La sopravvivenza del teatro secondo il metodo Rafael Spregelburd
“È il riproporsi degli scontri e della violenza in quanto strumento di conquista/conservazione di posizioni egemoni e di controllo che estrae il dramma dall’ombra della nostalgia e ne rende nuovamente attive le funzioni evocative e la capacità di comprendere empaticamente il presente attraverso la sua espressione.”
Il 6 Febbraio 2012 al Teatro Rasi di Ravenna, Ruggero Guccini parla così in una conversazione pubblica dal titolo Ripartire dal postdrammatico. Assieme allo stesso Lehmann e a Marco Martinelli si discute la riattualizzazione del postdrammatico di Hans Ties Lehmann, un teatro che si emancipa dal testo senza dimenticarlo.
Il presente sembra imporre al teatro una richiesta diametralmente opposta: è possibile per il teatro sopravvivere senza l’imprevedibilità del momento performativo? Cosa rimane senza la scena?
Ci viene in soccorso Rafael Spregelburd, un teatrista, come ama essere definito, una personalità scenica in cui confluiscono più ruoli: traduttore, drammaturgo, regista e attore, annoverabile con sicurezza fra le voci che meglio sintetizzano l’estetica contemporanea, perché di contemporaneità si nutre. Nato a Buenos Aires nel 1970 studia con i maestri del suo tempo fra cui Mauricio Kartun e Ricardo Bartis fra i mentori fondamentali della nueva escena porteña.
Sarà proprio Kartun a notare la tendenza naturale di Spregelburd verso il testo, l’aspirante drammaturgo non abbandonerà gli studi di recitazione e sotto la guida di Bartis capirà di essere un attore che scrive le opere in cui vorrebbe recitare. In questa fortunata definizione troviamo la chiave del suo lavoro drammaturgico, fatto di costruzione di un linguaggio più che di un testo, in cui l’impegno dello spettatore è una conditio sine qua non, che, spesso suo malgrado, viene inglobato nell’universo meta e omnicomprensivo creato da Spregelburd.
I testi del regista argentino sono opere fiume, di raffinata ingegneria linguistica, architettonicamente insidiose e provocatoriamente enigmatiche. È proprio questa perizia ingegneristica ad attirare l’attenzione di Luca Ronconi, che, proprio come con Carlo Emilio Gadda, vede in Spregelburd e nei suoi testi babelici pane per i suoi denti: metterà infatti in scena due testi di Spregelburd, La Modestia nel 2011 e Il Panico nel 2013.
Ne La Modestia il connubio Ronconi-Spregelburd raggiunge vette realizzative inaspettate, l’allestimento sfugge qualsiasi forma di surrealismo formale, è una sfida scenica, in cui i personaggi interpretano ruoli molteplici e accumulati e in cui il compito è quello di svelare la pochezza di una delle più nobili delle virtù: la modestia appunto, che si trasforma in mediocrità, povertà di spirito. Lo spettacolo è un’operazione di sfacciata di alterigia scenica, in cui le unità aristoteliche vengono soffocate dalla molteplicità di luoghi, spazi temporali e azioni che lievitano sulla scena.
In un’intervista con Luis Emilio Abraham del 2006 il regista argentino afferma che ciò che il suo teatro fa è mettere in scena dei cortocircuiti, per far sì che la ragione entri in crisi, demistificare i processi di razionalizzazione del presente. La messa in scena, per Spregelburd, non ha nulla di rassicurante, non è una reinterpretazione della realtà, ma una sfida costante e faticosa, un esercizio pavloviano di reazione ai tempi che corrono.
Qui torna Ruggero Guccini e il ripartire dal postdrammatico: cosa bisogna fare per rendere nuovamente attive le funzioni evocative del dramma? Se nel 2012 la domanda poteva sembrare solo una riflessione fra accademici il presente la impone come necessaria e urgente. Fra le molteplici risposte che sono state date, il metodo Spregelburd prende forma e si impone, al pari del Bergsonismo d’inizio novecento, emancipandosi dai modelli e reinventando i linguaggi.
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