Il Barbonaggio teatrale: trasformare le platee in comunità. Intervista a Ippolito Chiarello
Sfuggire alla politica per affidarsi al pubblico. Tornare alle origini del Teatro per vivere in purezza la relazione archetipa con l’altro. Incontri, umani prima che artistici, che fanno del Barbonaggio teatrale di Ippolito Chiarello una preziosa risposta socio-culturale nel segno della condivisione. Nato per reagire a un sistema teatrale claudicante, troppo spesso incapace di garantire condizioni favorevoli ai lavoratori dello spettacolo, il Barbonaggio teatrale si è formalizzato in un movimento artistico diffuso e praticato in tutta Europa.
La strada diventa il palcoscenico-mondo di cantastorie migranti che innescano potenti meccanismi di fruizione, rivelandosi instancabili fautori dell’aggregazione. Piazze e monumenti si convertono in scenografie affascinanti, su cui scrivere nuove pagine di pratiche antiche. Uscire dai teatri per riempire le platee di nuovi spettatori. Ritrovarsi agli angoli delle strade per riconoscere la propria storia nell’arte di strilloni vaganti. Festeggiando il decennale del Barbonaggio teatrale, Ippolito Chiarello, fondatore del movimento, racconta esordi, aneddoti e prospettive del suo progetto artistico.
Come nasce l’esperienza del Barbonaggio teatrale? Su che necessità si fonda la tua fuoriuscita dal teatro?
È nato dieci anni fa. La causa scatenante è stata uno spettacolo prodotto dal Festival Castel dei Mondi, ad Andria, che all’epoca era molto importante. Ho realizzato questo spettacolo con un drammaturgo, una regista, un light designer e così via: lo spettacolo aveva una grande scenografia, tante luci e io ero da solo sul palco. Era il 18 luglio del 2008 e, la notte stessa della prima, era maturata dentro di me l’idea che questo spettacolo non l’avrei mai più fatto, o comunque che sarebbe stato difficile riproporlo. Il giorno dopo telefonai a Simona Gonella, la regista, al designer Vincent Longuemare, al drammaturgo Michele Santeramo, e dissi loro che secondo me lo spettacolo non avrebbe funzionato, che non avrebbe avuto la possibilità di girare.
Fortunatamente, tutti hanno accolto subito la mia perplessità: abbiamo comprato quattro lampade, le abbiamo messe su una scena ridottissima e ho ripreso lo spettacolo con 100 euro, a fronte dei 30.000 euro della produzione precedente. Non sentivo più la forza del lavoro dell’attore, la bellezza del racconto. Così sono andato al Teatro di Bari, ho proposto lo spettacolo e, in cambio, ho chiesto di poter lavorare un’intera settimana. Ho tolto tutto, ma proprio tutto, ho acceso la lampada di servizio del teatro, e ho raccontato questa storia solo con un microfono e la musica in accompagnamento.
Lo spettacolo cominciava a prendere forma, e io finalmente ho capito quale fosse la mia strada – che si è concretizzata quest’anno, tra l’altro, con un viaggio lunghissimo – ovvero quella di fare teatro in una maniera molto pura: devi far funzionare quello che vuoi raccontare. Questo spettacolo si chiamava Fanculopensiero Stanza 510 ed è il sunto della mia idea di teatro, diventata una vera e propria filosofia di vita. Il protagonista dice: «Molto spesso pensiamo a quello che dobbiamo fare, a quello che abbiamo fatto. Forse, a un certo punto, dovremmo fanculizzare il pensiero e vivere il momento che stiamo attraversando».
Per promuovere lo spettacolo, il mio ufficio stampa mi propose di andare per strada a fare un po’ di volantinaggio e a me venne l’idea di montare un pezzo di scenografia, indossai l’impermeabile, e mi misi in piedi su un tappeto, in mezzo a una piazza. Ho cominciato a vedere la gente che si avvicinava e mi chiedeva che cosa stessi facendo, mi è venuto in mente di dire che stavo cercando qualcosa. Da quel momento è nato un dialogo con il pubblico. Ho diviso lo spettacolo in 11 pezzi di diversa lunghezza, gli ho dato un titolo e un prezzo la cui somma era pari a 65 euro, cifra che all’epoca corrispondeva alla paga minima di un attore. Ho cominciato a girare per l’Italia con un palchetto, l’impermeabile e una valigetta con qualche oggetto di scena. Ad oggi, sono circa cinquecento le città in cui sono stato con questo meccanismo spettacolare. Io volevo sfuggire alla politica, volevo affidarmi al pubblico. Il Barbonaggio teatrale è nato per incontrare il pubblico e per portarne di nuovo a teatro. Facevo quest’azione per strada perché volevo dimostrare alle persone che il mestiere dell’attore è un lavoro e non un divertimento, come troppo spesso viene considerato in Italia.
Con il Barbonaggio teatrale hai visitato diverse nazioni avendo modo di entrare in contatto con contesti organizzativi e produttivi differenti. Da questo punto di vista, in quali luoghi hai trovato delle buone pratiche che ritieni andrebbero assunte come modello dal sistema teatrale italiano?
Proprio continuando col racconto, la domanda capita a puntino. Per capire come funzionasse all’estero ho intrapreso un viaggio in tutte le capitali europee con un’interprete e con il regista-autore del film Ogni volta che parlo con me che successivamente abbiamo girato. Mi è capitato di lavorare in Canada, a Vancouver, in Francia e quello che ho compreso è che, in queste nazioni, se hai un progetto che vale, ti ascoltano. Ho cercato più volte di far circolare un progetto del Barbonaggio legato a un’azione di contatto tra artisti e cittadini, con famiglie di raccontatori, di barboni teatrali per far sì che la gente conoscesse il processo e sapesse che ci si può raccontare da soli, ma anche andare a teatro ed essere raccontati. In Italia non mi ha mai risposto nessuno.
Il Barbonaggio è diventato un movimento, è diventato un gergo del linguaggio teatrale, su di esso sono state fatte tesi di laurea ed è diventato un atto politico alto. Sono stato in Francia, a Nantes dove ho presentato il progetto al comune, al sindaco, alle istituzioni, e tutti ne sono rimasti entusiasti. Ho vinto il finanziamento della prefettura, il finanziamento della cittadinanza. Ormai a Nantes si parla del Barbonaggio, gli attori sono in giro a fare questa azione che durerà un anno: sto lavorando con tante etnie che si racconteranno sul palco, senza parlare di immigrazione, chiarendo che la diversità è una ricchezza. Mi sono posto il problema di fare qualcosa per la comunità perché, in fondo, io non avrei bisogno di andare per strada, eppure in questo modo mi conoscono ovunque e tutti mi riconoscono come l’inventore del Barbonaggio teatrale.
Il 28 dicembre sarai in scena al Teatro Argentina di Roma con lo spettacolo Mattia e il nonno, una coproduzione Factory Compagnia, Fondazione Sipario Toscana, in collaborazione con la tua compagnia Nasca Teatri di Terra. Come si collega il lavoro che hai svolto per questa nuova produzione all’esperienza del Barbonaggio Teatrale?
Il 10 maggio dello scorso anno ha debuttato a Milano, al Festival Segnali, lo spettacolo Mattia e il nonno tratto da un libro di Roberto Piumini, scritto vent’anni fa. È una storia straordinaria in cui si racconta a un bambino di sette anni come, anche quando una persona vola via, rimane dentro di te per tutta la vita. Lo spettacolo ha suscitato un grandissimo interesse, ha avuto molto successo, fino ad oggi sono state realizzate ottanta repliche. Questo spettacolo è venuto bene perché ho l’esperienza del Barbonaggio: in scena ci sono solo io con questo racconto delicatissimo, adatto a grandi e piccini. Il mio rapporto con il pubblico è così concreto e forte perché sono cresciuto artisticamente e politicamente recitando per strada.
A proposito di questo, il Barbonaggio teatrale innesca dei potenti meccanismi di relazione con lo spettatore. Credi sia possibile tradurre la forza di quel rapporto anche quando metti in scena i tuoi spettacoli in teatro?
Assolutamente! Questa forza attinta dalla strada – dalla relazione col pubblico reale –, mi riserva una grande consapevolezza quando sono sul palcoscenico. Quando io rivolgo il mio corpo, il mio sguardo verso il pubblico ho un’altra necessità: vorrei che, sul palcoscenico, la mia azione potesse trasformare la platea che è davanti a me in una comunità di persone che ascolta. In strada è così: se tu non funzioni, se tu non racconti qualcosa veramente, la gente passa dritta.
Adesso ho restaurato il palchetto e ho deciso di fare un’altra follia, anzi due: una è di mettere nel mio menù i cinque spettacoli che ho fatto, ciascuno suddiviso in cinque pezzi tra i quali è possibile scegliere. E devo farlo per strada perché per me è un modo per stare sempre con i piedi per terra, per continuare a lavorare con la testa, per non far morire certi spettacoli, perché sono un patrimonio che deve essere coltivato. L’altra follia che sto architettando è di fare un viaggio in America Latina, toccando tutte le tappe de I diari della motocicletta di Che Guevara.
Qual è l’insegnamento o l’incontro che in questi anni di migrazioni è stato per te maggiormente significativo come uomo e come artista?
Come artista, ringrazierò sempre la strada perché mi ha formato come attore consapevole. Umanamente mi ha arricchito di relazioni e sono una persona diversa, una persona che affronta le cose senza paura dell’altro. Ho conosciuto le altre etnie, gli altri popoli, e gli altri modi di essere e di vivere la vita e ho davanti a me l’idea di una vita colorata, fatta di tante sfumature. Un aneddoto che ricordo con piacere riguarda un uomo che, incontrandomi per strada, mi ha dato dei soldi e senza chiedermi di recitare un pezzo dal mio listino mi ha detto: «Penso che quello che sta facendo sia molto importante».Poi penso ai ragazzi, i bambini che all’inizio sono molto diffidenti ma che poi, quando cominciano a vedere che sei tu stesso l’opera, si incuriosiscono. Io vorrei essere un esempio per queste persone.
Quest’anno hai festeggiato il decennale del Barbonaggio teatrale con un’azione pubblica a Lecce. Immaginati alle celebrazioni per i 20 anni del progetto: rispetto ad oggi, cosa speri di ottenere o di preservare nel cammino futuro del Barbonaggio teatrale?
Mi piacerebbe che, tra dieci anni, artisti e cittadini potessero adottare questa modalità per dire quello che non va, agli incroci delle strade, come si faceva una volta con gli strilloni. Spero che questi piccoli palchi si possano moltiplicare, che diventi sempre più forte la necessità di raccontare in un mondo in cui il virtuale sta prendendo il sopravvento. Mi piace immaginare che questo mondo sarà fatto di persone che praticano quello che è stato il teatro all’origine: una storia, un palco, e un pubblico in una piazza. Questo sicuramente.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.