N.E.R.D.s. di Bruno Fornasari – Intervista a Tommaso Amadio
È arrivato a Roma da Milano, portando una brezza di novità, contaminando il genere della commedia con un dosaggio alto di ironia e provocazione, con una capacità di analisi lucida dei fenomeni sociali che ruotano intorno alla famiglia, alle convenzioni, al disagio di una, nessuna, centomila generazioni.
Tutto questo è N.E.R.D.s. di Bruno Fornasari, l’autore del testo pubblicato dalla Cue Press, casa editrice emiliana specializzata, ma anche regista dello spettacolo che di recente ha fatto tappa al Teatro Brancaccino di Roma, nell’ambito della rassegna “Spazio del Racconto”.
La storia è quella di una famiglia come tante, riunita per festeggiare l’anniversario dei 50 anni di matrimonio dei genitori in un agriturismo. Tutto dovrebbe essere perfetto e organizzato nei minimi dettagli. Come spesso accade, però, emergono conflitti, rancori, silenzi e segreti immagazzinati da troppo tempo che fanno scoppiare quel ménage familiare e la sua apparente perfezione. Sono passati tre anni dal suo debutto e la commedia ha riempito le platee di tanti teatri, incontrato il favore di spettatori e critica.
Un altro elemento fondamentale, dietro al successo di questo progetto, è la presenza di Tommaso Amadio. Attore e regista, diplomato all’Accademia dei Filodrammatici e dal marzo 2008 co-direttore artistico, insieme con Fornasari, del teatro dei Filodrammatici. Insieme sono giunti alla settima edizione di quella che è stata una stagione dinamica e ricca di fermenti. Dedicata al tema del fanatismo, positivo e negativo, una caratteristica della nostra società contemporanea.
Con un cartellone ricco e focalizzato da sempre sulla drammaturgia contemporanea, tante sono state le idee messe in campo. Ad iniziare da quella che è una collaborazione stimolante con il Teatro Elfo Puccini, immaginando future coproduzioni e affinità drammaturgiche. La mostra “Gocce in movimento” con i disegni progettuali dei mosaici dello scultore Francesco Somaini. Il ciclo di lezioni-spettacolo Retro-scena: storie di palchi, retropalchi e sottopalchi. Il biglietto dinamico acquistabile solo on line e che permette di trovare il giusto prezzo grazie ad un algoritmo. E infine CON_TESTO 2017, un contest-esperimento di scrittura teatrale: cinque squadre di giovani autori, registi, attori impegnati a realizzare uno spettacolo originale in 24 ore ispirandosi a temi di attualità e notizie. Il fil rouge di tutto questo è la curiosità vivace che si respira al Teatro dei Filodrammatici, è l’occhio che osserva ma non giudica la realtà. È anche il racconto, un’intervista con Tommaso Amadio che è parte di tutto questo.
Come è stata l’esperienza con N.E.R.D.s, come si è evoluta la sua storia fino ad oggi?
Lo spettacolo ha debuttato quattro anni fa; la regola che io e Bruno (Fornasari, ndr) ci siamo dati è questa: lui scrive, poi scaramanticamente mi fa leggere i testi, come prima persona, e ci confrontiamo sulle sensazioni. Come mi è già capitato di dire, quando ho letto il testo di N.E.R.D.s per la prima volta, sicuramente ho riconosciuto come sempre la penna di Bruno, la sua capacità, il suo sarcasmo, la sua ironia. Non avevo colto, non avevo immaginato quanto potesse avere un potenziale così comico, nonostante un tema così drammatico. Se tu leggi quanto è scritto sul copione, quello che emerge di più è la dimensione di violenza con cui questi personaggi si parlano. Durante il lavoro delle prove Il meccanismo è stato tutto al contrario, volto ad alleggerire.
Come spesso capita nella vita, riusciamo ad essere terribilmente violenti gli uni con gli altri. Incapaci di cogliere i bisogni degli altri perché tendiamo a guardare solo i nostri. Tutta la prima parte delle prove è stata impiegata per trovare la dimensione di leggerezza nell’interpretazione. Questa è un po’ la cifra stilistica della nostra compagnia da sempre, crediamo che la risata sia il meccanismo più genuino per entrare in contatto con il pubblico, tramite cui cerchiamo di passare una serie di interrogativi. Quindi l’idea è che la risata, l’intrattenimento non sia un fine ma il mezzo con il quale condividere poi delle domande. Questo è il nostro chiodo fisso, in questo caso specifico il testo richiedeva dei ritmi molto serrati. Sicuramente nella prima parte delle prove la cosa difficile è stata riuscire a dare tutti i significati che il testo suggeriva all’interno di un ritmo serrato. Nello spettacolo noi non indugiamo su nulla ma cerchiamo di correre come nella vita. Non ti dai il tempo di riflettere su cosa l’altro ti sta dicendo, sui bisogni che ti sta esprimendo. In Italia hai la sensazione che le persone siano in silenzio non tanto perché ascoltino, ma perché aspettano di poter intervenire.
L’altro tema essendo un blocco familiare era di far vedere come spesso siamo terribilmente insensibili e, volontariamente o involontariamente, cattivi con le persone che ci sono più vicine perché l’intimità spesso crea quella non barriera che fa essere cattivi e violenti.
Qualcosa è stato “ammorbidito”?
In realtà non voleva essere ammorbidito. La crudezza del testo, se si legge il copione, emerge molto chiara, senza una interpretazione attoriale. Il lavoro era proprio quello di non alleggerire per alleggerire, ma cercare di capire, e in questo c’è stato molto utile osservare la vita, come spesso possiamo dire le cose più terribili, ma col sorriso sulle labbra, buttandola sul ridere. Anche perché spesso il sarcasmo e l’ironia sono un po’ le cifre stilistiche del nostro tempo e sono anche lo strumento con cui noi spesso allontaniamo i problemi. Perché essere ironici e sarcastici dà la sensazione di essere capaci di dominare un fenomeno o un argomento. In realtà questo si traduce spesso in quel bruciore di stomaco di cui parla lo spettacolo.
Pensando al pubblico di Roma, che tipo di feedback avete ricevuto?
Il pubblico esce dal teatro molto contento e diciamo che conferma quella che è stata la galoppata di questo spettacolo in questi tre anni. Sicuramente, senza false modestie, possiamo dire che ha avuto tanto affetto, tanto pubblico e riscontri molto positivi. Quello che ti posso dire è che è stata la prima volta che siamo venuti in centro Italia, a Roma. Durante le prime repliche la sensazione che abbiamo avuto è come se il pubblico non si fosse concesso fino in fondo di ridere di certe dinamiche, come se un po’ si giudicasse. Ci sono tante situazioni in cui si ride parecchio, anche di alcuni meccanismi violenti Nel Nord Italia, invece, ridere anche di un certo cinismo, di situazioni, di contesti è stato liberatorio. Poi anche a Roma è avvenuto, ma è stato come se all’inizio il pubblico fosse un po’ intimorito.
Sono state le sensazioni solo delle prime repliche. Come puoi immaginare nello spettacolo noi raccontiamo sempre la stessa storia, ma in realtà la storia ogni sera è diversa perché incontra un ingrediente fondamentale: il pubblico che ogni volta è fatto di dinamiche diverse.
La formazione del cast è stato un percorso facile?
Noi tendenzialmente non facciamo provini ma facciamo dei workshop perché riteniamo che oltre a scegliere gli attori che lavoreranno con noi, ci devono scegliere anche loro. Ovvio che il regista, il drammaturgo hanno la parola finale su quello che sarà lo spettacolo, ma il contributo di ogni elemento del lavoro dalla scenografa, alla costumista, agli attori è un rapporto assolutamente creativo e implementare rispetto a quello che dobbiamo raccontare. Indipendentemente dal fatto che la base centrale è il testo. La scelta degli attori per noi è sempre centrale perché oltre a cercare dei bravi professionisti giusti per il ruolo, cerchiamo delle persone che secondo noi possono avere delle caratteristiche umane particolarmente idonee per quel progetto, per quella storia e con le quali sentiamo di poter condividere un modo di stare sul palcoscenico.
La dimensione di divertimento, la dimensione del dietro le quinte, la dimensione di condivisione come squadra per noi è centrale per il risultato dello spettacolo. Ed è proprio il nostro chiodo fisso in ogni produzione, in tutti i lavori che abbiamo prodotto con i Filodrammatici in questi anni. Si è creato un clima molto bello di squadra. Nel caso specifico per noi è veramente una gioia lavorare insieme, mi piace citare Riccardo Buffonini, Michele Radice, Umberto Terruso che sono gli altri attori partner con me in scena. Senza di loro questo spettacolo sarebbe molto strano Ci tengo inoltre a ricordare anche una grandissima professionista e persona sul piano umano che è Erika Carretta la nostra scenografa e costumista che ci segue da quando abbiamo iniziato come compagnia ai Filodrammatici.
Com’è andata questa stagione al Teatro dei Filodrammatici?
Facendo tutti i debiti scongiuri, in questi ultimi anni c’è stato un bellissimo e grande riconoscimento. Abbiamo iniziato otto anni fa, improntando un teatro solo ed esclusivamente sulla drammaturgia contemporanea. Ricordo che gli operatori, tranne rare eccezioni, mosche bianche, dicevano che se non si facevano i classici il pubblico non sarebbe venuto. Oggi la situazione si è completamente ribaltata, almeno su Milano e sul nostro territorio. Quasi tutti fanno drammaturgia contemporanea e posso dire che la nostra realtà è riconosciuta e apprezzata proprio perché ci occupiamo solo di drammaturgia contemporanea da sempre. Abbiamo la fortuna, rincorsa e difesa con le unghie e con i denti, di avere un drammaturgo interno come Bruno che ogni anno produce un testo per il teatro. Oltre ovviamente ai testi di drammaturgia contemporanea europea che mettiamo in scena.
Che tipo di lavoro avete impostato per la definizione dei personaggi?
A me non piace parlare tanto di personaggi quanto di ruoli in un contesto. Mi spiego, tu adesso sei con me, mi stai intervistando, non ci conosciamo. Sei un’altra persona, un altro ruolo quando ti relazioni all’altro: fidanzato/fidanzata, madre/padre, amici Noi siamo la circostanza nella quale ci troviamo e assumiamo un ruolo a seconda dell’intimità che possiamo avere con gli altri. Questo per dire che cosa? Che il nostro lavoro, fin dall’inizio, nelle fasi di prova, è quello di cercare di capire il ruolo, in che circostanza si trova e che volontà ha. In base a quello andiamo ad osservare la realtà per cercare dii capire quali possono essere gli elementi che caratterizzano ogni ruolo in quei momenti. Quindi tutto va a cascata in base al testo, in base a che cosa ci suggerisce e pian piano andiamo a trovare quei segni, senza descrivere troppo, che riescano però a raccontare precisamente un momento, una situazione, un conflitto tra personaggi e ruoli.
come e’ stato Recitare i doppi ruoli maschile e femminile nello spettacolo?
Recitare doppi, tripli ruoli è già capitato con altri testi, non con questo cast. Nel lavoro con Bruno ci è capitato spesso di fare più ruoli, non sempre ovviamente, in base a quello che era il bisogno della storia che stavamo raccontando. Recitare le donne per certi aspetti è curioso. Giocare a recitare un ruolo molto distante da te è più facile perché hai più strumenti di osservazione. Osservare te stesso e quindi portarti in scena è sempre più difficile perché sei come sempre troppo vicino alla materia. Osservarsi, guardarsi con l’oggettività che ti porta a fare emergere degli elementi significativi è più complesso, mentre osservare qualcosa che è molto lontano da te, paradossalmente, ti permette di pennellarlo sicuramente con più divertimento e con maggior precisione.
Anche per gli altri attori di N.E.R.D.s l’idea di avere più ruoli è stata influenzata dal contesto, dalla circostanza in cui quei ruoli andavano, di volta in volta, a discutere o litigare, piuttosto che relazionarsi tra di loro.
Spesso viene citata la frase attribuita a Charles Darwin “Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti”. Il vostro spettacolo spinge più verso la descrizione di un adattamento passivo o attivo nell’evoluzione sociale e nella realtà?
Intanto farei una premessa doverosa: questa frase attribuita a Darwin, in realtà è un fake, nel senso che è di un economista che, per motivare i cambiamenti e il bisogno di adattarsi ai cambiamenti dell’economia moderna, ha tirato in mezzo Darwin parlando di questa teoria dell’adattamento, così come viene raccontato. Diciamo quindi che partiamo da un falso per arrivare, come dire, a toccare alcune verità.
Come Tommaso Amadio, sicuramente mi verrebbe da dire che lo spettacolo cerca di dimostrare come nel non ascolto degli altri, delle circostanze nelle quali ci troviamo perché preda della paura, perché spaventati dall’idea di essere prete di qualcosa, sicuramente perdiamo alcuni elementi fondamentali per la nostra capacità di adattamento. Come hai visto, tutti i personaggi di N.E.R.D.s sono affetti da un’unica grande malattia che quella di essere schiavi delle proprie paure, incapaci di ascoltare fino in fondo le istanze degli altri. Nel momento in cui veramente cerchi di mettere insieme agli addendi nella vita, non considerando l’altro per forza un pericolo, ma eventualmente un’opportunità. Allora esplode un significato altro che non è più il mio o il tuo significato, ma la somma dei nostri significati e di quello che noi osserviamo della realtà. Quando ci chiudiamo nelle nostre verità, nelle nostre certezze, che poi spesso sono frutto di paure, allora quello che avviene è una continua parcellizzazione della realtà che ci porta oltre ad una grande solitudine, ad una incapacità di guardare tutto con un occhio più ampio.
Il finale a sorpresa come è stato concepito?
È curioso perché in realtà quello è stato il primo pezzo che Bruno ha scritto. È stato presentato a Next, un bando della Regione Lombardia per i teatri di produzione Milanese, ed ebbe un successo molto grande. Era diverso, non era esattamente il tipo di composizione che è adesso. Lui è partito da quello, dalla fine, con quei personaggi. Ad un certo punto però è entrato un po’ in crisi perché tutta la macchina sembrava un grosso divertissement e lui come drammaturgo non riuscirà più a capire quale fosse il senso, la direzione del testo che stava costruendo. Per quanto uno scrive delle cose belle non è mai un processo facile, può essere frustrante. Per arrivare ad una sintesi, ha buttato tutto e ha ricominciato, così è venuto fuori N.E.R.D.s che aveva una sua compiutezza.
Abbiamo deciso di inserire quel pezzo di Charles Darwin e sua moglie Emma, nel controfinale, dopo gli applausi, perché quello di cui ci siamo resi conto con il produttore è che la fine dello spettacolo sembrava un po’ raccontarci che esistesse una sorta di età d’Oro, prima di questa società contemporanea, dove i rapporti tra le persone erano idilliaci. Questo non ci piaceva perché non è vero, la storia non ci racconta questo. Quindi il post finale è un modo leggero per raccontare come nelle società precedenti tutto quello di incoerente che oggi vediamo esplodere nell’ambito familiare non è che prima non ci fosse. È solo che le persone erano più abituate a gestire il senso del sacrificio, la frustrazione, quello che oggi invece abbiamo smesso di fare. Io credo che il risvolto oscuro della nostra società è che i meccanismi del consumismo sono stati applicati anche nelle relazioni: “ti uso fin quando sei qualcosa di interessante, poi sono legittimato a lasciarti nel dimenticatoio”. Non mi sento di giudicarlo, lo osservo e basta.
Il fatto è che questo crea inevitabilmente delle monadi impazzite. Le generazioni precedenti erano più abituate a pensare che le relazioni fossero un processo faticoso nelle quale ti dovevi impegnare, per farne qualcosa di sensato e non di mostruoso, a cui devi dedicare tempo. Oggi tutto questo impiego di energia nelle relazioni è qualcosa che noi abbiamo difficoltà a concepire culturalmente perché abbiamo la possibilità di attingere una quantità enorme di stimoli e desideri. Penso ai social network, agli oggetti di consumo che hanno addirittura l’obsolescenza programmata, che si romperanno in modo pianificato per darci l’illusione, il piacere di comprare qualcosa di nuovo e ancora nuovo e credo che tutto questo si traduca anche nei nostri comportamenti.
E il cane invisibile?
Fa parte del codice registico emerso durante le prove. Bruno non parte un’idea preconcetta di regia, ovviamente tutto è frutto del processo di prove. All’inizio si pensava di fare le donne con le parrucche stilizzate e poi siamo arrivati alla sintesi della sintesi che sono le borsette. Inevitabilmente se entrano degli attori vestiti sempre uguali, solo con dei piccoli elementi, avere un cane reale avrebbe spezzato il codice, la regola che avevamo costruito, il gioco con il pubblico. Da lì abbiamo utilizzato solo il guinzaglio e il cane lo immagini esattamente come devi immaginare che nel momento in cui ho una borsetta in mano sono una donna con alcune caratteristiche comportamentali. Ci sembrava logico e in linea con il codice che abbiamo deciso di usare con il pubblico.
Cosa ha mosso e cosa muove la tua emergenza artistica?
Di fronte alla parola “artista” ho sempre un certo imbarazzo. Se riusciamo a fare del sano artigianato, fatto bene, cioè di raccontare una storia, di riuscire a coinvolgere il pubblico rispetto a quelle che sono le domande che noi ci facciamo, nella vita e in pubblico, io sento che abbiamo raggiunto il nostro obiettivo. Sta ad altri definire se qualcosa è artistico o no. Nel mio campo, nel mio compito specifico di attore quello che cerco ogni volta è questo: provare a raccontare la realtà per come uno la sente, la osserva in base ai propri limiti, alle proprie idiosincrasie, con il massimo grado di onestà. E riuscire a condividere tutte quelle domande che senti che appartengono e senti che possono appartenere alla società di quel momento.
Come direttore del teatro posso dirti che a noi capita spesso di pensare a spettacoli, a testi che ci piacciono molto, ma ci facciamo sempre una domanda: è qualcosa che urge solo a noi? Abbiamo la sensazione che quella proposta possa contaminare e, in un certo qual modo, pervadere anche le persone che ci sono intorno? Se la risposta è positiva sulla seconda parte, quindi non è solo una nostra urgenza o elucubrazione, allora andiamo avanti sennò siamo disposti anche ad accantonare un testo, un’idea che ci piace molto, se abbiamo la sensazione che non sia urgente per la realtà che ci circonda. Perché ci sentiamo sempre fortemente immersi nel qui e oggi, noi come teatro. Siamo l’unico teatro ad essere “Shakespeare-free”, non abbiamo mai messo in scena un testo shakespeariano. Non perché non lo amiamo o perché non lo studiamo in modo approfondito anche in Accademia, con i nostri insegnanti e con i nostri allievi, ma perché cerchiamo di prendere un po’ quella che secondo noi è la grande lezione di Shakespeare che scriveva testi per il suo tempo e per il suo pubblico.
Per noi è un classico ma per gli spettatori si allora era un drammaturgo contemporaneo che affrontava temi contemporanei attraverso metafore. Per noi questo è forse lo stimolo più grande, spesso ci dimentichiamo che William Shakespeare che consideriamo uno dei più grandi poeti, sicuramente del teatro, ma non solo, uno dei più grandi della cultura europea, parlava a un pubblico che per il 95% era analfabeta. C’era una grande regola, ovvero che quello che si raccontava sul palco, da zero a uno, doveva essere un processo comunicativo chiaro per tutti. E ancora oggi, si possono fare tutte le intellettualizzazioni che si vuole, ma da zero a uno, se il teatro è un atto comunicativo il processo deve essere chiaro per tutti. Su questo secondo me Shakespeare è una grandissima scuola perché accanto ai grandi monologhi della Tempesta non a caso poi fa succedere momenti di comicità. La macchina che mette in moto è straordinaria, si concede grandi riflessioni sull’esistenza ma sempre all’interno di un meccanismo attentissimo a non ammorbare il pubblico. A farlo rimanere sedotto di quello che gli viene raccontato.
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