Homing, ricominciare a migrare. La danza di Marta Bevilacqua
Marta Bevilacqua è direttrice artistica della compagnia Arearea, docente di danza contemporanea in diversi centri di Alta formazione, coreografa e danzatrice. Nel corso della sua carriera ha privilegiato un’instancabile ricerca del gesto e la trattazione coreutica di tematiche sociali.
Nel triennio 2018-2020 il suo lavoro è stato sostenuto dall’Hangart Fest di Pesaro, per cui si appresta a collaborare a una produzione editoriale che raccoglie l’esperienza festivaliera e il suo metodo compositivo. La sua ultima creazione, Homing, chiude la trilogia Choreographic Novel con un affondo filosofico sul tema, più che mai aderente alla condizione odierna, della casa e della migrazione.
La lunga esperienza di Marta Bevilacqua fa della coreografa e performer un importante riferimento per comprendere i cambiamenti in atto nel settore, analizzati in questa intervista con un focus sulle sue recenti esperienze lavorative e sul mutato insegnamento della danza in questo tempo sospeso.
Homing è il tuo ultimo lavoro, un’indagine corporea che prende le mosse dalla migrazione degli animali e che riflette sul senso di appartenenza e sul distacco dagli affetti. Come si inserisce in questo periodo storico la trattazione di tale tematica, come si traduce a livello coreografico?
Il tema della casa, o meglio delle case, è stato motivo di studio in tempi non di pandemia. Devo dire che trovarsi tra le mani un tema del genere in un momento come questo, è stato complesso da affrontare per me. Non nego che temevo di abbandonare questa strada, invece in quel limite ho trovato una risorsa che risiede nel dimostrare internamente ed esternamente che le case sono molte, diverse e che abbiamo l’opportunità di spostarci in luoghi che ci fanno stare bene se riconosciamo un rapporto forte con la natura. Qualsiasi cosa voglia dire questo per noi.
Homing è un viaggio tutto rivolto all’esterno, anche molto esplicito. Amo dire che Homing è un lavoro inattuale perché si appoggia a un testo importante che si intitola Sull’utilità e il danno della storia per la vita di Nietzsche. All’interno di quel testo, che era l’unica cosa certa da cui partire, c’è un dialogo molto buffo e surreale tra un uomo e un animale, durante il quale l’uomo chiede all’animale come mai sia così felice e di raccontargli in cosa consista la sua felicità. In questa assoluta distanza intellettuale tra l’uomo e l’animale, io in scena faccio l’animale.
Fare questo lavoro è stato divertente perché al mio fianco ho avuto un compositore stravagante, Walter Sguazzin, che ha esperienze compositive di prim’ordine, con cui ho declinato questo brano di Nietzsche in un canto trap. Ci sono quindi nel lavoro dei cortocircuiti estetici che sono per me stati motivo di forte gioia. Penso che un assolo sia un risultato. Sono arrivata a un punto del mio percorso artistico in cui mi sono sentita in grado di affrontare un assolo, ed è una delle cose più difficili che io abbia mai fatto.
Dal 2018 la tua ricerca è sostenuta dall’Hangart Fest, una collaborazione che condurrà alla stesura di un volume che raccoglie l’esperienza del festival e del tuo progetto di creazione. Quali ulteriori occasioni di confronto con il tuo percorso professionale ti sta offrendo la scrittura, che in questo caso funge anche da mezzo di archiviazione e testimonianza?
Volendo traslare, Hangart Fest è stata una delle mie case, un luogo dal quale devo migrare ora che la mia triennalità è terminata. La dimostrazione della bellezza di questo triennio avrà come esito anche una restituzione scritta. In questo volume si parlerà nello specifico non soltanto del lavoro sviscerato in questi tre anni ma anche di una modalità metodologica di fare composizione coreografica.
Sarà per me un’occasione per depositare le esperienze precedenti, la mia modalità compositiva, quello che penso sia la danza, il valore aggiunto che può avere il linguaggio della danza. Sarà anche un modo per mettere insieme dei riferimenti intellettuali che ho raccolto in questi anni.
Oltre all’attività di performer ti dedichi all’insegnamento della danza contemporanea in diversi centri di alta formazione. A causa della pandemia la didattica è stata svolta in parte da remoto. Come ha influito tale modalità d’insegnamento sulla formazione degli allievi?
Mi sono trovata a scegliere se aderire alla linea online, mantenendo un filo seppur lontano di presenza, ma ho declinato l’invito. Ho scelto di fare altro, ovvero tenere e condurre delle lezioni di storia della danza, di critica al corpo perché credo che soprattutto le giovani generazioni con cui ho l’onore, il piacere e la passione viscerale di fare un percorso di crescita, abbiano bisogno di tempo anche per un lavoro di comparazione.
Per me la storia dell’arte è assolutamente inclusiva e ho voluto utilizzare questo tempo per arricchire gli strumenti di comprensione e di necessità. Lascio al fitness e alle applicazioni un mantenimento del corpo che sanno fare meglio di me.
A me interessa un gesto espressivo, necessario ed è su queste due parole che articolo la mia modalità pedagogica che non può prescindere dalla relazione. Quando insegno chiedo alle mie allieve, ai miei allievi, alle persone che incontro, professionisti e non di fare la grande operazione di sbarazzarsi di sé e di afferrare la loro parte dionisiaca. Questo non è possibile se mi concentro sui muscoli, sull’altezza della gamba, a me interessa un corpo altro, un corpo necessariamente tecnico, ma soprattutto un corpo che sappia cosa sta agendo nello spazio.
La tua lunga esperienza in campo coreutico ci consente di avere uno sguardo profondo sullo stato della danza. Quali sono i punti di forza e i punti di debolezza del settore? Quali assetti, alla luce del blocco delle attività spettacolari, necessitano di un’urgente rielaborazione?
La forza della danza è indipendente dalla danza stessa. La forza della danza è il corpo, una realtà antica che riuscirà a superare questa grave e preoccupante forma di distanziamento sociale. Se è vero che le parole sono importanti, ne abbiamo scelte di importantissime perché il distanziamento sociale si è avverato concretamente. La danza sopravviverà perché non può fare a meno di sopravvivere, quello che mi preoccupa è l’attività di ricostruzione.
Mi auguro che gli operatori, anziché continuare a essere artisti, comincino a essere finalmente operatori e si mettano a servizio delle urgenze degli artisti che tutto vogliono eccetto che essere presi al lazzo per fare progetti online e streaming e che ripartano da lì con grande umiltà e facendo un grandissimo passo indietro. Io ho avuto la fortuna di formarmi con grandi maestri che facevano il passo dell’arte, ora purtroppo sono gli organizzatori a fare il passo dell’arte e spesso per convenienza.
Pertanto, rischiamo di omologare linguaggi ma mi auguro che tutta questa spazzatura, presto, con la riapertura dei teatri, ritorni nei propri luoghi e si riparta dalla presenza. Il più grande dono che si possa fare è il proprio tempo, la condivisione del tempo per l’arte è la cosa che mi manca di più.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.