Sport, storia e spettacolo dal vivo si incontrano a Roma per dare vita a un evento unico sulla nobile arte della boxe. Il 26 gennaio alle ore 20:30 presso la palestra-polisportiva Asd Casal Bruciato 2.0 verrà portato all’attenzione del grande pubblico lo spettacoloLa Belva Giudea di Gianpiero Pumo, regia di Gabriele Colferai, con Gianpiero Pumo e Filippo Panigazzi. Per questa eccezionale rappresentazione che unisce la pratica artistica a quella pugilistica, il ring della palestra diventerà un palcoscenico teatrale dove gli artisti/boxeur in cinque capitoli, cinque round racconteranno la storia vera della “Belva Giudea”. Uno spettacolo patrocinato dalla Comunità Ebraica di Roma, dal CONI e dalla Federazione Pugilistica Italiana, nonché vincitore del premio Miglior Regia al festival Shortlab 2018 e meritevole di menzione dal Teatro di Roma nella Giornata della Memoria 2019. Le repliche continueranno dal 28 gennaio al 2 febbraio presso l’Off/Off Theatre nel centro di Roma.
“Belva Giudea” è il nome che fu dato a Hertzko Haft durante la sua carriera da pugile nei campi di concentramento tedeschi. Internato alla sola età di quattordici anni, Hertzko non si è mai arreso al suo destino e ha combattuto il nazismo guidato dall’amore per Leah. Dotato di una buona stazza muscolare e una notevole resistenza fisica, venne scelto da un ufficiale delle SS come “volontario” per incontri di boxe fra prigionieri. Hertzko vinse 75 incontri. Una volta libero, sbarcò in America sotto il nome di Harry Haft per ritrovare Leah. Doveva far apparire il suo nome su tutti i giornali per farle sapere che anche lui era fuggito negli States. E c’era un solo modo per farlo: sconfiggere il campione del mondo dei pesi massimi, Rocky Marciano.
Questo progetto vuole raccontare una pagina di Storia tristemente nota con un punto di vista inedito: la boxe. La storia privata di Harry rappresenta problematiche più che mai attuali: leggi basate sulla razza, l’accoglienza di chi fugge dalla guerra, la spettacolarizzazione della violenza. L’impostazione cinematografica dello spettacolo permette allo spettatore di percepire l’attualità di questa storia e la sua contemporaneità nelle tematiche affrontate. La boxe, protagonista di questa storia, in America gli restituisce la dignità che in Europa gli aveva tolto. Nonostante la violenza in esso connaturata, questo sport non fa distinzione di razza, credo religioso o paese di provenienza. Su un ring tutti sudiamo allo stesso modo. Tutti sanguiniamo allo stesso modo.
Uno spettacolo che osa unire cinema e teatro. Per far sì che una pagina così difficile della nostra Storia non ci sembri poi così lontana da non riuscire a ripetersi. La performance teatrale si fonde con il mezzo cinematografico, assecondando il ritmo della scrittura. Le riprese live permettono di scoprire dettagli e fragilità del protagonista, un pugile in carne ed ossa che lotta, suda e si racconta. Un’operazione toccante in grado di riunire all’unisono il pubblico diviso tra cinema, serie TV e spettacoli teatrali.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Era il maggio del 1999 quando un giovane ragazzo partiva dalla provincia di Messina per andare a Roma e realizzare il suo grande progetto di diventare un attore di cinema. Lasciava la sua famiglia e la sua terra. Quella Sicilia impressa nel suo nome: TindaroGranata. L’ultimo a essere nato a Tindari, una frazione situata sulla fascia costiera tra Milazzo e Capo Calavà, con il promontorio che dai monti Nebrodi domina il mar Tirreno e il santuario della Madonna Nera. La scultura in legno di cedro che, secondo la leggenda, fu abbandonata dai marinai di una nave per poter salpare nuovamente senza avversare la volontà divina.
Molti uomini e donne, come e prima di lui, avevano già attraversato lo Stretto e il mare, con la morte e la speranza nel cuore, per raggiungere quello che i siciliani definiscono il “Continente”. Chi ha vissuto quella esperienza ricorderà per sempre il rumore dei motori della nave traghetto, la salsedine del mare contaminata dall’odore del carburante. Le case, i palazzi e la lunga striscia di spiaggia rimpicciolirsi sempre di più, man mano che ci si allontana dalla terraferma. La Madonnina sulla stele con quella scritta “Vos et ipsam civitatem benedicimus”. Gli attimi trascorsi sulla balconata e le interminabili ore precedenti alla partenza. Frammenti di immagini che diventeranno ricordi incancellabili, come le riprese di un film. Come gli scatti fotografici di una Polaroid che conservano gli elementi antropologici. Luoghi, cose e persone.
Tindaro Granata – Antropolaroid
Antropolaroid è come un album di fotografie con tracce di memoria storica. Tindaro Granata racconta le diverse generazioni della sua famiglia ed è possibile scorgere e ritrovare, in quelle storie, anche un po’ delle nostre radici e di noi.
L’inizio risale al settembre del 1925: Francesco Granata muore impiccandosi.“U dottoreddu”, il suo medico, gli comunica di avere un tumore incurabile allo stomaco e di aver bisogno della morfina per lenire le sofferenze. Sarebbe morto piano, anzi “chiano chiano”. Sua moglie rimasta da sola e incinta si reca spesso al cimitero per portare sulla tomba del marito non i crisantemi, ma sputi e bestemmie. Il loro figlio, Tindaro Granata, nel 1944 conosce una ragazza, Maria Casella la quale si innamora di lui durante una serata di ballo organizzata dal padre di lei, per presentarle il suo futuro sposo, un ufficiale tedesco. Tindaro e Maria scappano facendo la “fuitina”. Un anno dopo nasce Teodoro Granata e nel 1948, suo padre viene coinvolto in quella che viene apostrofata come la“notte nera”, un omicidio di mafia. Da grande, Teodoro si trasferisce in Svizzera, ma ritorna in Sicilia per sposarsi con Antonietta Lembo e apre una falegnameria con l’aiuto del dottor Badalamenti.
Tindaro Granata nasce nel settembre del 1978. Un bambino con la bocca a forma di cuore a cui la sua nonna gli regala una stella, la più luminosa nel cielo della notte. Insieme con l’astro del firmamento gli fece anche tre doni immateriali, mediante un rituale antico di benedizione: la bellezza, la fortuna e la sofferenza perché quest’ultima è il viatico delle prime due. Quella donna semplice di altri tempi disse in anticipo ciò che Leonardo Sciascia scrisse nel 1977 in Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia: “Una felicità ottenuta facilmente prima non è la stessa di una felicità ottenuta difficoltosamente dopo; non si può nemmeno dire felicità quella di cui si gode inconsapevolmente, senza essere passati attraverso la sofferenza”.
Antropolaroid, in scena dal 7 al 12 maggio, è stato accolto dal calore, dall’energia dirompente dei lunghi applausi di un pubblico emozionato e riconoscente, la sera del suo debutto. La cornice di un teatro suggestivo nella sua intimità, come l’Off/Off Theatre di via Giulia a Roma, era calzante. Quelle di Antropolaroid sono tante schegge di storie memorizzate da bambino, come le favole per dormire, raccolte e tramandate di generazione in generazione. Fanno rivivere la tradizione ottocentesca del “cunto”, fonte di trasmissione orale. Ed è proprio in questa caratteristica che il siciliano diventa la lingua dell’anima. Una risorsa e una testimonianza di un’identità, di un’espressione umana e artistica, di un mondo interiore che risulta familiare anche a chi il siciliano non lo parla perché quei codici di amore e di morte, di partenze e di ritorni, di paura e di coraggio possono essere facilmente compresi e decodificati.
Tindaro Granata – Antropolaroid
Sono trascorsi venti anni da quel momento così intimo e personale, da quel viaggio verso il “continente”, da Sud verso Roma, più al nord della Sicilia. Tindaro Granata è diventato l’attore di oggi, senza perdere quella sensibilità, quella profondità che è presente in lui da sempre. In scena, l’attore indossa gli abiti da lavoro di quando faceva il cameriere in un ristorante in via dei Chiodaroli a Roma e regala a tutti un’autentica lezione di vita quando con orgoglio afferma che quei pantaloni e quella giubba servono ancora per ricordargli “Chi sono e da dove vengo”. Un bagaglio di esperienze incisive il suo, reso prezioso grazie ad ogni incontro con grandi personalità del teatro. Da Maurizio Scaparro a Carmelo Rifici, da Valerio Binasco a Serena Sinigaglia e Andrea Chiodi.
Nel suo percorso artistico ha saputo alternare l’attività in proprio. Come autore, regista e interprete delle sue opere esordiva proprio con Antropolaroid. Quel debutto avveniva nel 2011 ed era la sera del 29 gennaio, a Ponteranica in provincia di Bergamo. Otto anni dopo, Tindaro Granata conserva ancora un ricordo preciso con tutti i dettagli significativi. Il suo lungo pianto prima di entrare in scena, i pensieri che affollano la sua mente. Fuori pioveva, dentro c’erano diciassette spettatori seduti e quattro in piedi.
Tindaro Granata – Antropolaroid
Granata è ritornato a Roma, con La bisbetica domata al Teatro Vascello ad aprile e Antropolaroid a maggio. Nel mezzo c’è stato il workshop Musica in Te(atro), organizzato da Theatron 2.0. È stato il modo migliore per ritrovare amici e rivedere luoghi, ma soprattutto per festeggiare un anniversario. Venti anni di carriera ricordati dal palco dell’ Off/Off, con un pizzico di ironia e di leggerezza, come un viaggio al contrario, dal Nord al Sud, adesso che lui vive a Milano. E se è vero che ogni ciclo ha le sue fasi e conclusioni, è ancor più vero che la vita non è fatta soltanto di partenze, ma anche di ritorni e di ricordi e, spesso, ci riporta esattamente lì dove tutto è iniziato. Perché l’esplorazione è continua e fino a quando il nostro cuore non smetterà di battere e di pompare sangue, spegnendo lentamente le attività del nostro cervello, nessuno potrà mai dire di aver superato il punto di non ritorno.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
È stato presentato all’Off/Off Theatre di Roma, dal 12 al 14 aprile, l’adattamento teatrale dell’intera opera diMarcel Proust Alla ricerca del tempo perduto, À la recherchedu temps perdu, unaco-produzione del Teatro Potlach e della Casa dei Racconti. Duccio Camerini, regista e attore poliedrico di cinema e teatro, ha interpretato da solo tutti i personaggi e le fasi evolutive dell’autore francese. Marcel il bambino fragile e malaticcio, dipendente dalla madre e dalla nonna. L’adolescente suscettibile alle prese con i fallimenti dei suoi primi amori. L’uomo e la sua aspirazione di diventare scrittore, scoraggiato dal mondo esterno, alterato dall’ amore ossessivo per Albertine, sconvolto al punto da renderla prigioniera nel suo appartamento.
Duccio Camerini
Duccio Camerini è riuscito nella non facile impresa di condensare in poco più di un’ora i sette volumi che compongono l’opera di Proust: La strada di Swann, All’ombra delle fanciulle in fiore, I Guermantes, Sodoma e Gomorra, La prigioniera, La fuggitiva, Il tempo ritrovato. Non è stato facile selezionare i momenti fondamentali trasformandoli in un unicum, una drammaturgia di alto livello che conservasse lo spirito del libro, anzi dei sette libri di Proust. Basti pensare che a teatro ci sono stati allestimenti a puntate, trilogie, estrapolazioni, letture o mise en éspace.
Con le trasposizioni cinematografiche è successa una cosa più o meno simile; adattamenti del primo, del quinto o dell’ultimo volume e due celebri rinunce per diversi motivi. Il primo fu quello di Luchino Visconti il quale, volendo creare un film sulla Recherche, scrisse il testo con Suso Cecchi D’Amico la quale dichiarò in un’intervista che si trattava di “una sceneggiatura di 363 pagine per oltre tre ore di proiezione”. Problemi di finanziamenti prima e di salute del regista dopo, ne impedirono la realizzazione.
Archiviato il progetto di Visconti, fu la volta di Joseph Losey, il quale chiese a Harold Pinter di scrivere la sceneggiatura. Ancora una volta, la mancanza di capitali impedì il film sulla Recherche. Suso Cecchi D’Amico definì quello di Pinter un“testo d’autore”.Le due sceneggiature si chiudono con la frase “Je m’endors” – Mi addormento, pronunciata dal Narratore.
Lo sforzo di Camerini è quindi encomiabile, sia per quanto concerne la scrittura sia per la prova d’attore. Più di un’ora di monologo incalzante passando da un personaggio all’altro, da quelli maschili a quelli femminili, che si rincorrono in successione. La regia di Pino Di Buduo asseconda questo ritmo narrativo grazie alla scelta di unascenografia digitale, curata da Stefano Di Buduo, che riproduce pitture ottocentesche e immagini monocromatiche o a più motivi. La loro sfida era quella di rendere raggiungibile, attraverso il teatro, una delle più complesse opere della letteratura del Novecento. Duccio Camerini lo sostiene, tra le tante altre cose, nell’intervista che segue.
Qual è la sua personale considerazione su questa operazione proustiana?
Il mio principale obiettivo era quello di avvicinare una materia letteraria a più persone. Proust è uno dei giganti della letteratura di tutti i tempi eppure non è noto abbastanza, al contrario di altri grandi. Per esempio penso a Dostoevskij, il quale è più conosciuto per due considerazioni almeno. La prima è tecnica: ha scritto dei romanzi più brevi.
Il giocatore è un bellissimo libro ed è relativamente contenuto, come anche I fratelli Karamazovche straborda un po’.I demoni, per quanto sia un libro articolato, è più corto di un libro di Proust scritto in 3-4000 pagine.
La seconda considerazione è che mentre Dostoevskij si è ritagliato una vicinanza sperimentale con l’arte e la filosofia del 900, Proust è stato sempre confinato a quella Belle Époque, a quel mondo fatuo, a quella mondanità che lui sa descrivere benissimo.
Molto spesso si pensa a Proust come a un autore borghese. Una cosa è dire che quella è la sua provenienza, un’altra è che il tema della sua opera sia solo la borghesia.
Egli parte dalle sue origini perché era un borghese, figlio di un addetto del Ministero degli Esteri. Lui riesce però a creare un’architettura mentale, che poi diventerà letteraria, assolutamente straordinaria, ancora in profondo contatto con i nostri tempi.
Le ossessioni di Proust, i caratteri dei personaggi nella narrazione dello spettacolo contribuiscono a evidenziare il legame con la nostra epoca, con il nostro tempo presente?
Assolutamente sì: il legame c’è nella forma delle ambiguità, nella ferocia sociale. La società è sempre vista da Proust con una superiorità, una bonomia, una irrisione in un modo in cui lui è straordinario a esprimere.
Lui sa molto bene che quella è un’arena dei leoni, dove molti sono caduti e tante persone cadono, quindi non è un gioco. Prendendo in giro, probabilmente esorcizza e non si fa bloccare dal terrore che invece limita molti nel rapporto con la collettività. Ecco mi sembra che la nostra società, quella del 2019, così violenta, così profondamente ingiusta, così sciatta e ambigua – mi vengono alla mente questi aggettivi come primi – presenti solo differenze esterne con quella di Proust. Gli uomini non portano più la tuba, le principesse non vanno più in carrozza, ma al di là di questo io non vedo altre difformità.
Io non so se la ragione per cui Proust sia così in contatto con noi oggi derivi dal fatto che sia uno scrittore straordinario – per me ovviamente è così – oppure perché la nostra epoca è ferma ai primi del ‘900. Non sono in grado io di dirlo ma lo diranno i posteri.
La violenza e la sua rappresentazione sono il mezzo o il fine di questa esplorazione?
La violenza, il dolore, la tragedia dell’io sono dei passaggi. Il personaggio di Marcel attraversandoli crede di soccombere. In realtà questi percorsi risulteranno salvifici. Sono delle forche caudine da cui lui pensava di non uscirne vivo.
Proust pensava che l’arte fosse l’unica possibilità, l’unica chiave per poter vivere una vita piena, perché altrimenti si è costretti a vivere un’esistenza piena di compromessi e di violenze subite. Mettendosi in quell’imbuto arriverà ad una salvazione nel finale e questo è così anche nel mio spettacolo. Tengo a dire che la Rechercheè un grandissimo supermercato di sensi, di storie e di personaggi. Era impossibile poter mettere in scena quello che viene proposto nelle quasi 4000 pagine dell’opera. Si è scelto il binario dell’amore, del rapporto malato tra il protagonista e una donna, Albertine, che gli sconvolgerà la vita. Non c’è dubbio che questa sia l’ossatura di buona parte della Recherche. Con molto dispiacere ho dovuto rinunciare a qualcosa, ma era chiaro che la strada che bisognava compiere fosse questa.
Cosa significa, in termini di difficoltà, la prova di attore nell’affrontare 24 personaggi? Quali sono state le opportunità di questa sfida?
Sul palcoscenico ci sono io, la rete metallica di un letto vecchio, un foglio di carta e le pareti di una stanza della tortura, in cui si trova questo personaggio. Superfici che si animano a seconda dei suoi stati d’animo, dei suoi pensieri, ci sono delle immagini che scorrono su di esse.
Questi 24 personaggi sono anzitutto ricordati da questo uomo di mezza età, che ormai ripensa alla sua vita, come è stata prima, ripensa alla sua infanzia, alla sua adolescenza al primo amore. I personaggi sono messi in scena attraverso l’interpretazione e la deformazione della memoria, questo è il senso del lavoro che è stato fatto. Certo c’era la voglia, dato che mi trovo in un teatro a raccontare una storia, di differenziarli bene, di rendere chiara l’alternativa dell’uno e dell’altro. Tutti visti però attraverso Marcel.
Il concetto dell’io in questo spettacolo è molto importante. C’è un punto bellissimo quando a lui succede una cosa particolare, Albertine scappa dalla casa dove lui ha provato in tutti i modi a tenerla sentimentalmente prigioniera e lui dice: «È necessario informare tutti gli esseri dentro di me, tutti gli innumerevoli io che mi formano, perché alcuni di loro qui dentro ancora non sanno che Albertine se n’è andata.»
In questo tipo di letteratura Proust è vicinissimo a Joyce, un altro gigante che nel ‘900 lo abbiamo sentito molto vicino perché ha cambiato la cultura letteraria. Sicuramente molto più libero da certe origini benestanti, figlio di una famiglia profondamente cattolica, suo padre era un doganiere e un attivista del partito autonomista irlandese. Insisto ancora sul fatto che Proust viene sempre visto come un figlio della borghesia che parla di problemi borghesi, ma non è assolutamente così
Come, dove e quando è iniziata questa operazione?
Verso i miei 30 anni, avevo 28-29 anni e ho cominciato a leggere il primo volume di Proust. Mi ricordo che ero a Trieste. Guarda caso è una città che ritorna nella Recherche e mi sono immediatamente agganciato a questo mondo e a questo modo di scrivere. Da lettore ne ero succube totalmente. Ho impiegato tanti anni a leggerlo, ho finito 4 anni fa. Perché sono tanti libri, ma anche perché quando leggo una cosa mi piace andare lento e spero che non finisca mai. Mi è successo così per i libri di Gabriel Garcia Marquez.
Proust mi ha accompagnato in questo lungo periodo, ci sono voluti una ventina d’anni con i miei ritmi. Ogni tanto facevo finta di essermi dimenticato a che punto ero arrivato e ritornavo indietro. Mi è ricapitato recentemente tra le mani il testo La prigioniera, uno degli ultimi libri della Recherche, uno di quei libri pubblicati postumi che lui non ha potuto rivedere fino in fondo, senza aggiungere altro ancora, così come aveva fatto con i precedenti.
Gli ultimi libri sono più smilzi poiché lui era già morto. Tutte le volte che Proust correggeva le bozze le farciva, di ancora più annotazioni, personaggi, ancora più filosofia e idee: era il suo modo di essere. Mi è capitato questo libro dove il tassello centrale è il rapporto tra Albertine e Marcel e da lì è venuta fuori l’idea di provare a vedere il racconto dal punto di vista di Marcel con tutti questi personaggi che lo vengono a visitare nella sua memoria.
Questa operazione è stata articolata con tre anteprime che noi abbiamo fatto per rappresentare il progetto presentando agli operatori culturali. Adesso vediamo che cosa succede, mi sembra che sia andato bene e siamo molto contenti di queste tre giornate all’Off-Off, sono state forti. Abbiamo sentito molto interesse e anche molto calore dal pubblico e devo dire che questa cosa ovviamente ci conforta. È ancora una grandissima sfida però mi sembra che ci stiamo avvicinando a vincerla.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
OnStage! e In Scena! – Festival di arti performative tra Usa e Italia
Cinquanta stelle che corrispondono agli stati federati e tredici strisce per ognuna delle colonie originarie. Il sogno del self made man, di chi può farcela partendo dal basso. L’East Coast, la West Coast e in mezzo la Route 66. Un immaginario che mette insieme Hollywood, il mito western, il patriottismo, la musica country, il blues e il primo uomo sulla luna.
La “terra dei liberi, la patria dei coraggiosi” recita il testo di The Star-Spangled Banner, composto nel 1814 da Francis Scott Key e adottato come inno nazionale nel 1931, con la firma del presidente Herbert Hoover. Cosa può essere l’America per una donna o per un uomo italiano e cosa può essere l’Italia per una cittadina o cittadino americano?
Onstage! e In Scena! sono due festival speculari in questo. “Sono due sorelle, sono due gemelle e sono diverse perché l’ambiente è diverso” dichiara Laura Caparrotti, una dei tre organizzatori delle due rassegne. “Il gemello grande in America nasce nel 2013: una settimana con tre spettacoli, alcune letture teatrali e una opening night celebrativa perché era l’anno della cultura italiana negli Stati Uniti. Nasce con l’idea di andare in tutti i cinque distretti di New York e di fare un festival totalmente gratuito, in modo da attirare varie etnie e tante persone. Il fatto che noi abbiamo deciso di andare in tutti i luoghi possibili ha creato un festival diverso e interessante. Un festival “diffuso” sicuramente con tutte le accezioni che viene dato al termine.
Siamo arrivati ad avere in cartellone, per l’edizione 2019, dodici compagnie per due settimane, tutti i giorni a volte con due spettacoli in due punti diversi e distanti della città. Dal 2014, è presente anche il premio Mario Fratti, il grande drammaturgo che ritorna spesso da noi per la premiazione del vincitore. Al settimo anno di programmazione è ancora una cosa bella far conoscere il teatro italiano in America poiché lo si conosce poco, a parte i Motus, il Teatro del Carretto e Il Piccolo di Milano che veniva ogni anno al Bam, dove arrivano tutte le compagnie straniere, quando Giorgio Strehler era vivo. L’idea è quella di far vedere cosa succede di bello, di importante in Italia”.
E c’era bisogno di far conoscere anche qui da noi quello che succede oltreoceano. L’America è di scena non è solo un sottotitolo, ma è anche il primo dato che è emerso dal programma fitto. Articolato in sette intensi giorni, dal 21 al 27 gennaio. Un festival che si è svolto prevalentemente negli spazi dell’Off/Off Theatre, del Teatro di Villa Torlonia e la Sala Squarzina del Teatro Argentina.
Il suo nome OnStage! è ben aderente con la realtà. In scena è andato l’American Life, con le sue luci e le ombre, la vita che entra negli spettacoli e nei testi, in modo forte e deciso. E questo è un ulteriore elemento, una traccia per il futuro. Il valore aggiunto che si trova nel libero scambio di persone, opere e idee. Nelle differenze umane, quell’ingrediente speciale che, quando è presente, può rendere il mondo un posto migliore, simile ad una casa da abitare.
Nato con il patrocinio di United States Embassy to Italy e Municipio Roma1 Centro, OnStage! è stato organizzato da Kit Italia che dal 1996 promuove la cultura italiana all’estero, The International Theatre, associazione culturale nata nel 1994 con l’obiettivo di portare in Italia il teatro internazionale, e Kairos Italy Theatre, compagnia di teatro italiano a New York City, punto di riferimento internazionale del Teatro Italiano.
Il nostro racconto a posteriori testimonia la soddisfazione, l’entusiasmo, la lungimiranza e un po’ di fatica fisica che trapela dalle voci degli organizzatori. Due di loro, Laura Caparrotti, la referente italiana che cura le relazioni Usa e Tomaso Thellung de Courtelary, il produttore esecutivo. Li abbiamo incontrati al termine di una domenica pomeriggio uggiosa. La direzione artistica è curata da Donatella Codonesu.
“Donatella è la terza componente nel gruppo – precisa Tomaso Thellung de Courtelary. È un po’ il tramite, il legame tra me e Laura ed è il referente italiano del festival americano così come Laura è il nostro referente americano per il festival italiano. Abbiamo creato OnStage Festival e Donatella mi ha coinvolto perché sono più radicato su Roma anche con attività internazionali.
È andata benissimo, oltre le aspettative, un programma molto fitto che abbiamo concepito proprio come un festival. C’era l’appuntamento serale, gli incontri pomeridiani, i dibattiti sui temi trattati e le scuole in mattinata. Ci sono state le letture di testi americani tradotti in italiano in collaborazione con il Teatro di Roma, i concerti e uno spettacolo di danza.
Abbiamo riempito le 24 ore con una presenza di OnStage! e sulla base di questa esperienza prepareremo la seconda edizione. C’è stata una media alta di presenze rispetto a quello che oggi può offrire il mercato italiano e Roma in particolare e la percezione, attraverso i complimenti delle persone e degli addetti ai lavori, che è stato un bel festival con un’organizzazione che ha funzionato”.
All’interno dell’Off/Off Theatre di via Giulia e nel suo bistrot elegante, brulicavano le emozioni dopo lo spettacolo di di Shawn Rawls, ballerino professionista, insegnante e coreografo di base a New York. EPT- A collection of works è il titolo di una collezione composta da alcuni estratti di tre diverse opere “Clinically Happy”, “Walk” e “The Heart”. Un percorso che partendo dalle radici della felicità esplora la fede e la spiritualità come esperienza personale fino al raggiungimento della destinazione finale, l’amore e la sua bellezza.
Cinque sono state invece le proposte teatrali presentate; ha inaugurato la rassegna Cry Havoc. Scritto da Stephan Wolfert con materiali di William Shakespeare, è un racconto/incontro tra il teatro, il reintegro nella società e la vita di un veterano. Parla di guerra, ma soprattutto dei suoi effetti. Shooter, di Sam Graber ha affrontato il problema delle armi e delle sparatorie nelle scuole superiori. Viene analizzato il mito americano di “essere e vivere extra-large”. Cosa può dare un’arma ad una persona? Rimane un mistero l’interrogativo “Chi siamo?”.
Se per vivere occorre, nell’ordine, guadagnare, mettere su casa, disciplina e coerenza. Assemblare i pezzi, insomma, o lasciare andare. Dirty Paki Lingerie di e con Aizzah Fatima, unica interprete per sei tipologie di donna. Una combinazione pachistana-americana-musulmana di mondi differenti che declina religione, cultura e genere, sesso e politica. Hedy! The life & inventions of Hedy Lamarr è stato scritto e interpretato da Heather Massie.
Una star di Hollywood degli anni ’30 e ’50, non convenzionale per il fatto di aver dato un contributo notevole alla scienza con le sue invenzioni nel campo della tecnologia e della comunicazione. Lured, infine, è uno spaccato di cruda realtà, basato su fatti di cronaca, sulle violenze e sulle torture estreme subite dai ragazzi gay in Russia con la complice indifferenza delle autorità. Un testo politico, brutale nella sua onestà. Non contiene risposte, ma spinge a trovarle, erodendo le poche certezze.
“Sono dei testi con forti tematiche e messaggi dove, almeno nel modo di vedere queste compagnie, gli attori si sono presentati puntando di più sul contenuto che sull’esibizione dell’artista – dichiara Tomaso Thellung de Courtelary. Le produzioni italiane sono molto più finalizzate a mettere in risalto le persone, l’operazione, piuttosto che portare delle tematiche su cui poi si può dibattere. Una cosa bella che non avviene quasi mai a teatro in Italia è che non si dibatte mai sullo spettacolo. Non c’è mai un uscire dallo schema di entrare in teatro, stare lì dentro ed essere pian piano accompagnati ad uscire ragionando, in tutte le fasi del processo. Questo lo trovo bellissimo e fa parte dello spettacolo”.
OnStage! è stato presentato come il primo festival di teatro americano in Italia, ma c’erano dentro anche diverse identità, culture ed espressioni dell’America, a 360 gradi. Le tematiche forti e importanti, portate nel festival, non hanno svolto soltanto la funzione di mera promozione di un concetto, di un’ideale, ma di vera e propria autocritica, avvicinando le persone.
Laura Caparrotti sostiene che: “L’idea è proprio quella del dialogo di diventare a far parte di una famiglia e lo dico perché in questi giorni di OnStage! abbiamo avuto artisti italiani che che sono venuti da Napoli, da Milano, da Reggio Emilia. Sono venuti quelli che parteciperanno a Maggio a In Scena! a New York e quelli degli anni precedenti. Ci hanno fatto la sorpresa e sono venuti per sostenerci. Questo avviene probabilmente perché ci mettiamo tanta passione, ci piace il fatto di poter fare incontrare le persone, far conoscere il teatro, vedere e capire cosa succede non è soltanto il mettere a disposizione uno spazio, aprire le porte e basta”.
E a nessuno tantomeno viene in mente di chiuderle, per rimanere nella metafora, anzi Tomaso Thellung de Courtelary anticipa che: “Siamo nati da poco, ma abbiamo già un’appendice con le letture che verranno messe in scena al teatro Palladium, quindi ci sarà una costola del festival tra qualche mese, a maggio. Considerato il forte interesse da parte delle istituzioni pachistane, stiamo pensando inoltre di invitare nuovamente l’artista e lo spettacolo Dirty Paky Lingerie”.
Dirty Paky Lingerie
Sul fronte americano Laura Caparrotti informa che: “Inizieremo il 29 aprile alla Casa Italiana con una opening night di In Scena! dedicata ai 50 anni dello Stonewall, dei disordini da cui sono nate tutte le grandi battaglie per i diritti Lgbtq. Proseguiremo fino al 13 maggio e alla premiazione del premio Mario Fratti. In più ci sarà una terza coda a luglio quando ritornerà qui a OnStage! lo spettacolo Cry havoc.
Un’altra cosa importantissima è che sia sul versante americano che su quello italiano ci saranno le pubblicazioni. The Girlfriend, che ha vinto l’OnStage Award è stato pubblicato dalla casa editrice La Mongolfiera, nella sua versione italiana. I vincitori del premio Mario Fratti vengono pubblicati dalla compagnia Kairos, solo in inglese per l’America. Posso anche dire in anteprima che per alcuni testi degli spettacoli che passano o che sono passati da In scena, ci sarà una prossima collaborazione con La Mongolfiera, per cui andremo a lasciare una traccia fisica e cartacea”.
È a questo punto che Tomaso Thellung de Courtelary ricorda il film Fahrenheit 451 di François Truffaut, con la famosa scena del rogo dei libri. Proprio in quella sceneggiatura c’era la battuta di forte impatto del ribelle Granger: “E quando ti chiederanno che cosa facciamo, tu gli risponderai: Noi ricordiamo”.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Il reading che è andato in scena il 29 ottobre ha inaugurato una serie di appuntamenti, i Lunedì di Via Giulia, fortemente voluti da Silvano Spada il direttore artistico del Teatro Off/Off. Dopo un grande classico, quattro sono gli appuntamenti previsti: il 12 novembre ci sarà The Conductor, spettacolo in lingua inglese con sopratitoli in italiano, un adattamento del romanzo di Sarah Quigley con Joe Skelton e Deborah Wastell. Il 19 novembre sarà la volta di Figlie di Sherazade, scritto, diretto e interpretato da Chiara Casarico e Tiziana Scrocca. Chiuderà il ciclo di novembre dei Lunedì la performance M², realizzata con il supporto di Pergine Open Spettacolo Aperto, Tenuta dello Scompiglio, OFF/OFF Theatre, Altofest – International Contemporary Live Art e Armunia-Castiglioncello.
Sebbene fosse stato già previsto nella programmazione, la lettura di Maddalena Crippa, tratta da Le Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone, ha ingenerato un evento sincronico, un’esperienza e, insieme, un viaggio della mente e nel tempo. Una grande artista può anche non aver bisogno di installazioni, scenografie e costumi. La Crippa, infatti, ha utilizzato solo un faro giallo-arancione, un leggio e un microfono. Anche la scelta di indossare abiti di scena sobri, scarpe basse, casacca e pantaloni neri, non è sembrata casuale. La decisione di presentarsi nelle rigorose e parche vesti di una sacerdotessa si è rivelata forte nella sua simbologia e funzionale al momento. Utilizzando il qui e ora del teatro l’attrice ha condotto la platea, donne e uomini del nostro tempo, in un varco spazio temporale dove è possibile ritrovare l’energia immortale dei classici. Mediante la forza dello sguardo, con piccoli movimenti del corpo che hanno saputo descrivere ambienti e situazioni, con la sapiente tecnica vocale, Maddalena Crippa ha celebrato un rito solenne e ha rapito gli spettatori per poco più di settanta minuti.
Declamando le parole di Ovidio: «Alle parole seguono i fatti e si avverano le profezie ». Due le storie raccontate e proposte al pubblico: quella di Bacco e quella di Fetonte. Tra i due racconti e alla fine, la sagoma del corpo della voce narrante sparisce in un buio momentaneo, prima di riemergere nella luce per gli applausi finali. Una presenza scenica la sua e una voce che è riuscita ad incarnare e a caratterizzare ora la divinità, ora il personaggio maschile o quello femminile. Il giovane, l’anziano, le folle dei marinai. Leggere le grandi opere è una sfida difficile, ma non in questo caso. Il loro potere è anche quello di mettere insieme tutti i pezzi e lenire la sofferenze. Maddalena Crippa lo consiglia: «Quando mi sento ansiosa, unruhig come dico in tedesco, i classici mi fanno stare bene».
In sala erano presenti alcune classi del Liceo Ginnasio Statale Virgilio di Roma, la cui sede si trova in quella stessa via, a pochi passi dal Teatro. Un esperimento riuscito perfettamente che realizza non un’alternanza programmatica scuola-lavoro, ma una sinergia scuola-teatro-vita.
Maddalena Crippa, durante la nostra intervista, dichiara appassionatamente tutta la sua stima verso quella docente che ha colto l’occasione con le sue classi, conducendo simbolicamente per mano quelle ragazze e quei ragazzi che emanavano un sincero rispetto verso quel luogo e quel momento sacro. La Crippa ha aggiunto: «Scoprire di colpo qualcosa che ti interessa o ti riguarda è un’esperienza che bisogna fare emozionalmente e razionalmente. Ma è necessario farla personalmente e fisicamente, tocca uscire e andare a teatro, nonostante la pioggia, il vento».
Nel suo reading tratto da Le Metamorfosi sono spesso presenti in sala scolaresche, liceali, nuove generazioni di futuri cittadini. Quali sono le responsabilità e le emozioni vissute nel fare da voce narrante e da tramite tra mondo classico e società digitale?
L’emozione è stata grande, da parte mia, soprattutto perché nella serata del 29 ottobre c’erano tanti studenti in sala. Tutto questo mi ha riempito di gioia per essere riuscita a catturarli con la lettura di Ovidio. Non è facile oggi, soprattutto con i giovani, ma è la forza del teatro. È il motivo per cui faccio questo lavoro, un po’ come una missione, perché credo nell’uomo, nella sua possibilità di stare nel mondo e anche di lavorare su sé stesso e crescere.
La dimensione teatrale oggi è più che mai necessaria perché è l’unico luogo dove si può verificare l’unità di tempo, di luogo, di spazio e c’è una concentrazione che permette lo sviluppo dei sentimenti, delle emozioni, dei pensieri ma non in solitaria. Il teatro è nato per una condivisione sociale, per vivere un racconto insieme, per interrogarci su chi siamo, da dove veniamo, per confrontarci con le tematiche e le problematiche che ci riguardano. Soprattutto oggi che siamo così separati, isolati, frammentati e sembra che l’attenzione debba essere solo di 3 secondi, perché dopo ci si annoia.
Al contrario, il teatro dà la possibilità di sperimentare sulla propria pelle l’unità, la riconnessione umana in tutta la sua potenza. Quando ciò si verifica, in quel momento si viene catturati e portati via da una realtà che si sta vivendo. Quando io, come attrice, riesco a far provare tutto questo e trascinare tante persone dentro una storia, allora si aprono contemporaneamente tutti quegli scrigni meravigliosi che contengono i classici.
In particolare i Greci e i Latini conoscevano profondamente l’animo umano e soprattutto lo sapevano esprimere. Cosa che noi, in particolare le nuove generazioni, con i mezzi telegrafici a disposizione, non sappiamo più fare. Oggi c’è l’omologazione assoluta. Il teatro può aprire davvero la mente, il cuore, le viscere e ti nutre spiritualmente. È la necessità di conoscere e di occuparsi di se stessi innanzitutto. Ognuno di noi è unico e deve scoprire la sua originalità, quella fonte meravigliosa che ognuno ha dentro di sé. È possibile farla sgorgare, non rimanendo dentro una torre isolata, ma insieme agli altri perché noi siamo esseri sociali, siamo nati per essere sociali.
Abbiamo bisogno gli uni degli altri; nasciamo con la necessità di qualcuno che ci accudisca, così come quando moriamo. La ricchezza sta proprio nella capacità di sviluppare relazioni, sentimenti e conoscenza di sé. Per questo i classici sono tali e non moriranno mai. Come loro, i Greci soprattutto, nessuno ha saputo descrivere l’essere umano e tutto quello che lo attraversa: l’ira, la vendetta, la gelosia, l’amore, la tenerezza… tutte le sfumature presenti, in special modo in Ovidio. La frase che riassume la sua opera, Le Metamorfosi, è: « Nulla si crea, niente si distrugge, tutto si trasforma».
Il dolore è un elemento che sembra mettere in connessione o a confronto il mondo descritto da Ovidio, con la realtà contemporanea sempre più anaffettiva. È così?
I greci piangevano come dei vitelli, sapevano bene quanto è salvifico e fondamentale dare sfogo e tempo alle cose, ai sentimenti, al sentire. La lettura tratta da Le Metamorfosi richiede attenzione e un’arte dalla mia parte, nel tirare dentro il pubblico. Quell’ora e dieci minuti di durata è un momento che si dedica e si trascorre insieme. C’è qualcosa che si sviluppa all’interno di ognuno e, come il pianto o la riflessione, ha bisogno di un tempo che non è interrotto e per questo può comunicare così potentemente.
Oggi, secondo me e rispetto ai miei tempi, per i giovani non c’è più una guida dell’anima, un prendersi cura della propria interiorità. Sembra che tutto sia diventato materiale in questo mondo, ma non è così. I bisogni umani non si esauriscono con i mezzi che abbiamo. Il problema è che tutto il lato umanistico, oggi, si è tirato come indietro. Ha preso il sopravvento il lato ingegneristico, tecnologico, con delle invenzioni stupende, ma come al solito non ci può essere soltanto uno sfrenamento. Fetonte lo dimostra ampiamente, così come tante altre storie. Ci vogliono limiti alle cose, regole e leggi che ci diamo e che osserviamo.
E così il lato umano in questo momento soffre perché non è alimentato, non è nutrito e per questo le persone sono infelici. Ognuno ha tutto e non è soddisfatto perché la felicità non viene da fuori, viene da dentro, dalla capacità di conoscersi e di accettare la morte e il dolore. Noi non siamo gli dei dell’Olimpo, siamo esseri umani e lì dobbiamo finire, come polvere. Il dolore è qualcosa che ci costringe e che ci porta vicino alla miseria di quello che siamo. La felicità è direttamente proporzionale a questo. Consiste nel saper godere delle piccole e non delle grandi cose.
Tutta questa instabilità, questa mancanza di futuro, tutto il lato negativo che possiamo sperimentare sarà pur vero, ma c’è sempre la possibilità della felicità. Bisogna accettare la propria finitezza, la propria inadeguatezza e andare avanti con fiducia, facendo quello che ognuno può realizzare nella sua dimensione sociale.
Per esempio il mio modo di essere attrice è quello di servire l’autore, in tutti questi anni ho affinato tutte le mie arti vocali, interiori, interpretative e di analisi per poi essere lì libera. Chiaramente si è trattato di una preparazione grande e poi, però, lì sul palco io sono al totale servizio: deve venire fuori Ovidio nella sua bellezza, nella sua potenza, nella sua tenerezza.
Per questo io dico che non può essere tutto così materiale, c’è questo elemento dionisiaco, qualcosa di santo per me che sono difesa dalla sacralità di quel luogo e sono anche senza rete perché si compie in scena, in quel preciso momento, né prima né dopo ed è irripetibile. Forse mi si può riprendere con la telecamera, ma rivedendolo non è la stessa cosa.
Questa è la mia arte di recitare, ma dovrebbe essere l’arte di vivere di ognuno: ci trasformiamo, niente può essere fermato, ma per questo è necessario vivere intensamente e con originalità. Ognuno secondo me dentro ha una grande forza, una altrettanto grande possibilità di gioire e di accettare la sofferenza, non si può far finta che esista solo l’una o solo l’altra.
Il gusto della narrazione, la forza atemporale dei classici, le dimensioni del sogno: è rivoluzionario il concetto che l’umana felicità è ancora possibile?
Non c’è felicità senza dolore, questo ognuno lo deve sapere, ma deve anche aver fiducia perché fa parte del nostro essere umani. La luce e l’ombra ci sono entrambe, il bene e il male stanno insieme, fanno parte di una lotta e di una ricerca umana. La felicità è possibile, bisogna avere la resistenza di non scoraggiarsi e di andare avanti giorno per giorno con questa consapevolezza e con l’umiltà di saper guardare dentro di sé veramente.
Quali sono state le principali metamorfosi, le trasformazioni di Maddalena Crippa come attrice e come donna?
C’è un tempo in cui vuoi essere brava con un eccesso di muscolatura, di presunzione e dopo avviene la metamorfosi come attrice. Io sono libera adesso, ho una grande esperienza che metto al servizio degli autori. Riesco a conoscere tutti i punti di snodo che mi aspettano analizzando il testo, ma non sono io che mi arrogo il diritto di farlo forte o piano. È il racconto o il momento a richiederlo. Porto con me la calma della mia respirazione, della mia vocalità che è pronta ed elastica, in una dimensione di rischio e accade così il miracolo. Avviene come una creazione. È molto forte per me ma anche per chi lo vede.
E così come donna, nello stesso modo, la metamorfosi più bella è quella che arriva col passare degli anni, quando ognuno sempre di più incontra chi è veramente. A volte non è bello. Accettare l’ombra dei propri difetti significa abbandonarcisi in qualche modo, senza indulgere, ma avendone la giusta consapevolezza. E poi c’è in me la voglia di dare agli altri sia come persona sia come attrice. Credo fortemente in questa missione e nella necessità della comunicazione. Io sono il mezzo per fare arrivare gli autori al pubblico in una maniera così fresca che a me non sembrano per niente così lontani, anzi mi sorprendono e mi calmano. Se sono agitata, ansiosa mi metto a studiare l’Odissea, in special modo adesso che dovrò leggere Polifemo a Imola, e mi pacifica subito. Tutte le volte che leggo i testi di Penelope e Ulisse mi commuovo e questo fa bene. È importante anche piangere, Ulisse piangeva continuamente, tutti gli antichi lo facevano perché c’era e c’è sempre qualcosa da sciogliere, ma non da soli. Quasi sempre erano insieme agli altri e non è una cosa riprovevole, è una cosa che fa bene, è un legame ma è anche il riconoscere l’anima, lo spirito.
«Dobbiamo tornare a essere fieri di come eravamo: un crocevia di lingue, culture, tradizioni». Questa citazione è sua, era il 2013, l’anno di Italia mia Italia. Recuperare l’umanità è diventata una missione ancora più difficile e urgente?
A me viene in mente Mimmo Lucano. Credo che noi italiani siamo la testimonianza di quello che siamo perché sono venuti e ci hanno invaso tutti. L’Italia per come è messa morfologicamente è uno stivale che si protende da nord verso sud, è tutta costa. Questa inventiva italiana, questo lato bello per il quale siamo conosciuti come inventori, deriva anche dal fatto di essere stati terra di conquista e di aver però saputo accogliere e mescolarci con gli altri. Da qui sono nate le nostre doti i maggiori. Come possiamo pensare di chiuderci adesso? È così avvilente e disperante perché nel passato ci sono stati dei momenti straordinari, felicissimi. Lo stesso Impero Romano era così grande e potente perché inglobando territori e popoli, lasciava loro libertà di culto e tradizioni.
C’era la possibilità di convivere. In Sicilia ancora di più, ci sono stati dei momenti di unione con l’Islam, con tutta la cultura orientale. Adesso c’è una omologazione e una tristezza nel popolo italiano che non riconosco. E allora, veramente, dove stiamo andando? Sono tempi disperati. Questo ritorno al fascismo, alla chiusura, al particolarismo trovo che sia estremamente pericoloso. L’esperimento di Mimmo Lucano dimostra innanzitutto che accogliendo ha dato dignità, ha recuperato un luogo e ha dimostrato che si può fare inclusione. Io sono dunque per questo modello di cooperazione, di conoscenza, di crescita insieme. In ogni caso bisogna andare avanti, bisogna tenere dritta la barra. Ognuno ha la responsabilità di questo mondo con la sua vita, con il suo comportamento, con il suo esempio. Può migliorare le cose, far del bene e dimostrare che ne vale la pena.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
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