L’uomo dal fiore in bocca, una riscrittura al femminile del classico pirandelliano
L’uomo dal fiore in bocca, dall’atto unico del maestro Luigi Pirandello, presentato per la prima volta nel 1922 al Teatro Manzoni di Milano, affronta da vicino il tema della morte imminente e ha come protagonista una figura femminile, la donna vestita di nero, interpretata da Lucrezia Lante della Rovere.
Il testo originale mette al centro il dramma di un uomo che decide di allontanarsi dalla vita e anche dalla moglie che rappresenta il passato, i ricordi, la vita stessa. Lo spettacolo, di cui Francesco Zecca firma adattamento e regia, dà voce alla donna muta che Pirandello ha solo fatto intravedere, una donna a cui l’unica cosa rimasta è quella di “attaccarsi con l’immaginazione alla vita“ cercando di non lasciar andare il marito.
In questa intervista Lucrezia Lante della Rovere e Francesco Zecca approfondiscono genesi creativa ed esiti scenici de L’uomo dal fiore in bocca.
L’operazione di riscrittura condotta sul testo pirandelliano ha, in L’uomo dal fiore in bocca, degli esiti scenici e drammaturgici rilevanti. Da dove si origina e con quali motivazioni?
Francesco Zecca: Avevo voglia di ribaltare il punto di vista, concentrandomi su questa donna che nel testo è quasi del tutto assente. Siamo partiti dal provare ad affidare alla voce di una donna il testo di Pirandello e, nel lavoro di riscrittura, mi sono reso conto che pur usando le stesse parole, la storia prendeva tutt’altra direzione.
Con Lucrezia abbiamo deciso di riscattare questa figura femminile, dandole forma, anima, corpo. Questa “costruzione” è stata uno dei momenti più emozionante del lavoro condotto su questo spettacolo. Una parte del testo è contro questa donna.
Un altro tema a cui ci siamo dedicati è quello della dualità dell’immaginazione: l’immaginazione può essere una cosa bellissima o una cosa terribile, può essere una grande libertà o una grande prigione, dipende da come la si usa.
Lucrezia Lante della Rovere: Questo spettacolo nasce in un periodo particolare: eravamo in pieno Covid, depressi, tristi, privati della nostra immaginazione, che è proprio uno dei temi del lavoro. Devo dire che, anche se la situazione non giocava a nostro favore, è stato interessante avere a disposizione molto tempo, senza ansia produttiva, dandoci la possibilità di sbagliare, qualcosa che gli artisti possono raramente permettersi.
Il testo originario è molto retorico, ma tutto ciò che viene detto, una volta impiantato sul personaggio femminile – e dunque anche spostato cronologicamente – assume un altro significato, diventa l’ossessione di lei, l’incomprensione di questo uomo che non l’ha amata. Il cambio di prospettiva secondo me ha anche sveltito la pesantezza che il testo originario detiene.
Nel testo di Pirandello, seppur il personaggio femminile risulti quasi del tutto assente, è presente un conflitto tra uomo e donna. Restituire “politicamente” questo tema è stata un’urgenza del vostro lavoro?
F.Z: In molti punti del testo il maschilismo di Pirandello viene fuori in maniera prorompente: non ha parole dolci per questa donna, la mette all’angolo, la manipola. Quindi sì, abbiamo riflettuto su questo conflitto tra maschile e femminile in termini di sguardo, di diverso modo di guardare ma non lo abbiamo approfondito particolarmente.
L.L.D.R: Di fronte al dolore, non esiste genere. Questa donna del dolore si nutre e lo trasforma, essendo disposta a morire insieme al marito pur di non distaccarsene. Lei è attraversata dall’amore, quindi non c’è tensione. Ho provato anche ad assumere il punto di vista dell’uomo: chi sono io per giudicare una persona che sta morendo,i sentimenti che lo attraversano? Quello che non ho colto è perché Pirandello perché abbia accantonato quella donna, sottovalutandone la potenzialità dello sguardo.
Rispetto all’accoglienza del pubblico, quali aspetti vi hanno colpito particolarmente?
F.Z: Abbiamo notato che il pubblico conosce questo testo perché si studia a scuola, ed è molto interessante vedere come, pur andando a rompere il loro immaginario, gli spettatori restino stupiti dal funzionamento di questo punto di vista completamente ribaltato.
L.L.D.R: Per il pubblico che conosce la novella risulta ancora più divertente scoprire la nostra operazione di riscrittura. Abbiamo notato che arriva moltissimo il tema del lutto, è uno spettacolo molto emotivo che viene accolto dal pubblico con grande coinvolgimento.
Qual è la speranza, la motivazione che vi ha spinto e che vi spinge a mettere in scena questo testo?
F.Z: Per me il senso risiede anche nel tipo di lavoro che facciamo con Lucrezia, nel darci il tempo di sbagliare, di capire. Per me le prove sono fondamentali come atto creativo, il tempo è qualcosa che manca al teatro italiano. Occorre che il codice sia condiviso, anche per questo serve tempo. Per me il teatro è amore, inteso come rapporto d’amore tra l’attrice, la regia, il testo, il pubblico. Ecco mi auguro di continuare ad avere tempo, per non incappare nel rischio di rendere sterile questo mestiere.
L.L.D.R: L’obiettivo è di comunicare attraverso le emozioni, mettendo in scena dei testi universali i cui temi arrivino in maniera chiara, come messaggi fruibili per lo spettatore con cui si innesca uno scambio reciproco: il pubblico si nutre di me e viceversa. Se non c’è comunicazione, qualcosa non va, vuol dire che stiamo sbagliando noi.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.