Teatro di Figura, immagini di vita. Intervista a Zaches Teatro

Teatro di Figura, immagini di vita. Intervista a Zaches Teatro

È una storia che attraversa i secoli quella del Teatro di Figura, mutando nella forma e nei linguaggi, preservando artigianalità e ritualità. In un gioco di rifrazioni, burattini, oggetti e marionette, portano in scena l’umano sentire, celando e svelando mani e corpi che compongono l’atto teatrale. 

In Europa, il Teatro di Figura italiano ha rappresentato un importante traino per lo sviluppo del genere, ibridandosi con le maschere della Commedia dell’Arte, fino a giungere in epoca contemporanea a una contaminazione di tipo performativo e tecnologico.
Colto e popolare, alto e basso, improvvisazione e cura del dettaglio, minuzia e maestosità, magia e realtà: in questa compresenza antitetica risiede il fascino di un teatro erroneamente associato alla sola spettatorialità infantile, capace di coinvolgere fasce di pubblico eterogenee.

Della crisi generata dalla diffusione della pandemia il Teatro di Figura ha risentito fortemente a livello sistemico, ponendo numerosi quesiti sulla tutela destinata al genere. L’effervescenza delle sperimentazione e il fiorire di compagnie dedite a quest’arte, a livello nazionale e internazionale, necessitano di un’indagine approfondita che faccia affiorare il cammino impetuoso del Teatro di Figura.

Con il ciclo di ricerca Teatro di Figura, immagini di vita analizziamo lo stato di questo genere teatrale dando voce ad artisti e compagnie.

Nel corso della XXI edizione del festival Maggio all’infanzia, abbiamo incontrato Luana Gramegna ed Enrica Zampetti della compagnia Zaches Teatro – di cui fanno parte anche Francesco Givone, Stefano Ciardi e Gianluca Gabriele –, in scena con lo spettacolo Sybilla Tales, che mercoledì 30 giugno sarà presentato, nell’ambito del progetto Live Streaming Theatre, al Festival Dominio Pubblico di Roma.

Il lavoro di Zaches è incentrato sulla compresenza di diversi coefficienti artistici che restituiscono l’artigianalità del fatto artistico senza però complicare la fruizione dello spettatore che piuttosto viene spinto a porsi come produttore di senso. Come convive la ricerca della semplicità con impianti visivi e drammaturgici così sofisticati?

Luana Gramegna: Hai colto il centro della nostra ricerca: per noi la sfida risiede proprio in questo. Infatti le difficoltà in fase di creazione nascono dalla riflessione su come non rinunciare ai vari strati di lettura, pur cercando la semplicità della fruizione. Per me è sempre stato molto importante fare in modo che lo spettatore di qualunque età, provenienza sociale e culturale, potesse sentirsi partecipe di ciò che accade in scena

Mi riferisco a una partecipazione attiva, nel senso che tutto il lavoro è costruito in un modo per cui a chi guarda spetta il completamento del quadro, non solo a livello visivo ma anche emotivo e intellettuale. Pur interagendo sempre in maniera complessa, la compresenza di questi piani è il fulcro della nostra creazione. 

Enrica Zampetti: A un certo punto subentra un grande lavoro di sottrazione, perché all’inizio sperimentiamo tutti questi linguaggi, cercando un modo attraverso il quale possano integrarsi l’uno con l’altro. Nella fase attiva della ricerca c’è una grande sovrapposizione che poi, arrivando all’essenzialità, trova un’integrazione tra i vari linguaggi. Il giusto equilibrio.

Questo atto di semplificazione vi consente di affrontare la contemporaneità andando a rintracciare la radice archetipa delle narrazioni proposte, innescando di fatto una ritualità che mette al centro il pubblico. Quanto conta la dimensione rituale nel teatro di figura, un genere che fa di sensorialità e magia (intesa come capacità di dominare la natura) una caratteristica fondante? 

L.G: Il teatro di figura parte dall’ancestralità, dalla figura dello sciamano, dall’idea di totem, per questo pensiamo che sia molto importante recuperare la matrice rituale. Mi riferisco a quella materia invisibile di cui parla anche Paul Klee quando dice che l’obiettivo dell’arte risiede nel rendere visibile l’invisibile. Si tratta di forze che sono quelle della natura e da cui, nel mondo contemporaneo, ci siamo allontanati moltissimo. Nella ricerca che stiamo conducendo con La trilogia della fiaba, di cui Sibylla Tales è una costola, vogliamo proprio andare a riprendere gli archetipi e rimetterli in luce, farli riaffiorare con tutta la loro potenza.

E.Z: La forza dell’archetipo è relativa alla sua capacità evocativa, che non attinge alla logica preponderante nella nostra società occidentale, trovando invece una fonte in un universo più antico, spirituale.

L’ausilio di mezzi tecnologici ha rafforzato il vostro lavoro intervenendo ancor più sul coinvolgimento sensoriale degli spettatori. A partire dal 2020, invece, avete cominciato a sperimentare la fruizione streaming. Come è cambiato in questo senso il vostro approccio al lavoro e come siete riusciti a mantenere attiva  la relazione con il pubblico?

L.G: La macchina da presa si è rivelata uno strumento veramente interessante perché ha amplificato dettagli che, nel caso specifico di Sibylla Tales, sono molto importanti. Lo sguardo dello spettatore si è immedesimato nell’obiettivo, innescando il desiderio di rendere tangibile quanto veniva visto. Quando il lavoro si è spostato in presenza abbiamo cercato di capire come portare con noi quest’eredità. 

Il linguaggio delle proiezioni video ha completato l’immagine in scena senza sostituirla. Ci stiamo ancora interrogando sulla questione del dettaglio, anche perché il lavoro ha debuttato da poco. Vogliamo capire ancora come riuscire a riportare quel coinvolgimento che si era creato con lo streaming e che in uno spazio teatrale più ampio rischia di perdersi. Sono sicura però che organizzando meglio lo spazio di fruizione, saremo in grado di ricreare quel coinvolgimento.

E.Z: Con il live streaming abbiamo avuto modo di creare un progetto che ci ha consentito di incontrare i ragazzi, anche se in forma digitale, sia prima sia dopo lo spettacolo, facendoli entrare in una dimensione creativa e di vita, che altrimenti non avrebbero potuto percepire. Abbiamo colto lo stupore del pubblico che, attraverso la live, ha potuto vivere la collettività, accedendo a quel contagio emotivo che si verifica tra spettatori.

L.G: In questo senso spero che il teatro, grazie alla pandemia, riesca a entrare anche in contesti in cui purtroppo non vi è una grande qualità, offrendo un’alternativa a ciò che di solito i ragazzi guardano. 

Il Teatro Ragazzi ha subito un’importante battuta d’arresto a causa della pandemia, che ha reso evidenti i limiti di un sistema spettacolo che tende a tutelare debolmente alcune posizioni lavorative, come gli intermittenti, particolarmente diffuse in questo genere teatrale. Considerando anche la vostra lunga esperienza all’estero, di quali azioni di sostegno necessiterebbe il Teatro Ragazzi italiano?

E.Z: Innanzitutto non dovrebbe essere considerato un teatro pensato solo per i ragazzi: il teatro è teatro. Pensiamo il teatro per un tout public, ma per una questione pratica lo spettacolo viene categorizzato. Questo però lo sminuisce, lo definisce automaticamente un teatro di serie B. All’estero, soprattutto in Russia e in centro Europa, non si percepisce un distacco così netto tra il teatro per adulti, il teatro per ragazzi e il teatro di figura. Già cambiando i termini linguistici con cui si definiscono le cose si cambia la percezione delle cose stesse.

L.G: Credo che il problema si anche culturale, molto legato al nostro paese: il teatro di figura all’estero è un teatro di ricerca, d’avanguardia molto forte e può essere per adulti come per bambini. Poi è chiaro che nella creazione si guardi più a un target che ad un altro ma solo qui esiste questa grande differenza. Esistono dei temi spinosi, come la morte, la paura, il buio che si ha paura di affrontare in sala perché richiedono un lavoro ulteriore prima e dopo la visione. Noi cerchiamo sempre di proporre un progetto più ampio, culturale e per questo non possiamo portarlo avanti da soli come compagnia. C’è bisogno che i programmatori e gli organizzatori abbiano in mente un progetto più ampio perché non possiamo farlo da soli.