Sorgenti nel deserto. La direzione artistica racconta IAC – Centro Arti Integrate e Nessuno Resti Fuori Festival

Sorgenti nel deserto. La direzione artistica racconta IAC – Centro Arti Integrate e Nessuno Resti Fuori Festival

Esiste, a Matera, uno spazio di accoglienza e inclusività dedicato all’arte e alla comunità che, da oltre 10 anni, consente alla città di ottenere risposte circa le necessità sociali del territorio. 
Lo IAC – Centro Arti Integrate, come una sorgente nel deserto culturale che a lungo ha imperversato in molte località del Mezzogiorno, conduce un’azione di coinvolgimento e attivazione territoriale che investe tutte le fasce d’età, facendo dei cittadini e delle cittadine i primi attori sociali di questo processo di fioritura.

Progettazione culturale, percorsi formativi, produzione di spettacoli e programmazione sono le principali attività di IAC, alle quali, 6 anni fa, si è aggiunta l’organizzazione del Festival Nessuno Resti Fuori, che prenderà il via il 17 luglio 2021 nel capoluogo lucano. A partire da questa edizione, la direzione artistica è affiancata da un nutrito gruppo di giovani che ridisegnano, colorando fuori dai bordi, i confini culturali di un’intera regione.

Nadia Casamassima e Andrea Santantonio, alla guida della direzione artistica, raccontano IAC e Nessuno Resti Fuori Festival 2021

Come nasce IAC – Centro Arti Integrate e con quali finalità?

Nadia Casamassima: IAC – Centro Arti Integrate nasce circa 10 anni fa. Venivamo da una precedente esperienza teatrale in una compagnia di Matera e avevamo voglia di costruire qualcosa di nostro, quindi abbiamo fondato una cooperativa. Abbiamo scelto una forma che ci permettesse di trasformare nel nostro mestiere quello che fino ad allora era stato un lavoro discontinuo. 

La forma della cooperativa ci è sembrata quella più aderente alla nostra idea di teatro e di compagnia teatrale: un insieme di persone che contribuiscono a creare e alimentare il proprio lavoro. Da subito abbiamo individuato la nostra sede ideale in un ex frantoio, luogo di produzione fondamentale per la comunità, che si trova in una zona limitrofa tra la città vecchia e la città nuova, al limite dei Sassi. 

Andrea Santantonio: Siamo abituati a raccontare perché sia nato lo IAC partendo dalle nostre esigenze, in realtà l’intero territorio ne aveva bisogno. Se penso a quando abbiamo progettato IAC era esattamente l’anno in cui qualcuno disse che Matera sarebbe potuta diventare capitale europea della cultura. Partivamo dal deserto, era una visione a costruire e questa è stata la grande sfida di IAC: dare una risposta al un deserto di cui eravamo i primi abitanti.

L’identità di IAC non è mai stata collegata unicamente alla produzione artistica e teatrale. Ciò che ha contraddistinto le nostre azioni e i progetti che abbiamo immaginato è sempre stato connesso a questioni sociali. Per un periodo, si è detto che nel Teatro Sociale esistesse un imperativo morale secondo il quale fosse necessario dare il massimo di sé anche nel collaborare con persone che non aspiravano a diventare artisti. Questo imperativo morale è raddoppiato negli anni: bisogna avere la massima tensione sociale e la massima tensione artistica, occorre mantenere alta la qualità con cui si fanno certi percorsi anche nei contesti di marginalità sociale. La nostra ambizione è crescere insieme da un punto di vista sociale e artistico.

L’inclusività contraddistingue il lavoro di IAC, una caratteristica che nel tempo è diventata fondante per la vostra realtà. Come avete avviato il processo di coinvolgimento comunitario e quale è stata la risposta del territorio?

AS: Inizialmente abbiamo avuto difficoltà a coinvolgere i giovani, lavoravamo molto di più con adulti e bambini. Quando abbiamo sentito l’esigenza di conoscere nuove persone ci siamo spostati fisicamente per incontrarle. Siamo partiti da contesti stranianti, in cui non circolano neanche i mezzi pubblici, mettendo in piedi progetti teatrali che prevedessero la partecipazione dei cittadini. Questo è stato il primo meccanismo di attivazione del territorio. Dopo alcuni anni, abbiamo guadagnato la fiducia delle persone che hanno iniziato a integrarne di nuove, costituendo di fatto una rete di partecipazione e diffusione.

NC: Rispetto agli spazi che negli anni abbiamo utilizzato, la scelta è ricaduta su diversi luoghi non deputati perché non avevamo a disposizione un teatro. Questo ha mosso la nostra necessità di attivare un desiderio nei confronti del teatro, facendo sì che si costituisse un pubblico con la volontà di fare un’esperienza culturale. Partire da questa mancanza ci ha aiutato a sperimentare altre possibilità.

Volendo tirare le somme di questi 11 anni di attività, quali sono state le tappe del vostro viaggio?

NC: Le tappe sono state degli incontri, quello con il Teatro delle Albe ad esempio è stato fondamentale. Avevamo incontrato il Teatro delle Albe prima che nascesse il festival, poi li abbiamo invitati a tenere dei laboratori durante il festival Nessuno Resti Fuori. Da lì è nata una grande fratellanza. Il fatto che una compagnia storica, grande come il Teatro delle Albe si preoccupasse di noi, estremamente piccoli, ci ha fatto capire molte cose. La loro cura, la loro attenzione è stata importantissima, rappresentando un sostegno reale per quelle che erano le nostre fragilità, tutte da approfondire e coltivare. Attraverso questo incontro, abbiamo potuto allenare la nostra capacità di aiuto e sostegno nei confronti degli altri.

Anche la costituzione di #reteteatro41, fondata da quattro compagnie lucane, è stata una tappa rilevante del viaggio. Ci siamo resi conto che la Basilicata non aveva un sistema teatrale e neanche un pensiero politico che sostenesse il teatro e le attività culturali. Da qui l’idea di una rete per rafforzarci l’un l’altro e avere una maggiore incidenza sul territorio.

AS: Abbiamo anche seguito le fasi iniziali di Matera 2019 affrontando un percorso drammatico per certi versi, che ha messo in difficoltà le realtà del territorio vista la natura e la maestosità del progetto. In ogni caso è stato un motivo di grande crescita, tanto che per noi è diventato imprescindibile legare ciò che facciamo a una dimensione extraterritoriale, di relazione con nuovi contesti. 

Nessuno Resti Fuori è giunto alla sua sesta edizione. Già nel nome il festival porta con sé la volontà di un coinvolgimento tout-court della comunità materana, mettendola in relazione con l’altro, da un punto di vista artistico, progettuale e sociale. Da quest’anno è infatti attiva una direzione artistica partecipata. Che significato assumono il ritorno in presenza e l’annientamento di ogni tipo di barriera dopo quasi due anni di distanziamento fisico e relazionale?

AS: La direzione artistica partecipata è costituita da persone che condividono e costruiscono il pensiero di IAC, non si tratta di due percorsi paralleli che vengono posti in dialogo. Abbiamo sentito il bisogno di ridistribuire le responsabilità. Mi piace pensare che il festival non resti mai uguale a sé stesso, ma piuttosto che esso cambi come cambia il territorio
Già dal 2019 ci siamo resi conto di non gestire più il festival completamente. Stava succedendo che un gruppo di persone aveva preso in mano piccoli pezzi che costituiscono il festival, nella consapevolezza di sollevare noi della direzione dal carico di lavoro. Abbiamo allora deciso di strutturare maggiormente questa responsabilità.
Nessuno Resti Fuori è diventato un po’ meno nostro è un po’ più di tutti. La direzione artistica partecipata non nasce solo per trasmettere delle competenze in fatto di organizzazione ma soprattutto per incentivare la voglia di fare qualcosa insieme.

NC: In questi due anni ci siamo accorti di quanto le relazioni siano fondamentali, soprattutto nel nostro lavoro che richiede l’incontro, il rafforzamento del gruppo. 
Non so se ci abitueremo velocemente a stare più vicini, di certo abbiamo acquisito consapevolezza rispetto a una difficoltà individuale e sociale non ancora del tutto risolta. Oggi è ancora più chiaro che quello che facciamo deve avere un valore sociale e politico oltre che artistico, deve porre questioni non solo estetiche e di forma, ma soprattutto di contenuto.

Barbara Scarciolla – direzione artistica partecipata: Quest’anno il festival si terrà al Borgo La Martella, la cui costruzione, avvenuta intorno agli anni ’50, è stata vissuta come un esodo dai cittadini che, dai Sassi, dal centro storico, si sono trasferiti in questo quartiere. Come loro, a seguito di questi due anni, ci ritroviamo tutti a dover affrontare un processo partecipato di ricostruzione e di abitazione dei luoghi comunitari.

AS: Mi auguro che resti memoria dell’eccezionalità del dolore che abbiamo provato. Mi preoccuperei molto se tutto venisse lavato via immediatamente. Se scomparisse la memoria vorrebbe dire che siamo disposti ad accettare la consuetudine di un cambio di realtà come quello che abbiamo vissuto. Si tratterebbe di una sconfitta politica del corpo, delle dinamiche sociali e di quanto ne consegue.