Le loro voci stavolta. Le artiste africane e afrodiscendenti a Short Theatre

Le loro voci stavolta. Le artiste africane e afrodiscendenti a Short Theatre

Raccontare nella sua totalità l’edizione appena conclusa di Short Theatre 2021 non è semplice per la molteplicità di traiettorie che l’hanno caratterizzata. Ci sono stati i numerosi interventi nello spazio pubblico, le affissioni che hanno modificato l’ambiente interno della Pelanda e i muri della città, oppure la performance di Amanda Piña che si è svolta in Piazza Testaccio. Ci sono state le presentazioni di libri e le sonorizzazioni, l’inaugurazione di un nuovo palco per i dj set e i concerti, la formula Cratere per abitare WeGil, le proiezioni, i laboratori partecipativi e naturalmente gli spettacoli, tra cui l’attesissimo debutto dei Motus con Tutto Brucia.

Volendo scegliere un filo per sorvolare le giornate trascorse crediamo però di non tradire lo spirito del festival dando risalto alla forte presenza di artiste africane e afrodiscendenti che ha caratterizzato questa edizione. Performer che teniamo insieme più che per la semplice origine geografica per la condivisione di un problema, di un ostacolo, di un’ingiustizia ereditata. Short Theatre negli ultimi anni si è andato caratterizzando per l’attenzione e il coinvolgimento verso quel brulicare di istanze emancipative entrate in rotta di collisione con le arti performative, ospitando gruppi, progetti e persone che se ne sono fatte portatrici. Riprendendo quindi il titolo di questa edizione ovvero «The voice this time» e le parole della co-direttrice Piersandra Di Matteo — che nella nostra intervista affermava l’importanza di garantire uno spazio di ascolto — ci concentriamo sulle loro voci stavolta, che urlano spesso un’accusa nei confronti della cattiva coscienza occidentale.

L’accensione al festival l’ha data Sofia Jernberg, con un’operazione dal significato potente. L’edificio WeGil, situato tra Trastevere e Testaccio, è un lascito del fascismo i cui segni parlano in maniera fin troppo esplicita delle aspirazioni imperialiste della dittatura made in Italy. Ebbene, sotto la scritta «Necessario vincere, più necessario combattere» Jernberg si è affacciata dal balcone — le sue origini etiopi rendono l’atto ancora più pregnante — dando un assaggio del suo percorso di ricerca sulla vocalità, sotto il titolo Chasing Phantoms. Un momento toccante tutto all’insegna del détorunement: del bel canto, della tradizione canora africana, della pesante eredità coloniale fascista; non possiamo far finta che i fantasmi non esistono, ma la loro evocazione deve servire a scacciarli, a depotenziarne il lascito.

Muna Mussie è una performer bolognese con origini eritree. Questa doppia identità è alla base del lavoro Curva Cieca, un viaggio alla riscoperta della lingua materna tigrina con la guida della voce di Filmon Yemane, ragazzo non vedente anch’egli eritreo. Gli excursus di Yemane per spiegare i termini sono estremamente affascinanti, rimandando all’inevitabile intraducibilità e allo stesso tempo al terreno comune tra le lingue, mentre Mussie in scena invita a riflettere sui confini con movimenti minimali ed enigmatici. Indossa una maschera, come a simboleggiare l’involucro che ogni cultura costituisce, quando poi la maschera si fa doppia è evidente il richiamo alle due identità di cui si parlava sopra, ma anche un riferimento a Giano, dio delle soglie e dei passaggi, non sarebbe fuori contesto.

Quella di Cherish Menzo, artista olandese di origini surinamesi, era forse una delle performance più attese per il suo linguaggio estremamente attuale. Il bersaglio critico di Menzo in Jezebel è infatti l’immaginario sessista dell’hip hop e se i codici sono cambiati rispetto a quelli di vent’anni fa, non sono certo pochi i trappers di oggi a ricalcare ancora quegli stereotipi. Nella prima parte dello spettacolo Menzo corre forse il rischio di farsi risucchiare da quello stesso immaginario giocando sul lato provocante e attraente, il twerking però viene spinto all’estremo delle possibilità fisiche così come il testo della canzone cantata rigorosamente in autotune è un’esplicita dichiarazione di sottomissione al maschio alfa gangster rap. 

La musica è sicuramente una parte importante della performance, estremamente curata rispecchia questo stare nella contemporaneità pur contestandola; non c’è infatti un’alternativa nello spettacolo di Menzo ma piuttosto una critica interna. L’artista comunque non risparmia le energie sul palco fino alle ultime scene, in cui si trasforma in una enorme bambola gonfiabile dorata.

Nadia Beugré è una coreografa e danzatrice ivoriana che a Short Theatre ha portato una rivisitazione del suo lavoro Quartiers Libres originariamente concepito nel 2012 ma adattato stavolta alla specifica architettura della Pelanda. È una performance che può avere molteplici letture, quella che forse più ci affascina è l’intralcio dell’eredità. Beugré fa il suo ingresso in abito da sera e tacchi a spillo, intonando dei canti tradizionali africani, prima di scoppiare in una fragorosa risata. Il cavo del microfono si confonde con le treccine e diventa presto un legaccio in cui la danzatrice rimane impigliata. 

Con rabbia e allegria allo stesso tempo si scaglia contro i politici, cercando il coinvolgimento attivo di un pubblico a dire il vero piuttosto restio. Come elemento di passaggio per la seconda parte, Beugré inserisce tra le labbra e spinge in profondità una busta dell’immondizia. L’eredità che ostruisce così potrebbe essere anche quella dei rifiuti di cui siamo sommersi, poco dopo infatti lei e alcune ragazze e ragazzi che hanno partecipato al suo laboratorio nei giorni precedenti, si ricoprono di bottiglie di plastica mentre intonano «A far l’amore comincia tu». Un’interrogazione stimolante che rimane gioiosa nonostante incorpori momenti di segno opposto.

Tra la fine del festival e il suo inizio c’è un ideale punto di contatto, perché le ultime battute sono riservate ad artiste con radici africane, ma soprattutto perché come in apertura si parla di fantasmi legati alla storia coloniale, seppure di ispirazione diametralmente opposta.

Dopo l’appuntamento conclusivo alla Pelanda, il dj set massimalista di Crystallmess, francese dalle origini guadalupe-ivoriane, è andato in scena il gran finale, l’opera Nehanda di Nora Chipaumire al Teatro Argentina (mostrarla in quel contesto ha senz’altro un valore importante). Un grande progetto diviso in otto capitoli di cui abbiamo visto l’ultimo, incentrato appunto sullo spirito Nehanda venerato nello Zimbabwe in cui chipaumire è nata e cresciuta. 

L’opera è fortemente politica perché ad incarnare lo spirito alla fine dell’800 fu una leader rivoluzionaria che lottò contro l’occupazione e lo sfruttamento dei britannici. All’inizio assistiamo ad un concerto con degli abilissimi musicisti e una corista che ripete incessantemente «No justice, no peace», il potente slogan utilizzato da diversi anni nelle proteste degli afroamericani diviene quasi un mantra. Nel frattempo chipaumire al microfono intreccia la storia con pungenti invettive, anche indirizzate specificamente a noi: «L’Italia ha una particolare relazione con l’Etiopia», ricorda. Sul finire va in scena una vera e propria manifestazione di piazza, il cui messaggio e la cui energia arrivano forte e chiaro: lo spirito di Nehanda non si assopirà fin quando giustizia non sarà fatta.

La II edizione di Paesaggi del Corpo Festival Internazionale Danza Contemporanea

La II edizione di Paesaggi del Corpo Festival Internazionale Danza Contemporanea

Paesaggi del corpo

Dal 12 giugno al 21 novembre 2021, più di 30 spettacoli, performance site specific, incursioni urbane, eventi per ragazzi e ragazze verranno presentati da compagnie italiane e internazionali, durante la seconda edizione di Paesaggi del Corpo – Festival Internazionale Danza Contemporanea a Velletri (RM).

Dialoghi, titolo evocativo dell’edizione 2021 del Festival, rimanda alla caratteristica del progetto di mettere in moto processi di incontro e confronto tra le diverse arti, gli artisti e la comunità locale. La rassegna, interamente dedicata al contemporaneo, cerca di raccogliere al suo interno una rosa ampia di proposte artistiche differenti, ognuna caratterizzata dalla propria ricerca stilistica e poetica e dal proprio linguaggio innovativo, per dare una visione ampia e variegata, che vuole comprendere stili e percorsi di ricerca diversificati.

Tra le molte partecipazioni, si annoverano nomi di punta nel panorama italiano come Compagnia Zappalà Danza, Balletto Civile, Silvia Gribaudi, Compagnia Atacama, EgriBianco Danza, Ariella Vidach AiEP, Motus, Gruppo e-Motion, Compagnia ASMED Balletto di Sardegna, Megakles Ballet – Petranura Danza, Andrea Cosentino, DaCru Dance Company e Mandala Dance Company; oltre alla formazione portoghese Companhia De Dança De Almada. Il programma prevede anche produzioni di autori e coreografi emergenti under 35 come Uscite Di Emergenza, Riccardo Guratti, Antonio Taurino, Marta G. Tabacco.

Inoltre la rassegna intende dialogare anche con un pubblico di bambini/e e ragazzi/e ai quali è dedicato Il Brutto Anatroccolo della Compagnia Atacama che viene proposto anche in matinée per le scuole, a seguire diversi incontri con i bambini perché possano conoscere gli autori e gli interpreti, fare domande, condividere emozioni e pensieri.

Il programma comprende anche laboratori pratici con esito finale aperto al pubblico che verranno realizzati in collaborazione con le scuole di danza del territorio, aperti a danzatori, attori, performer, professionisti, amatori, in dialogo tra percorso creativo e approccio pedagogico, guidati da coreografi e docenti di fama internazionale come Patrizia Cavola e Ivan Truol, direttori artistici e coreografi della Compagnia Atacama, Riccardo Guratti, autore e ricercatore di fama internazionale e Beatrice Libonati danzatrice solista e assistente artistica nella compagnia di Pina Bausch dal 1978 al 2006 e poetessa autrice di sette libri di poesie.

Con la finalità di sostenere la creazione artistica, il programma prevede varie residenze creative: laCompagnia Atacama sul progetto Sine Tactu, Uscite Di Emergenza di Davide Romeo sul progetto AQuarium e all’interno della sezione Nuove generazioni due residenze di giovani autori under 35 selezionati in collaborazione con la Piattaforma coreografica Corpo Mobile 2021.

I luoghi della rassegna, scelti con l’attenzione a valorizzare il patrimonio culturale della città di Velletri, saranno come sedi degli spettacoli e delle performance il Teatro Artemisio Gian Maria Volonté, la Casa delle Culture e della Musica (Auditorium, Chiostro, Portici, Giardino, Sala degli affreschi) struttura seicentesca dell’ex Convento del Carmine, luogo denso di attrattive storiche e artistiche e monumento culturale, centro della vita sociale e culturale dei cittadini e dei giovani, essendo anche sede della biblioteca e della Accademia di Belle Arti di Roma.

Tutto incentrato sulle differenti declinazioni dei linguaggi delle arti performative, il Festival raccoglie al suo interno diverse sezioni tematiche che si sviluppano a partire dall’interesse per la multidisciplinarietà e per il dialogo fra le arti e per l’apertura all’internazionalità e alla relazione fra le culture.  Per approfondire la ricerca sul dialogo tra corpo/danza e architetture, beni culturali e paesaggi urbani le compagnie saranno invitate a far entrare in relazione le loro creazioni con i luoghi non convenzionali, dialogando con le architetture e gli spazi naturali. La compresenza delle varie performance dei diversi autori che si susseguono negli spazi, genera a sua volta un dialogo fra le opere, dando luogo ad una differente modalità di presentazione e incontro con il pubblico.

Anche per questa edizione, il Festival esplorerà le diverse ibridazioni tra la danza,intesa come poesia del corpo e la poesia come arte della parola attraverso il progetto tematico Transiti verso Dante. Nel 700° anniversario della morte del Sommo Poeta, verranno presentati spettacoli e tre giornate di performance dedicate alle tre cantiche della Divina Commedia come una sorta di cammino intorno alle idee che la figura di Dante e la sua Opera ci evocano. Ampio spazio sarà dato anche alla ricerca tra danza e arti visive e tra danza e nuove tecnologie con appuntamenti dedicati all’esplorazione e all’utilizzo dei media interattivi in relazione al corpo e al movimento.

Accanto alla programmazione di spettacoli, il Festival metterà in atto progettualità speciali e attività di laboratorio e didattica per creare nuove opportunità per avvicinarsi alla danza contemporanea: tra le altre attività culturali organizzate volte a educare e promuovere il pubblico il programma prevede la messa in atto di Progetti Multidisciplinari Speciali indirizzati ai giovani in collaborazione con IISS C. Battisti di Velletri e l’Accademia di Belle Arti di Roma, sede di Velletri, che coinvolgerà studenti e docenti delle triennali di Pittura e Grafica Editoriale nelle attività del festival.

Come per gli anni precedenti, il Festival verrà realizzato dall’associazione culturale La Scatola dell’Arte, sotto la Direzione artistica di Patrizia Cavola, con il contributo di Regione Lazio, in collaborazione con FONDARC Fondazione di Partecipazione Arte e Cultura Città di Velletri e con il patrocinio del Comune di Velletri. Tutte le attività si svolgeranno nel rispetto dei protocolli di sicurezza anti-covid.

Il programma del Festival è su: paesaggidelcorpo.it

Breviario di relazioni possibili e ibridazioni fantastiche. Intervista ai Motus

Breviario di relazioni possibili e ibridazioni fantastiche. Intervista ai Motus

Una festa lunga due anni: il cinquantesimo anniversario del Festival di Santarcangelo terminerà con la prossima edizione, l’ultima della direzione artistica dei Motus. Dall’8 al 18 luglio ci si riunirà ancora per immaginare un «futuro fantastico» che sia sempre più inclusivo, alle frontiere della sperimentazione non solo nel teatro ma anche nel pensiero e nelle relazioni.

Un programma con molteplici centri di interesse dove perdersi è forse il giusto approccio, perché l’artista affermato di casa nostra e la nuova proposta da un continente straniero possono dialogare alla pari in un contesto dove i valori tradizionali della scena vengono depotenziati in favore di sguardi nuovi. Il fulcro della ricerca sarà infatti nella relazione con ciò che è abitualmente più distante, affinché il contatto possa generare cortocircuiti e mutazioni: shapeshifter o mutaforma è la figura sotto cui l’egida prenderà vita il festival. Un’elaborazione che deriva dall’approfondimento dei temi già emersi lo scorso anno, il superamento dei generi diviene infatti messa in questione delle barriere tra umano e non umano.

Una costellazione di questioni che verrà affrontata collettivamente non solo attraverso i numerosi spettacoli e incontri ma anche con un esperimento ad hoc: l’accampamento How To Be Together. Un gruppo di persone selezionate tramite call (con scadenza il 23 maggio) passerà l’intero periodo del festival immaginando nuove forme di convivenza, sia nell’atto concreto del dimorare insieme che negli specifici percorsi di studio e ricerca.

Il rapporto con l’alterità non poteva non prevedere incursioni nei territori di mondi artistici affini, quest’anno il programma dei concerti sarà curato da Christopher Angiolini del Bronson e non mancheranno numerosi appuntamenti con il cinema. Arrivando alle performance e al teatro, possono essere individuati tre grandi nuclei: la partecipazione internazionale, quasi impossibile lo scorso anno, stavolta sarà rappresentata soprattutto da artiste provenienti da Paesi extraeuropei; la sezione dedicata ai «nuovi inizi» ospiterà i gruppi che avrebbero dovuto esibirsi nella finestra invernale Winter Is Coming; infine, i numerosi ritorni delle compagnie del cuore: Ermanna Montanari, Romeo Castellucci, Fanny&Alexander, Zapruder e molti altri, spesso impegnati in progetti collaborativi o creati appositamente per il festival.

Delle difficoltà incontrate nel realizzare queste edizioni, ma anche della peculiare idea curatoriale che ha guidato le scelte e del rapporto con le giovani generazioni, abbiamo parlato con i direttori artistici Daniela Nicolò e Enrico Casagrande.

Che tipo di esperienza è stata organizzare questo cinquantennale in tempi pandemici?

Daniela Nicolò: Sentivamo molto la responsabilità di questo appuntamento, considerato che abbiamo presentato al festival ventisei spettacoli nel corso di ventidue edizioni a cui abbiamo partecipato. Il lavoro di preparazione era già iniziato da diverso tempo quando ha fatto irruzione la pandemia. È stato, come per tutti, un evento inaspettato che era però in consonanza con i nostri interessi per i film e la letteratura di fantascienza, dove il 2020 era un anno al centro di visioni distopiche. 

La nostra carica a fare il festival però era molto forte, anche con un po’ di incoscienza abbiamo sempre voluto provarci, per cui è iniziato un lavoro di reinvenzione rispetto agli artisti e alle artiste invitate ma anche degli spazi, perché questa impostazione così improntata all’aperto è nuova e forse è stata la più grande rivelazione dal punto di vista organizzativo, scoprire la potenzialità di questi luoghi naturali. 

C’è stata poi la situazione difficile dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, noi siamo legati a quel movimento e abbiamo supportato le occupazioni dei teatri. Anche in quest’ottica abbiamo cercato di dare lavoro a tutta una serie di maestranze locali e l’équipe del festival si è fortemente coalizzata, potendo portare avanti le attività in un periodo così complesso. La risposta degli abitanti di Santarcangelo poi è stata bellissima, perché nessuno si aspettava in quel momento che potesse accadere qualcosa come l’edizione dello scorso anno.

Come nasce l’esperimento How To Be Together?

Enrico Casagrande: Si tratta di un campo che costruiremo all’interno di un bosco cittadino dove cinquanta individui cercheranno di vivere insieme, con l’aiuto di alcuni «facilitatori», per capire come intrecciare relazioni e come rapportarsi al qui ed ora in una maniera che sia anche utopica. Sarà un prototipo che spero proseguirà con la prossima direzione artistica, per la riappropriazione di uno spazio fisico in un momento in cui è ancora più urgente, dopo il grande utilizzo che abbiamo fatto del digitale. 

L’anno scorso è stato molto difficile, ma allo stesso tempo ci trovavamo in un momento in cui si credeva che il mondo potesse cambiare. Quest’anno sento un po’ più di stanchezza, perché c’è la sensazione che si stia cercando di tornare a tutti i costi alla «normalità» precedente. Il festival di luglio rifletterà su questi argomenti attraverso un approccio antropologico, sociologico, artistico.

D.N: La pandemia ha reso ancora più evidenti le disparità, è il momento di agire per mettere in discussione il modello a cui si vorrebbe tornare. Tutti gli incontri del festival proporranno  delle pratiche possibili, non solamente delle analisi, improntate alla solidarietà e alla comunanza. Altre forme di vivere insieme come «specie compagne», secondo il sottotitolo di questa edizione, per abbattere i confini non solo tra i generi ma anche nella relazione con gli altri esseri viventi, in linea con una matrice antispecista che ci appartiene. 

È importante per noi anche proporre degli eventi gratuiti negli spazi pubblici, una questione su cui c’è grande criticità perché il ministero non contempla spettacoli dove non vengono emessi biglietti, come sarà ad esempio per la performance Grand Bois di Bluemotion e Fanny & Alexander che si svolgerà sui tetti e sui terrazzi del centro storico.

Nello «statement artistico» di questa edizione scrivete che avete provato ad evitare ogni forma di forzatura nell’esposizione delle opere nate in quest’ultimo anno.

E.C: Questo festival si basa molto sulla fiducia negli artisti e nelle artiste che stiamo invitando. Ci siamo astratti da quell’idea curatoriale per cui prima si vede uno spettacolo, lo si valuta e poi lo si sceglie. Il teatro sta diventando un po’ un mercato e volevamo smarcarci da questa visione, concentrandoci su gruppi che propongono un discorso politico ed etico. Penso sia un grande atto di coraggio e di comunione, noi stessi in quanto artisti sentiamo il bisogno di porci in altro modo rispetto alla curatela classica.

D.N: Inoltre quest’estate accoglieremo tutte le compagnie che avrebbero dovuto esibirsi in Winter Is Coming, la sezione invernale che purtroppo si è potuta svolgere solamente online. Ci siamo chiesti molto come un festival possa tutelare questi artisti e artiste per non esporli in maniera brutale, considerato che durante quest’anno hanno avuto poche possibilità per lavorare e consolidare i propri spettacoli. Parliamo di gruppi giovani e poco conosciuti, senza sostegni e spazi adatti per le prove o per le residenze. 

Per loro quindi creeremo un palco apposito, più raccolto ed intimo, perché hanno bisogno di essere protetti. Mi sta molto a cuore perché anche noi veniamo da quel percorso: provavamo in una discoteca abbandonata agli inizi. Oggi ci sono anche molti meno centri sociali disponibili per accogliere le compagnie rispetto agli anni ’90. Mark Fisher l’ha spiegato molto bene: con la gentrificazione è cambiato un mondo e il turbocapitalismo rischia di gettare le giovani generazioni nella depressione se non gli si danno possibilità e strumenti.

Nella programmazione c’è grande spazio per realtà internazionali e al femminile.

E.C: C’è una grande presenza di artiste donne in tutti i ruoli e questo ci fa molto piacere, visto che le programmazioni vedono spesso numerosi registi maschi e bianchi. Abbiamo concentrato poi un’attenzione particolare sul Sud America, con gruppi provenienti dal Brasile, dal Messico, dal Cile. Nonostante la situazione difficile che vivono questi Paesi ci sono delle scene estremamente vive e quindi siamo contenti di condividere questo festival anche con loro.

D.N: Spesso poi queste artiste stavano già lavorando su tematiche affini alle nostre. Amanda Piña, coreografa e regista messicana, è interessata al rapporto con la Terra e al cambiamento climatico. La regista e drammaturga cilena Manuela Infante fa una riscrittura delle metamorfosi di Ovidio in chiave femminista, in sintonia con il concetto di mutaforma centrale per questa edizione. La performer brasiliana Gabriela Carneiro da Cunha è impegnata invece con i popoli dell’Amazzonia e tramite lei speriamo sarà possibile realizzare un sogno: entrare in dialogo con l’antropologo Eduardo Viveiros de Castro.

Panorama di Motus a Triennale Teatro dell’Arte

Panorama di Motus a Triennale Teatro dell’Arte

Tra gli appuntamenti clou dell’agenda teatrale milanese in questo 2018, arriva a Triennale Teatro dell’Arte in prima nazionale per FOG l’ultima produzione di Motus, compagnia che nei suoi oltre venticinque anni di attività ha saputo affermarsi tra le realtà più coraggiose del teatro italiano, portando i propri lavori sui palcoscenici e negli spazi culturali più prestigiosi di tutto il mondo.

Panorama, che ha debuttato il 3 gennaio scorso all’interno dell’Under The Radar Festival di New York, nasce dall’idea di sviluppare una riflessione sulla necessità umana di essere in movimento, di smantellare confini (anche artistici) per estendere al massimo possibile il campo visivo. Il progetto è una nuova tappa del percorso inaugurato nel 2015 da MDLSX, oggi senza dubbio il lavoro più celebre della compagnia, che vedeva protagonista Silvia Calderoni – vera e propria attrice icona di Motus. Gli stessi temi di MDSLX (il genere e la libertà di attraversarne i confini) vengono qui affrontati da una diversa angolazione, in un percorso che va oltre i confini del corpo per allargarsi a quelli geografici. Una ricerca che prende spunto dalle vicende di una piccola community di persone molto particolare, persone che hanno vissuto in prima persona esperienze diasporiche legate alle proprie scelte artistiche: gli attori della Great Jones Repertory Company, il gruppo interetnico di performer residenti a La MaMa, mitico teatro dell’East Village newyorkese fondato da Ellen Stewart (dove la pièce ha debuttato con grande successo a gennaio). A partire dalle vicende biografiche degli attori, Motus, con il supporto del drammaturgo Erik Ehn, delinea nuovi panorami esistenziali, dove il nomadismo diventa una proprietà intrinseca dell’esistere (e dell’essere attore), mettendo a dura prova ogni tentativo di fissare irrevocabilmente persone, nazionalità, etnie, sessualità in categorie gerarchiche e immutabili.

La compagnia Motus viene fondata a Rimini nel 1991 da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. Da subito, affianca la creazione artistica – spettacoli teatrali, performance e installazioni – a un’intensa attività culturale, conducendo seminari, incontri e dibattiti. I suoi lavori sono stati presentati nei festival più importanti del mondo, tra cui Under the Radar a New York, al Festival TransAmériques di Montréal, a Santiago a Mil in Cile, al Fiba Festival di Buenos Aires, all’Adelaide Festival, al Taipei Arts Festival. La compagnia ha interpretato in modo assolutamente originale autori come Beckett, DeLillo, Genet, Fassbinder, Rilke, Pasolini. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui tre premi Ubu. Tra le produzioni più rilevanti di Motus, vi è il progetto Syrma Antigónes, dedicato alla figura di Antigone come archetipo di lotta e resistenza e sviluppato nei due contest Let The sunshine In, Too Late e Iovadovia e nello spettacolo Alexis, una tragedia greca, vincitore nel 2012 del Critics’ Choice Award come Best Foreign Show dalla Québec Association of Theatre Critics. Altri lavori sono The Plot is the Revolution (2011), un emozionante incontro scenico fra l’attrice Silvia Calderoni e Judith Malina del Living Theatre, Nella Tempesta (2013), Caliban Cannibal (2013), MDLSX (2015), su gender e identità di confine. Dalla primavera 2014 Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande tengono l’atelier d’insegnamento poétique de la scène presso La Manufacture – Haute école de théâtre de Suisse romande di Losanna.

MAGGIORI INFO 

2-6 maggio
mercoledì-sabato ore 20.00 / domenica ore 16.00
Triennale Teatro dell’Arte
Viale Alemagna 6
Milano

Motus
Panorama