiunta nell’atto III, composto da un solo numero musicale che corre dritto senza interruzioni verso il finale. Al centro di tutto vi è Desdemona, vera protagonista della tragedia, tanto che in un primo momento le si voleva intitolare l’opera. L’atmosfera tragica è introdotta da dei versi danteschi declamati da un gondoliere fuori scena, unico intervento di Rossini nel libretto: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria» (Inferno, V canto, vv. 121-123).
L’ansia e la preoccupazione per Desdemona salgono fino a culminare nella Canzone del Salice: l’aria «Assisa a’ piè d’un salice» (Atto III, scena I) diventerà insieme alla preghiera seguente, uno dei pezzi più celebrati dell’opera italiana.
«Deh calma, o ciel, nel sonno
per poco le mie pene, fa’, che l’amato bene
mi venga a consolar.
Se poi son vani i prieghi,
di mia breve urna in seno
venga di pianto almeno
il cenere a bagnar».
Le parole di Desdemona hanno l’obiettivo di far rinsavire Otello affinché lui possa perdonarla, ma questa sarà l’ultima preghiera della donna; di lì a poco il Moro entrerà nella sua stanza per ucciderla e poi, dopo aver scoperto l’inganno di Jago, si darà anch’egli la morte.
L’Otello verdiano
Ben diversa è invece è la genesi dell’Otello verdiano. La proposta di un’opera sul Moro “cioccolatte”, come affettuosamente lo chiamerà Verdi, arriva nel 1879 da parte di Giulio Ricordi, l’editore e Arrigo Boito, che aveva già pronto il libretto. Il compositore di Busseto non è molto convinto di intraprendere la scrittura dell’opera, sia per il mutamento della scena teatrale italiana, sia per il letterato con il quale nel passato ha avuto alcune ruggini.
La svolta arriva nel 1881, il rifacimento del Simon Boccanegrain collaborazione proprio con Boito sembra convincerlo. Sul palco della Scala incontra inoltre Victor Maurel, baritono designato per il ruolo di Simon, ma soprattutto la voce perfetta per il suo Jago – si dice che Verdi gli abbia detto: «Se Dio mi darà la forza, scriverò per voi Jago». Da quel momento in poi la scrittura dell’Otello procederà, tra alti e bassi, fino al suo debutto nel 1887 alla “Scala”.
Boito e il libretto
Boito è un librettista eccezionale. Il letterato lombardo è uomo di teatro, diplomato al conservatorio, compositore egli stesso, ma di stile wagneriano (Mefistofele, 1868, la sua opera più famosa; il Nerone, rimasto incompiuto), librettista esperto – scrive, per Franco Faccio e Amilcare Ponchielli –, esponente della scapigliatura milanese, insomma un intellettuale a tutto tondo. La qualità del libretto dell’Otello è immensa, Boito usa una quantità sterminata di metri diversi e il ritmo della sua scrittura sembra quasi voler suggerire la musica a Verdi.
Il suo libretto per l’Otello attinge direttamente al testo di Shakespeare e al netto dell’eliminazione del I atto shakespeariano, la trama e i personaggi rimangono i medesimi. Il vero protagonista dell’opera, come nell’originale d’altronde, è Jago, crudele baritono che odia Otello per aver dato il posto da capitano a Cassio e non a lui. Il suo piano diabolico prevede di servirsi di Rodrigo, innamorato di Desdemona, per far crollare Otello:
Jago a Rodrigo:
«M’ascolta,
benché finga d’amarlo, odio quel moro…
e una cagion dell’ira, eccola, guarda. (indicando Cassio)
Quell’azzimato capitano usurpa
il grado mio, il grado mio che in cento
ben pugnate battaglie ho meritato;
tal fu il voler d’Otello, ed io rimango
di sua moresca signoria l’alfiere!» (Atto I, Scena I)
L’odio di Jago non ha quindi un fondamento razziale ma è legato al potere. Boito inventa per lui uno straordinario monologo passato alla storia come “Credo di Jago” (Atto II, scena II), una vera e propria confessione del suo essere abietto. Il pezzo, composto in versi liberi, secondo le regole operistiche sarebbe stato adatto per un recitativo, ma Verdi intuisce il potenziale del brano e stupisce: non compone la classica aria, ma una cosa del tutto nuova, un monologo musicale.
Tutta l’opera è costellata di costruzioni sofisticate ed espressive, l’ubriachezza di Cassio ne è un esempio; qui l’estro di Boito arriva a comporre versi enigmatici, divenuti celebri come:
«Chi all’esca ha morso
del ditirambo
spavaldo e strambo
beva con me!».
Verdi carica maggiormente la scena facendo cantare l’ubriaco Cassio totalmente fuori tempo, coprendo le parole di Jago (Atto I, Scena I). Infine Otello e Desdemona, coppia di sposi che crede di conoscersi e capirsi. Il primo duetto è rivelatorio e la splendida musica verdiana sembra quasi voler mascherare l’incomunicabilità alla base del loro rapporto, ma le parole del Moro tuonano esplicite: «E tu m’amavi per le mie sventure | ed io t’amavo per la tua pietà» (Atto I, Scena III).
Desdemona ama Otello per le sue avventure, Otello ama Desdemona per la sua pietà: lui dunque, la ama solo perché è amato da lei. Otello ama sé stesso, il suo essere un eroe tanto che quando Jago gli fa credere di essere stato tradito da Desdemona, egli dà l’addio non a sua moglie, ma a se stesso, alle sue «vittorie, dardi volanti e volanti corsier!» (Atto II, Scena V). Desdemona invece è veramente innamorata di Otello, è una figura pura, candida, tanto da accettare la morte senza capirne veramente il motivo, un vero e proprio “martirio”.
L’ultimo atto
L’ultimo atto, come in Rossini, è l’apice dell’opera grazie alla centralità di Desdemona e alla sua canzone del salice. L’atmosfera è tesa e già incombe il peso della tragedia finale, che viene ribadito dalle parole della protagonista: «Egli era nato – per la sua gloria, | io per amarlo…e per morir» (Atto IV, Scena I).
Queste parole accelerano, fanno correre il dramma verso la fine: Otello entra nella stanza, uccide Desdemona; Rodrigo è ucciso da Cassio e Jago, messo all’angolo rivela tutto il suo piano. Il Moro tradito e ingannato non può che suicidarsi rimpiangendo l’amore con Desdemona sui versi del primo duetto d’amore: «un bacio, un bacio ancora» (Atto IV, Scena IV).
La storia dell’opera in due Otello
Due opere immense, dunque, che sintetizzano il percorso di vari aspetti della storia della musica operistica: l’evoluzione dal melodramma italiano dell’età rossiniana strutturato in recitativo e aria al fluido e continuo dramma lirico verdiano; la figura del musicista che passa da mero artigiano, a vero e proprio artista; infine quello più complesso dell’autorialità dell’opera, con il completo ribaltamento delle figure del librettista e del compositore, passate dall’essere succubi vicendevolmente l’una dell’altra a essere co-autori dell’opera.
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