Lockdown memory. La collaborazione artistica a distanza di Instabili Vaganti

Lockdown memory. La collaborazione artistica a distanza di Instabili Vaganti

Lockdown memory

Con il progetto Beyond Borders, la compagnia Instabili Vaganti, fondata da Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola, ha avviato un percorso di superamento dell’isolamento venutosi a creare con la diffusione della pandemia, attraverso una condivisione artistica su scala internazionale. Obiettivo del progetto, inoltre, è stato mostrare come, anche con pochi mezzi a disposizione, il teatro possa continuare a ripensare le modalità d’interazione, utilizzando strumenti inediti a supporto della creazione. 

Il risultato della collaborazione avviatasi con Beyond Borders, è la docu-performance Lockdown memory, una narrazione trasmediale che mette insieme appunti testuali, note visive, partiture fisiche e musicali, registrazioni delle conversazioni in zoom e scene di vita quotidiana degli artisti coinvolti nel progetto. L’accento è posto sul processo di lavoro, sul confronto interculturale, sul ripensamento della geografia mondiale. 

Presentato per la prima volta dal vivo all’Oratorio San Filippo Neri di Bologna, in occasione del Festival PerformAzioni 2020, Lockdown memory è uno spettacolo che attraverso il dialogo instaurato tra la scena e i linguaggi multimediali, dà vita a una narrazione artistica, politica e sociale tra teatro, video arte e film documentario.

In questa intervista Anna Dora Dorno approfondisce processo artistico, tematiche ed esiti spettacolari di Lockdown memory.

Lockdown memory è una docu-performance che raccoglie i risultati del processo di creazione artistica a distanza, portato avanti nell’ambito del progetto Beyond Borders. Come è stato attivato il processo artistico e quale vuole essere la funzione di Lockdown memory?

La creazione della performance nasce dall’esigenza di riportare in teatro tutto il materiale video creato all’interno del progetto Beyond Borders, durante il lockdown, e di proporlo in chiave performativa allo spettatore, per creare una relazione diretta con il pubblico, non più mediata dalla rete.

La funzione di questo spettacolo vuole proprio essere quella di portare in scena il processo di lavoro avviato in questo periodo per far conoscere al pubblico anche gli aspetti più intimi degli artisti, fuori dai riflettori, le loro paure, i dubbi, lo sconforto, ma anche la grande energia che li spinge a non arrendersi. Crediamo che lo spettacolo in questo senso sia uno specchio sia dei sentimenti e delle emozioni che ognuno di noi ha provato in questo lungo periodo di incertezze, sia delle situazioni socio-politiche che si sono create a livello locale e globale in ogni parte del mondo.

Lockdown memory è una narrazione transmediale, su scala internazionale, costruita grazie al contributo di artiste e artisti provenienti da ogni parte del mondo. Ogni contributo si incentra sulla situazione sociale delle nazioni d’origine o in cui vivono gli artisti coinvolti. In che modo questi messaggi hanno trovato riverbero sulla scena e qual è il fil rouge che ne collega la matrice politica?

Il fil rouge è dato dalla nostra biografia, lo spettacolo non è altro che il racconto del nostro progetto, della nostra metodologia di lavoro e della capacità che ormai abbiamo acquisito, dopo diversi anni di lavoro in numerosi contesti sociali e paesi, di entrare in contatto con le differenti culture che animano un territorio e nello stesso tempo di mantenere una visione globale, conferitaci dalla nostra posizione di osservatori e artisti.

Abbiamo costruito una drammaturgia originale composta da testi, materiale video e azioni performative partendo da noi stessi, da quello che avevamo vissuto durante il lockdown per incontrare pensieri, riflessioni, paure di chi come noi dall’altra parte del mondo era chiuso in casa. Paradossalmente quanto più ognuno di noi si sentiva isolato, tanto più la situazione politica e sociale che lo circondava diventava forte e caratterizzante. Abbiamo esaminato concetti e sensazioni come l’assenza, il silenzio, la mancanza, ragionando sul vuoto che si era creato dentro di noi.

Un vuoto in cui ogni piccola fiammella divampava senza incontrare ostacoli esplodendo all’esterno come stava accadendo con le rivolte sociali che in molti paesi erano già  in corso. La pandemia ci ha costretto a fermarci e a riflettere con maggior intensità su noi stessi e su quello che ci circonda ma soprattutto sulla posizione che come artisti vogliamo avere, sul ruolo che ci sentiamo di ricoprire. 

Jesus Quintero, regista colombiano che viene negli Stati Uniti e fa parte del progetto, in un video che proiettiamo nello spettacolo, ha espresso molto bene quello che ognuno di noi stava sentendo in quel momento: ”Come artisti dobbiamo fare qualcosa, altrimenti chi altri potrebbe farlo?”

Così abbiamo deciso che dovevamo continuare a fare il nostro lavoro e attraverso quello a dar voce alle differenti situazioni che si stavano creando a livello politico e sociale, in tutto il mondo, a non guardare solo l’aspetto di facciata, quello che ci veniva offerto dai mezzi di informazione ma di chiedere creare una comunità internazionale capace di riflettere sulla situazione globale e di creare una memoria storica condivisa di questa nuova era che stiamo attraversando.

Il passaggio dall’assenza alla presenza, a livello umano e artistico, ha condotto a una riformulazione del concetto di spazio. Che cos’è lo spazio oggi?

Le dimensioni di spazio e tempo oggi sono diventate molto variabili. A volte siamo costretti ad abitare uno spazio estremamente piccolo, come quello di una casa dalla quale non puoi uscire, e poi improvvisamente lo stesso spazio cambia dimensioni, aprendosi al mondo attraverso una finestra virtuale e permettendoci di connetterci con altrettanti spazi, lontanissimi eppur presenti, in un tempo estremamente mutevole. Altre volte invece lo stesso spazio ci sembra essere estremamente piccolo, indefinito, ma soprattutto irreale tanto da sentirci intrappolati in esso.

Mentre svolgevamo i nostri incontri del progetto, attraverso Zoom, diversi luoghi erano in connessione tra loro, lo spazio virtuale diventava globale, anche se lo spazio fisico di ognuno di noi era ristretto. Il tempo perdeva valore dato che gli strumenti per calcolarlo non avevano quasi più senso: mentre per noi erano le tre del pomeriggio, a New York ci si svegliava per fare colazione, e in Corea invece era quasi l’ora di andare a dormire.

Ognuno di noi aveva quindi una propria percezione del tempo, una visione soggettiva che diventava oggettiva solo nello spazio-tempo del collegamento, dell’essere tutti insieme, connessi, nello stesso istante.  Difficile definire quindi cos’è lo spazio oggi e soprattutto qual è lo spazio scenico, perché stiamo sicuramente oltrepassando i confini dello spazio fisico e cercando nuove forme di diffusione della nostra arte attraverso il web.

Nel periodo di chiusura degli spazi di spettacolo, che purtroppo in questo momento si sta ripetendo, ci siamo ritrovati nella condizione di dover utilizzare altri spazi e differenti mezzi per la creazione ma anche e soprattutto nuove metodologie di lavoro per continuare a collaborare con artisti di altri paesi, cercando di continuare a seguire la nostra vocazione primaria, quella di lavorare a livello internazionale e interculturale.

Vorremmo chiudere questa riflessione sullo spazio citando le parole di un passo del Paradiso perduto di J. Milton, che ci è più volte tornato in mente in questo periodo: “Che importa il luogo, tempi e luoghi mai potranno mutare la mia mente, la mente è il mio luogo è può in se fare dell’inferno un cielo e del cielo un inferno”. Come artisti abbiamo sicuramente la possibilità attraverso il pensiero e la nostra arte di trascendere qualsiasi luogo.

La trasposizione in forma di spettacolo della ricerca avviata in quarantena dà vita a una performance basata su diversi linguaggi, tra cui quelli multimediali. Come si intrecciano teatro, video arte e film documentario in Lockdown Memory?

Per noi il processo d’integrazione dei diversi media è stato estremamente naturale perché esprimeva ed esprime tuttora come ognuno di noi sta vivendo in questo particolare momento storico. Tutti noi siamo connessi con gli altri attraverso piattaforme on line, App, videochiamate. Siamo diventati fruitori attraverso il web di notizie, informazioni ma anche di spettacoli e questo aspetto non poteva quindi essere escluso dalla nostra narrazione.

Quando abbiamo deciso di usare il video come elemento essenziale di creazione, espressione e documentazione di questo progetto, lo abbiamo fatto indagandone le diverse possibilità. Per questo motivo la video arte e il cinema documentario sono diventate discipline con le quali ci siamo messi in dialogo. Per noi è molto importante adeguare il linguaggio che utilizziamo allo strumento di fruizione dell’opera che utilizziamo. Siamo convinti che ogni mezzo debba essere usato per le sue potenzialità e non solo come sostitutivo di qualcosa di cui siamo stati privati. In questo modo ogni nuovo mezzo diventa uno stimolo e uno strumento di arricchimento e ricerca da sperimentare.

Lockdown memory è stato presentato, per la prima volta dal vivo, all’Oratorio San Filippo Neri di Bologna in occasione del Festival PerformAzioni 2020. Qual è stata la risposta del pubblico e in che misura tale reazione ha guidato, o guiderà, l’evoluzione del progetto?

Siamo stati davvero contenti della reazione degli spettatori che hanno dimostrato un’estrema e sincera partecipazione al processo di lavoro dello spettacolo. Al termine della rappresentazione infatti c’è stato un incontro con il filosofo e ricercatore Enrico Piergiacomi, che ci ha accompagnati in tutto il progetto sia dal punto di vista metodologico sia di pensiero, per includere il pubblico nel processo di elaborazione teorico-metodologica che è parte fondante del nostro progetto. 

Abbiamo avuto la conferma che gli spettatori amano sentirsi parte non solo di un singolo evento, di uno spettacolo, ma anche e soprattutto dell’intero processo di lavoro e di riflessione che porta alla genesi di un’opera. Il pubblico è rimasto con noi per più di un’ora, dopo la rappresentazione, continuando a fare domande, commenti, ad arricchire con testimonianze personali l’esperienza che avevamo vissuto.

Quello che ci ha colpiti maggiormente è stato il fatto che molti spettatori si sono riconosciuti in quello che noi avevamo vissuto, le nostre e le loro storie erano tutte parte della stessa esperienza, per cui il nostro racconto è stato in qualche modo anche il loro.