Riaprire i teatri. Drammaturgie per la ripartenza di Monica Capuani

Riaprire i teatri. Drammaturgie per la ripartenza di Monica Capuani

Monica Capuani è traduttrice, scout e promotrice culturale. Lo scorso ottobre ha avviato una serie di laboratori dal titolo WWTT, Women Writers in Today’s Theatre, dedicati esclusivamente alle donne: attrici, drammaturghe e registe. I workshop riprenderanno in presenza appena le disposizioni in merito alla pandemia lo consentiranno, con appuntamenti itineranti in diverse città italiane, in collaborazione con l’acting coach Federica Rossellini. Tradotto da Monica Capuani, è in libreria e acquistabile online The Spank di Hanif Kureishi, edito dalla milanese Scalpendi. In uscita anche le sue nuove traduzioni di Improvvisamente l’estate scorsa di Tennessee Williams, Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee.

Contrariamente a quanto annunciato, non si leverà il sipario del teatro italiano il prossimo 27 marzo. I teatri restano chiusi e chissà ancora per quanto. Ma quando riapriranno, quali drammaturgie sapranno disegnare il dolore che quest’anno ha generato? Quali autori e autrici saranno in grado di farci riflettere, per mezzo delle loro penne, su questioni che necessitano l’urgenza del dibattito?

Risponde Monica Capuani, tracciando in questo editoriale l’itinerario internazionale di un viaggio introspettivo che culmina in generosi consigli di lettura (e di messinscena).

testi
Donna che legge con parasole – Henri Matisse

Chiusi. Da un più di un anno. I teatri sono chiusi da più di un anno. Mai avremmo potuto pensarlo. Lesi nel nostro senso di onnipotenza, riapriremo. Riapriremo perché il teatro è una creatura tenace, che ha a che fare con il desiderio, e finché c’è vita il desiderio non muore. Il problema – che è però anche una grande opportunità – è che non si potrà riaprire facendo finta di niente. Con spettacoli in cartellone che non segnino in modo deciso una discontinuità. Quando sento qualcuno dire: “Dopo, la gente avrà voglia di ridere”, mi si accappona la pelle. Per me, “dopo” la gente avrà bisogno di pensare, di confrontarsi con i propri simili, di identificare affinità e intimità, di combattere il futile, l’inutile, la superficialità suicida. Avremo bisogno anche di ridere, sì. E tanto. Ma anche nel ridere dovrà esserci discontinuità. Dovrà essere una risata vitale, empatica, intelligente.

Il 2020 per me è stato un anno importante. Perché ha visto nascere progetti significativi, proprio nel senso di cui sopra. Un sogno che si avvera, per me, è la produzione di Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee, nella mia nuova traduzione (la prima dopo sessant’anni), che Antonio Latella sta provando in questi giorni a Spoleto con Sonia Bergamasco, Vinicio Marchioni, Paola Giannini, Ludovico Fededegni, prodotto dallo Stabile dell’Umbria. Il tema del crollo delle illusioni, che può purificarci prima che sia troppo tardi, è di estrema, dolorosa attualità.

Albee, che aveva 34 anni quando nel 1962 il testo sbancò a Broadway con 664 repliche, diceva che gli spettatori erano diventati “mucche placide” e intendeva riportarli a un coinvolgimento intenso in quel rito che è il teatro, impossibile senza la partecipazione attiva del pubblico. Sono certa che Latella non tradirà questo mandato, soprattutto nell’era post-Covid. Il testo è uno dei più grandi capolavori del teatro americano e quando qualche estate fa lo traducevo mi sembrava denso come il nucleo incandescente dell’universo prima del Big Bang. Sarà questa l’impressione che spero farà al pubblico di oggi: uno shock violento ma vivificante.

The Spank di Hanif Kureishi è un altro spettacolo che non vedo l’ora di vedere. Avevo incontrato Kureishi anni fa a Londra per un’intervista. Il taxi aveva fatto una strada sbagliata, arrivai tardi. Lui era molto seccato, io in imbarazzo per essermi macchiata del cliché del pressappochismo italiano. L’ho rivisto tempo fa, sempre a Londra. Conoscevo da anni Isabella D’amico, la sua attuale compagna, frequentata in ambito editoriale. Lei ha parlato a Hanif del lavoro di scouting, traduzione e promozione di testi di drammaturgia contemporanea che sto facendo in questi anni.

Mi ha detto: “Sto scrivendo un two-hander. Ti interessa leggerlo?”. E ha cominciato a inviarmi il work-in-progress. Poi mi ha invitato a un reading di The Spank in un teatro di Londra. Da noi era appena iniziato il lockdown, così mi ha fatto solo leggere il testo. L’ho tradotto, con la condizione stabilita dai suoi agenti che avrebbe dovuto debuttare prima a Londra. Durante l’estate Hanif e Isabella sono passati per Roma. La prima bozza di traduzione era pronta. Ho lanciato l’idea: “Se riesco a trovare due ottimi attori amici, ti interessa sentirla?”. “Assolutamente sì”, ha risposto.

Così io, Isabella e Hanif ci siamo trovati sulla terrazza a Trastevere di Viola Graziosi e Graziano Piazza, insieme a Tommaso Ragno, e abbiamo ascoltato il testo. La storia di un’amicizia di lunghi anni tra due uomini di mezza età, le cui famiglie sono intrecciate come i rami di due alberi vicini, che si incrina per un incidente di vita. Che gioia, ascoltare quel testo in piena pandemia. Hanif mi ha detto che, se avessi trovato un bel debutto, The Spank sarebbe potuto andare in scena prima qui. Ho telefonato a Filippo Fonsatti, che 36 ore dopo mi ha chiamato per dirmi che lo Stabile di Torino avrebbe prodotto il testo, mettendo in campo il direttore artistico Valerio Binasco e il regista residente Filippo Dini.

È cominciato un bellissimo lavoro sul testo, con Filippo e Hanif, il lavoro che il drammaturgo inglese fa sempre con gli attori e il regista per collaudare la pièce e portarla al suo meglio. “Il teatro è un’arte collettiva”, dice Hanif, e Dini ha potuto sperimentare che non sono solo parole. Il debutto continua a slittare, ma è appena uscita la traduzione, che inaugura – un vero miracolo! – una nuova collana di teatro dell’editore milanese Scalpendi. Il docu-film di Lucio Fiorentino, accessibile sul sito dello Stabile di Torino, è un’incursione nel “making of” dello spettacolo, che andrà in scena quando si riaprirà. Si parlerà di famiglia, di figli, d’amore, d’amicizia, di vita, di senso, di paura della morte. Tutti temi, credo, su cui per forza ci siamo dovuti interrogare in questo dolorosissimo anno di prigionia forzata.

Altri due testi necessari, sono quelli prodotti dal Teatro Nazionale di Genova, nella nuova direzione di Davide Livermore. Era il 2019 quando, a Ortigia, ho preso un caffè con Linda Gennari. Cercava un monologo. L’ho vista in scena qualche sera dopo nell’Elena diretta da Livermore. Autorevole, di una femminilità forte, contemporanea. Mi è tornato in mente un testo che avevo visto qualche mese prima a Londra, al Gate Theatre, e che avevo intenzione di tradurre: Grounded di George Brant. Lo aveva anche interpretato con grande successo Anne Hathaway a NewYork. È la storia di una donna che pilota un caccia da guerra e si è fatta faticosamente strada in un mondo di maschi. Innamorata del volo, del suo aereo, del suo mestiere. Poi resta incinta, di un uomo che la apprezza, che capisce chi è. Così decide di tenere quel bambino, anche se era l’ultima cosa che aveva in mente, ma è una bella sorpresa.

Per regolamento, viene destinata a terra, “grounded”. Che però significa anche “punita”, “messa in castigo”. Esattamente la sua percezione quando viene assegnata alla guida di un drone da guerra e prende pian piano consapevolezza di ciò che fa: mettere fine a delle vite, spesso di civili innocenti, anche bambini. Purtroppo, non sono potuta andare alle prove, ma chi le ha viste mi dice che Livermore ha costruito uno spettacolo mozzafiato e che Linda Gennari è stellare. Ne sono felicissima, perché il teatro degli ultimi dieci anni ha molto penalizzato le attrici e io ci tengo particolarmente a cercare testi con grandi ruoli femminili. E poi in Grounded si parla di acquisire consapevolezza di chi siamo, e oggi mi sembra un tema ineludibile.

Mentre scrivo, da Genova sono appena tornata: mi sono concessa due giorni alle prove di Solaris, il romanzo di Stanislaw Lem nel bellissimo adattamento del drammaturgo inglese David Grieg. Altro progetto nato durante il primo lockdown. Federica Rosellini, che è un’attenta lettrice e un’amica, a volte leggeva qualche mia traduzione al telefono. Un modo per continuare a lavorare – e a sognare – in cattività. Questo testo l’ha toccata particolarmente. Mi ha chiesto di poterlo dare ad Andrea De Rosa, che molti anni fa aveva diretto nella mia traduzione Molly Sweeney di Brian Friel, quest’anno rimesso in scena da Valerio Binasco. “Certo”, le ho detto. Andrea ne è rimasto folgorato: l’idea di questo pianeta, di cui noi siamo il virus, che ci rimanda persone morte con cui in vita abbiamo avuto rapporti traumatici, irrisolti, gli è sembrata da cogliere al volo. I Nazionali di Genova e Napoli sono entrati subito in co-produzione.

E in questi giorni ho avuto il privilegio di vedere le immagini forti che De Rosa sta costruendo: l’interno dell’astronave imbrattata di nera sostanza aliena, il grande oblò da cui invece di Solaris si vede la nostra povera Terra, Federica Rosellini/Kelvin alle prese con il suo struggente visitatore Ray/Giulia Mazzarino, e i due scienziati provati da due anni di vita a bordo della stazione che orbita intorno al pianeta – Sandra Toffolatti/Sartorius e Werner Waas/Snow – segnati dalla morte del comandante Gibarian/Umberto Orsini, che si vede solo in video ma con quale potenza. Un’incursione ipnotica nel cuore di questioni cardinali: identità, amore, umanità. Chi siamo, quanto abbiamo ferito il nostro pianeta, quanto siamo insignificanti nel contesto dell’universo infinito. Virus, noi stessi, banalmente. Destinati, come il Covid19, a sparire dopo un piccolo grande exploit.

Un evento epico, che sono felicissima di aver contribuito a creare, sarà il ritorno di Franca Nuti a 92 anni sul palcoscenico del Piccolo Teatro di Milano (che è anche produttore) con Una vita tedesca di Christopher Hampton. La Nuti è la più grande attrice/attore del nostro teatro e incarnerà il ruolo di Brunhilde Pomsel, la segretaria di Goebbels, che parlò del nazismo solo a 105 anni. È un monito a tutti noi sul pericolo dei fascismi e dei fondamentalismi. Adoro i testi per attrici molto anziane, ci possono insegnare molto. Chissà se Lisa Natoli riuscirà a portare in scena Escaped Alone della gigantesca Caryl Churchill, andato in scena al Royal Court nel 2016, un quartetto di anziane che si alternano in una partitura di saggezza, leggerezza, lucida follia sull’orlo dell’abisso.

In questi giorni sto traducendo per MaMiMò di Reggio Emilia 4000 miglia di Amy Herzog, un’altra drammaturga americana che mi interessa molto. C’è il ruolo di una nonna newyorkese novantunenne che accoglie in casa per un po’ il nipote ventenne, che arriva in bici dal Minnesota, in crisi, in cerca di risposte. Il confronto con la generazione dei vecchi è qualcosa che dovremmo assolutamente recuperare. Tutto il teatro che cerco altrove – ad oggi sono arrivata a quota 126 testi teatrali tradotti – è quello che vorrei vedere in scena in Italia.

Dopo questa pandemia, però, ci sono testi più urgenti. Il primo che vorrei fosse prodotto subito è The Contingency Plan di Steve Waters. È composto di due testi – On the Beach e Resilience – e il tema è quello del “climate change”. Sono andati in scena la prima volta al Bush Theatre di Londra nel 2009. Quest’anno sarebbero dovuti tornare in scena al Donmar Warehouse, totalmente revisionati e aggiornati. Sono riuscita a chiudere le due traduzioni solo con l’aiuto di un climatologo, Sandro Calmanti, che si è molto appassionato al progetto perché ha visto in questi due testi teatrali una possibilità straordinaria di comunicare informazioni di non semplice veicolazione. Ne ho letti degli stralci durante i miei laboratori, e ho visto la presa potentissima che hanno sulle giovani generazioni, giustamente molto sensibili ai temi dell’ecologia e della tutela del pianeta.

Un altro testo che vorrei si facesse presto è Gli antipodi di Annie Baker. Americana, classe ’81, premio Pulitzer nel 2014 per The Flick, è una delle grandissime della drammaturgia americana di oggi. Ne Gli antipodi mette in scena un gruppo di sceneggiatori che devono concepire una nuova serie tv di successo. Il tempo passa, le idee scarseggiano, la dimensione si fa sempre più surreale e claustrofobica: forse siamo alla fine della specificità umana, perché forse non siamo neanche più in grado di raccontare storie, una delle caratteristiche distintive degli umani.

Un’altra questione che mi piacerebbe vedere affrontata sui nostri palcoscenici è quella del gender. Due testi inglesi l’hanno di recente attraversata in modi diversissimi. The Writer di Ella Hickson, andato in scena all’Almeida nel 2018 con Romola Garai protagonista, è un’incursione nel patriarcato che ancora vige nei teatri. Protagonista della pièce è una giovane drammaturga che vediamo lottare, sia nella vita privata sia in quella professionale, per affermare la propria originale idea di teatro contro quella degli uomini che ancora per lo più gestiscono tutte le posizioni di potere e manovrano le leve del mercato.

Anche The Doctor di Robert Icke, enfant prodige della scena londinese oggi conteso dai più grandi teatri d’Europa, è un tuffo nel cuore degli stereotipi di genere, razza, religione. Liberissima riscrittura di Il professor Bernhardi di Arthur Schnitzler, è la storia di un medico (una strepitosa Juliet Stevenson) che fonda una clinica all’avanguardia nella cura del morbo di Alzheimer. Un giorno ricovera una ragazzina che ha tentato di praticarsi un aborto in casa per nascondere la gravidanza ai genitori ultracattolici, partiti per un viaggio. L’infezione è irrecuperabile e il dottore vuole assicurare alla paziente una morte ignara e pacifica. Arriva un prete, su richiesta dei genitori che stanno rientrando, ma il dottore si rifiuta di lasciarlo passare. La ragazzina muore e scoppia uno scandalo che porterà alla luce temi caldi come etica, misoginia, oscurantismo delle religioni, linciaggi mediatici.

Vorrei anche vedere Come trattenere il respiro di Zinnie Harris, drammaturga scozzese di grande talento. È un Faust al femminile: una ragazza è perseguitata dal diavolo che ha contratto un debito con lei e tenta in modo sempre più violento di liberarsene. In un contesto futuro ribaltato, in cui la gente tenta di andare da Berlino ad Alessandria d’Egitto sui barconi. E poi vorrei vedere due testi di Nathalie Fillion, che riesce a far ridere in maniera intelligente parlando di temi di un peso specifico non da poco. In Sulla luna, i nipoti fanno appello alla nonna, energica mater familias, perché intervenga sul figlio bipolare che, avendo cambiato farmaci, minaccia di sperperare il patrimonio di famiglia accumulato da generazioni. Il problema è che lui mantiene un’allegra famiglia allargata di figli che vivono tutti a casa, laureati e nullafacenti, e così deve continuare a essere.

In Spirit, tre sorelle figlie della stessa madre e di padri diversi, vanno a vivere insieme in un appartamento dove ha abitato per qualche tempo Lenin con la moglie, visitato spesso dall’amante. Tra funghetti allucinogeni e fisica quantistica, le epoche si mescolano con esiti comici, sì, ma anche estremamente sofisticati. Fillion ci porta a riflettere sugli esiti della storia, la perdita degli ideali sociali e politici che animavano la società di cent’anni fa, la teoria delle stringhe, Tre sorelle di Čechov. E non mi sembra poco.

Per un teatro vivo: l’esempio della scena anglosassone. Intervista a Monica Capuani

Per un teatro vivo: l’esempio della scena anglosassone. Intervista a Monica Capuani

Il teatro contemporaneo a Londra è invidiabilmente vivo. È sorprendente la varietà di pubblico e la partecipazione di tutta la società civile al rito di profonda riflessione su sé stessa. Come recuperare anche in Italia la centralità del teatro e il pubblico perduto?

Monica Capuani
Monica Capuani – Ph Simona Cagnasso

Ne abbiamo parlato con Monica Capuani, giornalista, traduttrice e promotrice teatrale, all’Unione Culturale di Torino in occasione della masterclass PER+FORMARE, affrontando temi come la drammaturgia contemporanea, la responsabilità delle direzioni artistiche, il ruolo dei traduttori, delle case editrici e delle agenzie in Italia.

Ti definisci non solo una traduttrice, ma anche una scout e una promotrice teatrale: in cosa consiste il tuo lavoro?

Ho riflettuto molto su come definire quello che faccio, perché non c’è una figura come la mia nel teatro italiano e forse neanche nel teatro inglese, quindi ho dovuto inventare una formulazione nuova.Quando le persone mi definiscono un traduttore io soffro, perché lo trovo molto riduttivo. È ovvio che la traduzione è il momento centrale del mio lavoro ed è una cosa che mi piace moltissimo perché ha a che fare col linguaggio, è una grande prova di scrittura, devi affinare la tua lingua madre: sempre più spesso, quando trovo una parola che mi piace e mi sembra appropriata, vado a cercare il suo significato esatto sul vocabolario e sono contenta quando calza a pennello con ciò che volevo dire. La traduzione è una specie di sudoku, un esercizio mentale straordinario, che tiene sveglia la mente, è un continuo flusso.

Però la parte che considero più importante del mio lavoro è lo scouting, la ricerca: andare in Inghilterra – che è il mio luogo d’elezione, perché lì per me c’è il teatro migliore di questo tempo – vedere i testi rappresentati, leggere quelli che non riesco a vedere in scena e scegliere quali tradurre. La scelta rispecchia ovviamente i miei gusti: uno potrebbe scrivere la mia biografia attraverso i testi che traduco. Scelgo, ad esempio, moltissimi testi di donne.

In Inghilterra, dove ci sono tante direttrici artistiche e registe, le autrici stanno portando avanti una rivoluzione. Il teatro è il luogo del patriarcato, lo è stato in Inghilterra e lo è in Italia. Le donne scrivono cose diverse dagli uomini: per temi, linguaggi, strutture. Ci sono grandi attrici in Italia e la maggior parte del pubblico è femminile: vogliamo dare spazio a quest’altra visione del mondo?

So sarà più difficile mandarli in scena i testi di autrici che traduco, ma mi interessa enormemente perseguire questa ricerca. Infatti, a breve avvierò una serie di laboratori, WWTT, Women Writers in Today’s Theatre, dedicati esclusivamente alle donne: attrici, drammaturghe e registe che vorranno scoprire quello che le donne scrivono per il teatro nei paesi di lingua inglese. Terrò questi laboratori con un’altra donna, che farà il lavoro di acting coach. Inizieremo ad ottobre a Roma con Federica Rosellini.

Mi definisco promotore teatrale perché spesso seguo tutta la filiera, fino alla messa in scena del testo. Vado a teatro in maniera intensiva da quando avevo 11 anni e grazie alla mia attività di giornalista ho conosciuto molti attori e registi: so che un testo potrebbe essere giusto per determinati artisti e vado direttamente da loro. Gli agenti fanno un lavoro più burocratico, di organizzazione, hanno poco tempo per leggere i testi dei drammaturghi che rappresentano, perché ne hanno tantissimi.  

Ho capito per esperienza che la passione che motiva gli attori o i registi è ciò che con più probabilità può portare poi un testo a produzione. Rivolgersi alle direzioni artistiche è più difficile, perché sono molto più conformiste e conservatrici. La mia evoluzione potrebbe essere nella produzione: se trovassi un socio in grado di occuparsi della parte burocratica, ovvero trovare e gestire i fondi, io mi occuperei dei contenuti.

Sei riuscita a instaurare un dialogo con il Teatro Stabile di Torino. Quali sono, secondo te, altri esempi virtuosi di direzioni artistiche in questo momento in Italia?

Sicuramente il Teatro dell’Elfo, che da 45 anni promuove la drammaturgia contemporanea. Un esempio altamente virtuoso perché loro conoscono l’inglese, vanno spesso a Londra a vedere gli spettacoli e sono anche una compagnia di attori, quindi sanno bene cosa significhi avere un testo che funzioni. Ho sentito più volte il loro pubblico dire: «Non conosco questo autore, ma mi fido dell’Elfo». È un discorso impagabile e molto raro in Italia, perché con la questione degli scambi è difficile trovare una direzione artistica chiara, che faccia fare un viaggio allo spettatore. Sarebbe bello sentire una mano forte che aiuti nella scelta.

Antonio Latella è un regista che, avendo lavorato molto nel mondo tedesco ed est-europeo, viaggia, cerca, accoglie il nuovo. Durante la sua direzione, la Biennale di Venezia ha aperto le porte a lavori che io stessa non avevo visto, è stato un vero festival.

La direzione del Piccolo Teatro di Milano negli ultimi anni ha purtroppo tradito questa missione. All’inizio ce l’aveva: con Strehler e Grassi era Teatro d’Europa, aveva grandi collaborazioni con l’estero. In questi anni ci siamo molto chiusi: servono collaborazioni con registi stranieri e il Piccolo, che aveva la potenza economica per promuoverle, lo ha fatto meno e con meno visione.

Quando, dopo il successo planetario di Disappearing Number, hanno chiamato Simon Mc Burney anche a Milano, mi sono attaccata al telefono per raccomandare a tutti gli amici teatranti di andarlo a vedere assolutamente. Però poi chiamano Declan Donnelan, un regista glorioso del passato, ma di certo non la punta di diamante dei registi inglesi del momento. È stata più meritoria la direzione artistica di Torino, che ha invitato Simon Stone con Tre sorelle non commissionato da loro ma almeno lo hanno ospitato in Italia.

Anche l’ERT con Claudio Longhi sta facendo un lavoro encomiabile. When the Rain Stops Falling, con la regia di Lisa Ferlazzo Natoli, dimostra che se scegli un testo di un autore australiano sconosciuto in Italia e lo fai con 8 attori ignoti al grande pubblico puoi comunque riempire i teatri. Raramente ho visto il Teatro Argentina così pieno negli ultimi anni. La ricerca premia. Non ho ancora lavorato con Longhi, ma lo stimo molto.

Confido molto, poi, nello Stabile di Genova: essendo Davide Livermore un regista che lavora molto all’estero, spero abbia interesse a far tornare Genova un polo più internazionale e aperto alla drammaturgia contemporanea.

Il tuo lavoro invisibile non termina nel momento in cui consegni un testo: assisti anche alle prove. Ci racconti il lavoro con Luca Ronconi su Fahrenheit 451?

Ronconi è stato il primo regista che anni fa ha dato per scontata la mia presenza alle prove. Lo Stabile di Torino mi ha assegnato un compenso per la traduzione, sulla quale poi avrei percepito le royalties, e ha richiesto la mia presenza una settimana in teatro.

In realtà, forse perché avevo un timore reverenziale per Ronconi, questa traduzione l’avevo limata e riscritta tante volte e, in quell’occasione sono stata una testimone silenziosa, perché non c’è stato bisogno di apportare modifiche. Fu molto bello assistere a queste prime prove a tavolino in cui leggeva il testo e lo sviscerava con gli attori, scavava nel senso. C’erano delle grandi citazioni di libri e Ronconi mi aveva chiesto di trovarne altre, diverse. Fu uno spettacolo molto bello.

Ray Bradbury stesso aveva adattato il suo romanzo per la scena, a distanza di molti anni, e lo aveva cambiato tantissimo. Con la mia casa editrice Reading Theatre curai un volume che, oltre alla traduzione del testo, conteneva un’intervista di Andrea Porcheddu a Ronconi, un diario inedito di Truffaut sul set di Fahrenheit e una mia intervista a Bradbury, che credo sia stata l’ultima: era già molto anziano. Ricordo che ero sola nella sede della casa editrice, a Roma, erano le 9 di sera, lui era a Los Angeles e urlavo al telefono, perché la figlia mi aveva detto che era completamente sordo.

Nel 2005 hai fondato la casa editrice Reading Theatre, che adesso purtroppo non esiste più. Quale dovrebbe essere, secondo te, la mission di una collana teatrale e come incentivare la lettura della drammaturgia contemporanea in Italia?

Il mio obiettivo all’epoca era proprio superare questo ostacolo, il fatto che in Italia non siamo abituati a leggere il teatro, i testi teatrali li comprano solo gli attori e i registi. Perché uno spettatore dovrebbe acquistare il testo teatrale? Perché leggere un testo come Molly Sweeneydi Brian Frielo come The Pride di Alexi Kaye Campbell, ad esempio, è un viaggio. Se vedi lo spettacolo trattieni il 60% del testo, se invece lo vai a rileggere trovi tutti i suoi rimandi interni. Se ti piace la cosa che hai visto, o se vuoi conoscerla prima di vederla, il testo è uno strumento sul quale puoi fare affidamento.

Per Reading Theatre sceglievo testi incentrati su un tema contemporaneo forte, sul quale poter riflettere anche attraverso gli altri apparati che inserivo nel libro. Cercavo di scegliere testi discorsivi, affinché leggerli fosse piacevole anche per un lettore non abituato al testo teatrale: tra una pièce di Brian Friel e un romanzo di Abraham Yehoshua a più voci non c’è tutta questa differenza. Sarebbe necessaria, soprattutto, una pratica di educazione dello spettatore. Il primo dovere dei teatri oggi dovrebbe essere recuperare il pubblico che è stato perduto, penetrando all’interno delle università e delle scuole, ma questo richiederebbe un grande investimento.

Hai tradotto in pochi anni più di un centinaio di testi contemporanei e ne hai letti molti di più: quali drammaturghi e quali testi ti stanno particolarmente a cuore e quali teatri inglesi consigli di tenere d’occhio?

I teatri che bisogna seguire sono sicuramente l’Almeida, il Royal Court, il National Theatre, lo Young Vic, l’Old Vic e il Bridge Theatre. La casa editrice Cue Press ha recentemente pubblicato una guida ai teatri inglesi scritta da Margherita Laera, che è uno strumento molto utile per orientarsi.

Per quanto riguarda i drammaturghi, Robert Icke è un mio grande amore e finché non lo vedrò rappresentato qui da noi resterà un mio grande cruccio. Il suo ultimo spettacolo, The Doctor, è una riflessione straordinaria su tutti i grandi temi della contemporaneità. Tornerà nel West End appena riapriranno i teatri inglesi e consiglio a tutti di andare a vederlo. Suggerisco anche tre testi di Lucy Kirkwood: The Children, The Welkin, Mosquitoes.

La direzione di Rupert Goold e Robert Icke all’Almeida mi ha fatto scoprire Ella Hickson, una strepitosa drammaturga di 35 anni, con già premi e produzioni importanti alle spalle, che adesso voglio continuare a seguire. Il suo The Writer è molto sperimentale: una ragazza arriva dalla platea come se avesse dimenticato uno zainetto e fa una lite furibonda col regista dello spettacolo che ha appena visto, gli dice “questo è il tempio del patriarcato, uno viene a teatro per emozionarsi e poi si ritrova a vedere roba del genere”. Fabulamundi mi ha chiesto di tradurlo e sono stata molto felice dell’opportunità, anche perché Frosini/Timpano ne hanno proposto uno studio a Short Theatre e a Genova c’è una compagnia che sta cercando di metterlo in scena.

Mi piacerebbe moltissimo tradurre Alice Birch, che poi è anche l’autrice che ha scritto la serie Normal People. Sto seguendo questa osmosi che c’è tra la televisione di qualità scritta dai drammaturghi e il teatro. Serie come Doctor Foster, scritta da Mike Bartlett, oppure Wanderlust, scritta da Nick Payne, o ancora Harlots, la storia di due bordelli rivali in epoca georgiana, scritta da Moira Buffini, bravissima drammaturga irlandese. È un circolo virtuoso: la scrittura televisiva aggiunge qualcosa a quella teatrale e viceversa.

In Inghilterra l’autore è la figura centrale del teatro. Considerando che in Italia non è così, cosa consigli ai drammaturghi italiani?

Darei un consiglio più che altro alle direzioni artistichee cioè di far lavorare i drammaturghi italiani come lavorano i drammaturghi anglosassoni: investire su di loro, farli entrare nei teatri, dar loro la possibilità di sviluppare il loro testo, lavorando a stretto contatto con registi e attori. Dal canto loro, gli autori devono avere un po’ di umiltà: molti rifiutano di toccare le proprie opere, invece gli autori inglesi sono delle spugne, si mettono al servizio di chi deve interpretare il testo finché tutti non sono soddisfatti, vanno tutte le sere alle previews con il pubblico in sala, per sentire se c’è ancora bisogno di qualche perfezionamento. Solo dopo la press night, quando vengono invitati i giornalisti, il testo si cristallizza nella sua forma definitiva.

Per questo gli autori inglesi non amano che si intervenga sui loro testi: perché il processo è talmente teso alla creazione di un meccanismo perfetto che se poi lo smonti non funziona più. Del teatro dei paesi di lingua inglese è sorprendente inoltre la varietà infinita dei temi che affronta: dalla fisica quantistica all’attualità più recente, dalle questioni giuridiche a temi che da noi sono ancora tabù. In Italia siamo diventati drogati di teatro borghese?