TITOLO TESI >La programmazione della danza contemporanea in Italia a partire dal D.M. 1 luglio 2014. Analisi attraverso la rassegna Grandi Pianure
ISTITUTO > Università di Roma La Sapienza – Corso di laurea triennale in Arti e Scienze dello Spettacolo
AUTRICE > Margherita Dotta
INTRODUZIONE DELL’AUTRICE
Scopo di questo studio vuole essere quello di tentare di cogliere la nuova ridefinizione dei confini della danza contemporanea italiana, non tanto attraverso l’analisi delle estetiche e delle poetiche autoriali, quanto piuttosto partendo da quello che è nella pratica l’ultimo tassello della filiera artistica: la programmazione, così come il legislatore l’ha definita nel 2014.
Nonostante le difficoltà con cui ancora oggi la danza italiana (in particolare quella contemporanea) convive, bisogna prendere atto che il nostro Paese negli ultimi anni sia proiettato nella costruzione di un sistema dello spettacolo «con un’osservazione dei fenomeni dal basso, nel riconoscimento dei processi in atto e nel tentativo di dar ascolto a domande insistenti che sono rimaste per anni senza risposta».
A tal fine abbiamo integrato a uno studio bibliografico una metodologia di ricerca sul campo, costituita da conversazioni e interviste, da materiale cartaceo e online di comunicati stampa, articoli e recensioni, intendendo sottolineare lo spiraglio di speranza, la ventata di novità e la presa di coscienza del legislatore sull’importanza del “codice pre-verbale o gestuale” della danza.
Una disamina a cerchi concentrici, che, partendo dal generale per arrivare al particolare, tenta di offrire una chiave di lettura in cui risulti evidente come dal quadro normativo, passando per le pratiche e gli scenari, si arrivi alla concretizzazione della programmazione di uno specifico spettacolo di danza. Il primo capitolo sarà quindi dedicato al quadro normativo che disciplina la programmazione delle attività di danza attraverso un confronto cronologico tra le leggi, le circolari e i decreti che si sono susseguiti dagli anni ’60 a oggi.
Il secondo capitolo sarà invece incentrato sulla rassegna Grandi Pianure, una “rassegna non-rassegna” curata da Michele Di Stefano e arrivata alla terza edizione all’interno della stagione del Teatro di Roma. Procedendo maggiormente verso l’interno, giungeremo infine all’analisi di una delle performance programmate nel 2019 all’interno della kermesse Buffalo di Grandi Pianure: Otto, performance di danza contemporanea dei Kinkaleri, che a distanza di 15 anni dalla sua nascita, torna in spazi non convenzionali, offrendo allo spettatore una rinnovata visione dello stato dell’arte.
Nuovi stimoli si affacciano oggi nello sterminato campo della danza contemporanea, che, in attesa di un vero e proprio Codice dello Spettacolo, accoglie al suo interno pratiche derivanti da altre arti, per creare un nuovo spazio di fruibilità per lo spettatore odierno. “Stare al passo, per superarlo” ci è parsa la frase appropriata per definire il presente della danza italiana.
Margherita Dotta nasce a Roma nel 1991. Al centro dei suoi interessi vi è il termine “ricerca”, che declina sia in ambito pratico che in ambito teorico: infatti accanto alla professione di danzatrice e performer, lavorando a contatto con Enzo Celli, Micha van Hoecke, Rozenn Corbel e Nicola Galli e co-fondando il collettivo Gruppo R.A.V.E.- Ricerca Anatomica Verso Energhèia, la sua curiosità la porta prima a studiare giurisprudenza, poi a laurearsi in Arti e Scienze dello Spettacolo all’Università La Sapienza, dove attualmente è studentessa laureanda in Teatro, Cinema, Danza e Arti digitali. Parallelamente, oltre ad aver affinato le sue conoscenze in ambito organizzativo grazie all’esperienza di co-direzione nella Piattaforma coreografica CorpoMobile, è redattrice per la rivista universitaria di critica teatrale Le Nottole di Minerva. È nell’incontro tra teoria e pratica, tra fuori e dentro la scena che Margherita disegna i confini della sua ricerca.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
Il gruppo Mk si occupa di coreografia e performance dal 1999 e ruota intorno ad un nucleo originario di artisti costantemente in dialogo con altri performer e progettualità trasversali.
Con Bermudas il gruppo ha vinto il Premio Ubu 2019 per il “Miglior spettacolo di danza dell’anno. La performance è pensata per un numero variabile di interpreti (da tre a tredici), intercambiabili tra loro. La coreografia di Michele Di Stefano si propone di dare vita a una danza che permetta di costruire uno spazio sempre accessibile a qualunque nuovo ingresso. Al centro di questo sistema di movimento sono le caratteristiche singolari dei danzatori, le cui individualità sono chiamate a originare incontri e mediazioni – un campo energetico molto intenso (a cui il nome ‘Bermudas’ ironicamente fa riferimento), un rituale collettivo che gestisce e assorbe tendenze divergenti e malintesi.
Intervistiamo Biagio Caravano, uno dei fondatori del gruppo Mk nonché uno dei danzatori dello spettacolo Bermudas:
Bermudas, ispirato dalle teorie del caos, è “un organismo di movimento basato su regole semplici e rigorose che producono un moto perpetuo”, per il quale avete richiesto la consulenza matematica di Damiano Folli. Come è nato?
Di solito i lavori di MK sono il fraintendimento degli spettacoli già avvenuti. Bermudas arriva da un processo che abbiamo sviluppato in uno spettacolo precedente, Robinson, in cui c’era una parte centrale formata da nove segni che andavano a loop. Da lì è nata l’idea di Bermudas, ispirato dalla generazione di insiemi complessi a partire da condizioni elementari. Quattro gesti questa volta, ripetuti nel tempo, per costruire complessità nella relazione con gli altri corpi. È importante spostare l’oggetto dalla centralità del corpo ai confini del mondo, il più lontano possibile, e creare uno spazio dove la danza è possibile solo nel momento in cui permette ad un’altra danza di esistere al proprio fianco.
Ci sono più versioni di Bermudas: come muta in base all’interazione nello spazio?
Bermudas è fatto da 13 danzatori, non tutti contemporaneamente in scena, massimo 7, 8 persone alla volta. La cosa secondo me interessante è che non ha più bisogno di prove: noi diamo appuntamento ai danzatori in scena il giorno stesso, perché abbiamo stabilito a priori un processo basato sull’incontro e sulla mediazione. Bermudas è fatto da più persone, anche di diversa età, perché lavora proprio sull’idea della relazione, sul fatto che il tuo stare genera uno spazio sempre accessibile ad un nuovo ingresso, per cui il sistema cambia di volta in volta a seconda di chi c’è accanto a te, nonostante la produzione di segni resti immutata. I quattro segni elementari restano invariati, ma il rapporto che stabilisci col tempo, con lo spazio e con il ritmo dipende dal corpo che ti ritrovi davanti, perché immetti punti di vista differenti e quindi il modo in cui percepisci l’attività di danza.
Quindi, siccome i corpi cambiano, cambia in continuazione il sentimento di questo processo. Nasci come musicista. Che musica ti ispira?
Io e Michele di Stefano veniamo dal punk. Siamo ex musicisti, ci siamo formati a Salerno negli anni Ottanta. Penso al corpo come a una sostanza sonora, per cui la musica è sempre in continua relazione con quello che faccio. Pensiamo sempre a uno spettacolo come a una sorta di LP, di disco musicale.
Fai parte del
corpo docenti della Paolo Grassi e dell’Accademia Nazionale di Danza di Roma.
Cosa hai imparato insegnando?
È sempre
complicato mettere in parola quello che produci con il corpo. Perché le parole
sono sempre fraintendibili, il corpo è sempre risolutore. Il corpo, messo
davanti alla parola, produce sempre una chiarezza nel pensiero. E quindi la
pratica di insegnare, di trasmettere informazioni in un corpo altro, produce
chiarezza in noi stessi.
Quali doti dovrebbe avere un danzatore/una danzatrice?
Io lavoro sul disfacimento del concetto di soggetto. Deporre la volontà per non esistere. Essere nell’abbandono. Meno porti te stesso nel movimento, nella danza, più quella cosa in realtà ti appartiene. Più ti allontani e più ti appartiene. Si tratta di costruire uno stato che ti permetta di interfacciarti al mondo esterno. La parola che meglio esprime questo stato è resa, arrendevolezza. Quando ti arrendi davanti all’evidenza, sei pronto a guardare quella cosa e a spostarti completamente da un’altra parte. Coabitare nella diversità, uno spazio ambiguo pieno di complessità, di strategie di avvicinamento, di possibili malintesi tra i corpi.
Cosa significa
per te questo UBU vinto con Bermudas, dopo il Leone d’Argento alla Biennale
2014?
Non sono uno a cui interessano i premi, ma per me significa che la strada che stiamo percorrendo in qualche maniera ha senso, ovvero un ritorno all’esterno. Questo mi interessa.
Perché hai
scelto proprio la danza?
Perché la danza
è il muscolo della vita, la danza mi dà delle possibilità.
Al via Grandi Pianure, progetto sulla coreografia contemporanea affidata al coreografo Michele Di Stefano, che quest’anno si presenta in una nuova edizione, ancora più amplificata e diffusa in diversi spazi, ma soprattutto integrata nel flusso dei programmi del Teatro di Roma e strutturata in risonanza con la Stagione teatrale.
Dal 15 febbraio al 14 giugno sui palcoscenici di Argentina e India si alternano artisti d’eccellenza, prestigiosi protagonisti del panorama italiano e internazionale, con inedite scritture coreografiche, opere originali e dai formati creativi, sempre in dialogo con i linguaggi della scena, la cultura musicale, la performance e le arti visive. Per una riflessione non stereotipata sulle possibilità della danza e sulla ricerca coreutica, comestimolo al dibattito sulla contemporaneità attraverso nuove modalità di fruizione, pratiche ed esperienze di coinvolgimento. Oltre ad abitare le sale dello Stabile nazionale, Grandi Pianure ‘sconfina’, per il secondo anno, negli ambienti museali del Palazzo delle Esposizioni con Buffalo, format dalla creatività emergente e interdisciplinare in collaborazione con Palaexpo dal 12 al 14 giugno(con preview il 21 e 22 maggio).
Con performance immersive, atelier, spettacoli e coproduzioni, ladanza di Grandi Pianure intesse un rapporto serrato con i temi del progetto artistico del Teatro di Roma all’insegna dell’innovazione, della multidisciplinarietà e del coinvolgimento del pubblico: «Il programma di Grandi Pianure per la stagione del Teatro di Roma elude definitivamente l’idea e la forma di una rassegna, per cercare ubiquità, obliquità, vicinanze e riverberi con quanto avviene prima e dopo, e naturalmente accanto, nei diversi spazi collegati dal progetto e più in là. Affidata interamente al corpo, questa attitudine immersiva e pervasiva riguarda innanzitutto gli artisti coinvolti e i loro lavori ma ha una vocazione all’incontro, e cerca formati e pratiche che possano andare a tempo con diversi habitat, che sono poi modi differenti di far durare l’emozione dell’incontro con il pubblico. La coreografia – il mistero dell’articolazione della presenza del corpo allo sguardo – si è da tempo affrancata dalle formalità di genere ed è una chiave per dare all’arte dal vivo e quindi al corpo che agisce un ruolo centrale nella società», così racconta il Leone d’argento per la danza, Michele Di Stefano, fondatore del gruppo mk e tra gli artisti residenti di Oceano Indiano al Teatro India.
Si inizia al Teatro India con la nuova creazione di Silvia Rampelli, Abstract. Un’azione concreta, potente campo di forze sorretto da figure solitarie e tese (15 e 16 febbraio); si prosegue conla permeabilità tra pubblico e performer del dispositivo della norvegese Ingri Fiksdal con venti performer locali (coinvolti in un laboratorio) per la messa in scena diShadows of Tomorrow, concerto psichedelico senza musica (27 e 28 febbraio); l’indagine poetica e politica sull’identità della franco-algerina Nacera Belaza con Le Cercle (14 e 15 marzo), vorticoso lavoro sul movimento e sul dissolvimento della figura della coreografa, che offre anche un atelier a partire dalla trasmissione delle danze tradizionali algerine. Al Teatro Argentina la scena è dedicata all’immersione nel paesaggio e nell’altrove di mk con Parete nord (14 e 15 aprile), recente produzione della compagnia proiettata nella vastità di una veduta alpina. Si ritorna all’India con il rito collettivo e coinvolgente dell’americano Trajal Harrell con Caen Amour (23 maggio), indefinibile e dolce vaudeville esotico che il pubblico può attraversare liberamente, per una riflessione sul sessismo, l’orientalismo e il colonialismo. Chiude il programma il Leone d’oro, Alessandro Sciarroni, già presente con il suo Augusto nel settembre scorso all’Argentina, e ora al Teatro India con Turning (23 e 24 maggio), un’esplorazione dei movimenti migratori degli animali tradotto nel lavoro in punta della danza classica.
Negli spazi del Palazzo delle Esposizioni prende vita Buffalo con un doppio appuntamento: una preview con Kiss di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo (21 e 22 maggio) e il programma di performance con Cristina Kristal Rizzo, Alexandra Bachzetsis, Nicola Galli, Last InterestingNegro, Jérôme Bel, Francesca Grilli, Industria Indipendente (12, 13 e 14 giugno). Buffalo è un ‘fuori scena’ che agisce nel bilico del corpo tra performance e arti visive, in dialogo con artiste e artisti capaci di aprire il loro lavoro a modalità differenti di visione, di qualità della scrittura e di organizzazione dei formati, esplorando tutto il potenziale della permeabilità tra le discipline artistiche. Una solida sinergia che si rafforza tra Teatro di Roma e Palaexpo, a cui si aggiunge la collaborazione dell’Istituto Svizzero di Roma.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Sidi Larbi Cherkaoui, celebre coreografo belga di origini marocchine, ha portato sul palco del Teatro Regio di Torino – per l’inaugurazione del festival Torinodanza, per il secondo anno sotto la direzione di sotto la direzione di Anna Cremonini – lo spettacolo Sutra, presentato nel 2008 al Sadler’s Wells di Londra. Un’opera che da più di dieci anni continua a girare per il mondo portando i frutti di un incontro – non inconsueto nell’ambito teatrale – fra Europa e Asia, nato da una visita che il coreografo ha compiuto in un tempio Shaolin in Cina. Da questo viaggio è emersa l’ispirazione per uno spettacolo in cui i monaci portano le tecniche e le pratiche del Kung Fu Shaolin. La scenografia, composta dallo scultore Antony Gormley (scenografo anche degli spettacoliBabel (Words), Icon, Noetic, Zero Degrees), consiste in una serie di scatole aperte, a misura d’uomo che ciclicamente trasformano i paesaggi in cui i monaci si muovono: sono letti, gusci, pesanti bare da portare nel percorso, montagne da scalare, simulacri di una lotta continua o di un rito ancestrale.
Cherkaoui e un bambino giocano con delle miniature che replicano la scena principale, sopra una di queste scatole dal colore argenteo: riconoscibile nella scelta illuminotecnica e cromatica, l’estetica “cinematografica” che contraddistingue la firma dell’artista, già riconoscibile in Noetic e Icon. La musica – dal vivo – è eseguita dietro il fondale semitrasparente e condotta da Szymon Brzóska. Un lavoro energico, cesellato con precisione in un continuo ripetersi di movimenti repentini, marziali, senza sosta e con il cambio delle scene affidato al gioco delle scatole simile a un Tetris. Emerge nel lavoro un momento in cui gli interpreti eseguono, seduti sopra queste strutture, una partitura composta con i gesti dell’alfabeto muto, come una preghiera rituale rivolta allo spettatore. La struttura performativa tipica dello spettacolo di danza contemporanea – con le sue attese, i passaggi calibrati e una visione organica della creazione – non si amalgama con la pratica del kung fu, destabilizzando lo spettatore e portandone la visione su un altro piano, quello dello spettacolo come momento di abbattimento di una frontiera a favore di uno spazio di verso una cultura lontana dalla nostra e dalle radici profonde. Il tema della lotta si materializza in una sequenza fatta di virtuosismi energici, che non si conclude nel rapporto binario vincitore – sconfitto, ma in una sfida che è parte della disciplina dei monaci.
Ma se da una parte il lavoro di Larbi Cherkaoui si colloca nella linea della danza teatrale europea con le influenze interculturali – che sono anche parte della storia dell’autore – coniugate alle tecniche ereditate dalla danza europea di fine Novecento, in questa edizione del festival viene riservato un grande spazio anche alla danza italiana, e in particolare in luoghi specifici della città sabauda.
Michele Di Stefano, autore di punta della danza italiana con la sua compagnia MK,in Orografiatrasforma la collina torinese in un palco verticale in cui la danza s’inscrive nel paesaggio semi-urbano, non catturando completamente l’attenzione – rapita in gran parte dall’ascolto della voce di Di Stefano che racconta, immerso nel paesaggio sonoro di Lorenzo Bianchi Hoesch, il suo percorso tra le montagne. Biagio Caravano apre questa “escursione” sulla terrazza del Monte dei Cappuccini portando il pubblico a seguire prima il suo gioco coreografico e successivamente quello di Roberta Mosca e Laura Scarpini, fino a strizzare gli occhi in direzione dei Murazzi del Po, dove si può vedere un corpo che danza vicino all’acqua, mentre un battello da cui si spande fumo colorato, risale verso piazza Vittorio. Come ha commentato Michele, “la danza è realizzata dalle persone che si trovano in quel luogo”.
Sempre sul Monte dei Cappuccini, all’esterno del Museo della Montagna, Marco Chenevier regala a un pubblico intimo e incuriosito di Torinodanza la sua visione di Purgatorio ovvero Aspettando Paradiso. Chenevier è coreografo, danzatore e regista valdostano e vanta una lunga esperienza professionale in Francia con Isaac Alvarez, fondatore della compagnia TIDA Teatro Instabile di Aosta e creatore del festival T*Danse. In questa sua creazionela struttura morale, topografica e narrativa ricreata da Dante è reinterpretata da Chenevier come in una fatica sportiva, agonistica, associabile alla salita verso il Paradiso cantata nella Commedia.
«Se voi la sapete, mostrateci la via per salire sul monte» II, 58
A mostrarci questa via al Torinodanza è Théo Pendle, danzatore di grande intensità e dotato di una plasticità fisica che si rivela solo con l’intensificarsi della danza e il cui vocabolario ricorda James O’Haranel Faun del già citato Sidi Larbi. Indossa una sorta di capospalla con piume nere, definite e pesanti come le scaglie di un pesce ed entra nello spazio come in un’immersione verso una dimensione altra, intermedia, cercando il passaggio che lo porterà a destinazione. Il centro dello spazio è occupato da una struttura cubica dalle pareti trasparenti e dal soffitto traforato. Una serra, una vetrina, un’incubatrice. Uno spazio in cui il Dante di Chenevier trova ristoro e purificazione: dal soffitto scende una pioggia salvifica, che dapprima scioglie il pesante cappotto del performer e gli permetterà di scivolare all’interno di questo lago, giocando con l’acqua e sciabordandola contro le pareti della struttura.
«Quando noi fummo là ‘ve la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su l’erbetta sparte
soavemente ‘l mio maestro pose:
ond’io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver’ lui le guance lagrimose:
ivi mi fece tutto discoverto quel
color che l’inferno mi nascose. »
(I, 121)
Il lavoro termina con Alessia Pinto ed Elena Pisu che dipingono degli occhi sulle pareti della struttura, che come Catone L’Uticense traghettano il viaggiatore – e il pubblico – verso il Paradiso attraverso gli occhi di Beatrice. Non acquista particolare rilievo la musica dei Godspeed you! Black Emperor. Un lavoro al festival Torinodanza che dimostra la consapevolezza scenica di Chenevier e la dimestichezza con cui Enrico Pastore tratta una drammaturgia così delicata, dimostrando quella capacità – spesso latitante negli short pieces e negli studi della recente danza d’autore– di concepire un progetto-spettacolo nel suo impianto totale e multidisciplinare.
«E sì come secondo raggio suole uscir del primo e risalire in suso, pur come pelegrin che tornar vuole,
così de l’atto suo, per li occhi infuso ne l’imagine mia, il mio si fece, e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.»
Il festival internazionale Interplay, giunto alla sua diciannovesima edizione, porta a Torino la danza internazionale, e coerentemente con la visione globale che caratterizza la direzione di Natalia Casorati, allarga il campo a diversi approcci coreografici. Dieci giorni di festival in cui la danza non solo passa attraverso i teatri ormai consueti del capoluogo, ma arriva all’interno del Politecnico di Torino, alla Galleria d’Arte Moderna GAM e in Piazza Vittorio Veneto con le performance Outdoor. Quest’anno ha avuto un grande rilievo il focus sui coreografi fra Asia e paesi Mediterranei, a ribadire il carattere di internazionalità di questo evento.
In questo articolo ci soffermeremo sullo spettacolo della compagnia MK, fondata negli anni Novanta e diretta da Michele Di Stefano, che vanta tra i numerosi riconoscimenti il Premio Danza&Danza 2018 per la categoria “Produzione Italiana”, tra i finalisti del Premio Ubu 2018 come migliore spettacolo di danza e Leone d’Argento 2014 alla Biennale Danza di Venezia.
Turbolenza. Questo è il termine da cui è possibile partire per parlare di Bermudas_Tequila Sunrise, spettacolo della compagnia MK. Questa parola ha diversi significati, a seconda degli ambiti in cui viene impiegata, e qui vorrei riferirmi alla definizione resa da Treccani:
In fluidodinamica, movimento irregolare (o «caotico») delle particelle di un liquido o di un gas caratterizzato da forti fluttuazioni della velocità e da moti vorticosi, che si manifesta quando il flusso del fluido, rispetto a superfici fisse con le quali è a contatto, supera una certa velocità critica.
I performer entrano in scena come particelle, in un vortice che si apre all’interno della scena, assolutamente priva di oggetti. La danza di Michele Di Stefano propone, partendo da quattro movimenti che vengono enunciati da Lanza all’inizio dello spettacolo (Largo, Lungo, Rovescio, Lato), una partitura definibile in termini fisici e atmosferici. Entrando in momenti diversi, singolarmente e a gruppi, i sette performer ci proiettano all’interno di una sorta di “triangolo delle Bermuda” – in cui non si raccontano storie di navi e aerei scomparsi – ma dove vigono le regole della perturbazione. Ciò che sembra apparentemente caotico e casuale, si rivela in realtà un moto perpetuo calcolato con esattezza e con una precisione metodica – quasi fosse una conseguenza delle stesse leggi a cui rispondono i campi elettromagnetici e le orbite dei pianeti.
Se inizialmente risulta difficile farsi trasportare all’interno di questo esperimento spaziale – complice anche il complesso gioco di luci colorate sul pavimento bianco – la turbolenza è qualcosa che si muove sullo sfondo, tarda ad arrivare, ma è annunciata dal fatto che i danzatori rompono la routine dei quattro movimenti con un gesto più forte e incisivo, come il fulmine che, dipinto da Giorgione ne La Tempesta, definisce quella massa che procede inesorabile a travolgere ogni cosa. I performer creano un campo di forze – come se fossero onde elettromagnetiche – e interagiscono come cariche che si spostano nel vuoto, si manifestano con reazioni istantanee e modificano le loro cariche a seconda della presenza di altre forze.
Lo spettacolo è diviso essenzialmente in due parti: se la prima propone un sistema di composizione rigoroso ma in apparenza legato al momento, nella seconda parte i danzatori si muovono in connessioni di coppia, le loro relazioni diventano più rischiose e anche la loro espressione nel volto è alleggerita, come se fossero presi da una dinamica che non richiede né sforzo né tensione. A dividere queste due parti il breve assolo di Philippe Barbout che rallenta la “velocità critica” della perturbazione e ferma la concitazione di questo sistema, per porsi con una presenza di grande forza e apre uno spiraglio di relazione concreta con lo spettatore. Un intervento efficace e potente, perfettamente in consonanza con la grande sintonia con cui si muovono i danzatori di Michele Di Stefano. Un dettaglio non trascurabile: i performer raggiungono un evidente “stato di grazia” mentre si muovono, un contagioso divertimento che risulta evidente sui loro volti.
Si può fare un piccolo appunto sulla scelta di favorire maggiormente un lato per entrate e uscite, con il tradizionale sistema delle quinte simmetriche, che rende un pochino meccanica la dinamica della turbolenza. I costumi evocano atmosfere estive e balneari, ottima la scelta di colori, ma forse troppo audaci le taglie e le forme in relazione ai corpi dei performer. La proposta sperimentale – e rischiosa – data in questa sede dalla compagnia MK definisce la sua relazione con il pubblico senza alcun bisogno di espedienti o forzature dialogiche: non serve fissare gli spettatori, renderli partecipi di respiri affannosi, atti violenti – e nudi prevedibili – non necessari, ma è sufficiente creare un sistema in cui danza, movimento, cromie luminose – e un tocco di ironia nella scelta dei costumi – invitino il pubblico a unirsi.
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