Home Sweet Home – Stagione 2017/2018 Teatro Argot Studio

Home Sweet Home – Stagione 2017/2018 Teatro Argot Studio

Storytelling Theatron 2.0

     Stagione Teatrale Home Sweet Home del Teatro Argot Studio

 

C’è un luogo di culto a Roma che per l’indefesso zelo e la preziosa attività dei suoi animatori è diventato negli anni – ormai più di trenta –  una vera e propria fucina di spettacoli memorabili e di talenti artistici che hanno lasciato il segno nella storia del teatro romano e nazionale proponendo al proprio pubblico nuovi stili e linguaggi estetici: il Teatro Argot per quest’anno presenta la stagione teatrale Home Sweet Home di cui Theatron 2.0 seguirà gli spettacoli in programmazione producendo anticipazioni, articoli d’approfondimento e interviste al fine di creare uno storytelling che racconti i percorsi scenici dei lavori e degli artisti ospitati nello storico spazio di Trastevere.

 

#FocusOn: Al Teatro Argot Studio si apre la rassegna DPBLACKMIRROR – Intervista a Chiara Preziosa

Come diretta conseguenza dell’esperienza virtuosa di Dominio Pubblico, che ogni anno vede coinvolti decine di ragazzi e di ragazze nell’organizzazione di un Festival interamente dedicato a realtà artistiche under 25, si è sviluppato quest’anno al Teatro Argot Studio il progetto DPBLACKMIRROR(CONTINUA A LEGGERE)

#AnticipAzione: Al Teatro Argot Studio va in scena “Rosmersholm – Il gioco della confessione”

All’interno della rassegna DPBLACKMIRROR presso il Teatro Argot Studio, dal 24 al 29 Ottobre, la Compagnia teatrale I Guitti presenta Rosmersholm – Il gioco della confessione di Henrik Ibsen,  riduzione a cura di Massimo Castri con Federica Fracassi, vincitrice del “Premio Ubu” nel 2011 e Luca Micheletti, attore e regista dello spettacolo…(CONTINUA A LEGGERE)

#Incontri: Il Cappuccio d’osso della Luna al Teatro Argot – Intervista video a Cristina Cirilli

Nella prima intervista video abbiamo parlato con l’autrice e attrice Cristina Cirilli delineando la parabola creativa, dalla scrittura fino alla messinscena, de “Il Cappuccio d’osso della Luna”, al Teatro Argot dal 7 al 26 Novembre… (VEDI IL VIDEO)

DRAMMATURGIA: “Echoes” di Lorenzo De Liberato – Intervista video

In uno scenario distopico dove una bomba nucleare ha distrutto un’intera parte di mondo provocando migliaia di vittime, due uomini, Echo, autore della strage e De Bois, in apparenza un semplice giornalista, si trovano uno di fronte all’altro, chiusi un bunker, per parlare delle ragioni che hanno determinato l’efferato eccidio… (VEDI IL VIDEO)

#AnticipAzione: “Tutti i miei cari” al Teatro Argot Studio. Vita e poesie di Anne Sexton

Dal 23 al 28 Gennaio, al Teatro Argot Studio, andrà in scena “Tutti i miei cari” di Francesca Zanni, con la regia di Francesco Zecca e interpretato da Crescenza Guarnieri, all’interno della stagione Home Sweet Home.
Una donna in scena, su un tappeto di rose. O forse è una tomba…(CONTINUA A LEGGERE)

#Incontri: Black’s Tales Tour al Teatro Argot Studio – Intervista a Licia Lanera

Arriva da mondi lontani e oscuri come i ricordi dei racconti delle favole che da bimbi a volte ci incantavano, altre volte invece ci terrorizzavano. Andrà in scena al Teatro Argot Studio di Roma dal 2 al 4 Febbraio: Black’s Tales Tour, spettacolo in cui cinque fiabe classiche – la Sirenetta, Scarpette rosse, Biancaneve, La Regina delle Nevi e Cenerentola – (CONTINUA A LEGGERE) 

#Incontri: Ifigenia in Cardiff al Teatro Argot. Intervista al regista Valter Malosti

Nel cuore di Trastevere, presso il Teatro Argot Studio di Roma, continuano gli imperdibili appuntamenti teatrali di DPBLACKMIRROR, rassegna a cura degli under 25 di Dominio Pubblico inserita nella stagione Home Sweet Home. Dal 21 al 25 Febbraio sbarca sulla scena capitolina Ifigenia in Cardiff con l’attrice e performer Roberta Caronia e con la regia di Valter Malosti. (CONTINUA A LEGGERE)

#AnticipAzione: Urania d’Agosto di Lucia Calamaro al Teatro Argot Studio

Una donna matura scocciata, seccata, asociale, accanita lettrice notturna di Urania e fanatica della vita e delle opere degli astronauti, durante un isolatissimo agosto in città, soffre di un’estrema crisi di alienazione e comincia a confondere le cose. Poco a poco il suo spazio interiore, fratturato dall’insonnia, trasformerà lo spazio esteriore in spazio siderale. (CONTINUA A LEGGERE)

#Incontri: Aleksandros Memetaj torna al Teatro Argot dopo la tournée a New York con Albania Casa Mia

Torna a casa, Alexandros Memetaj, dal 16 al 18 Marzo, con il monologo autobiografico Albania casa mia, regia di Giampiero Rappa per la stagione teatrale Home Sweet Home. A due anni dal debutto, dopo aver attraverso tutta Italia e aver fatto tappa oltreoceano a New York, selezionato dal Festival In Scena!, l’autore/attore italo-albanese ritrova al Teatro Argot Studio…(CONTINUA A LEGGERE)

#AnticipAzione: Focus Danza d’Autore dal 27 al 29 marzo al Teatro Argot Studio

Focus Danza nasce dalla collaborazione tra Twain e Teatro Argot Studio, nella volontà di riportare la danza in un teatro storico del contemporaneo. Le tre serate del Focus saranno caratterizzate da lavori la cui ricerca si basa sulle potenzialità di diversi linguaggi, per dar vita a creazioni che divengono manifesto di un mondo fatto di interiorità e pensiero, di ispirazioni che nascono dal corpo e di visioni che diventano forma. (CONTINUA A LEGGERE)

Il teatro e il gelo in Guarda come nevica, la letteratura russa che racconta il presente

Il teatro e il gelo in Guarda come nevica, la letteratura russa che racconta il presente

Della nevosa atmosfera che avvolge i grandi capolavori della letteratura russa si avvale Licia Lanera nella trilogia Guarda come nevica in cui risuona la bufera umana e politica vergata da Cechov, Bulgakov e Majakovskij.
La maestria tecnica di Lanera, accompagnata in un processo autoriale che non si serve bensì si nutre della forte componente sonora tratteggiata dal sound designer Tommaso Qzerty Danisi, è posta al servizio di un nuovo capitolo del suo percorso artistico, scardinando la dimensione biografica e solidificando la denuncia politica. Denuncia che, sedimentata tra le righe dei capolavori degli autori russi del Novecento, risuona nel tempo presente.
In scena con Cuore di cane, primo esito della trilogia, con tre repliche siciliane il 5 novembre presso Zō Centro Culture Contemporanee e il 6 e il 7 novembre a Spazio Franco, con la collaborazione di Rete Latitudini, Licia Lanera porta la forma del romanzo a teatro in un connubio tra radiodramma e concerto. I personaggi narrati da Bulgakov in Cuore di cane , sono tratteggiati nelle posture e nella ricerca vocale tanto cara a Lanera, in un lavoro di selezione e riscrittura più che di riadattamento, aderendo in maniera clamorosamente naturale ai volti che popolano gli affairs politiques del Bel Paese.

Ne parliamo con Licia Lanera, approfondendo Guarda come nevica e Cuore di cane.

Nella trilogia Guarda come nevica, l’atmosfera cupa che caratterizza la letteratura russa viene portata sulla scena. Come nasce l’idea di questo lavoro?

Ho sempre avuto una passione per la letteratura russa. Nelle mie letture disordinate ho intercettato spesso autori russi, a cavallo tra ‘800 e ‘900, e ho decretato che hanno una capacità di scrittura superiore.
Un giorno sono stata contattata da Laura Palmieri che voleva coinvolgermi in uno speciale del suo programma radiofonico, in occasione dell’anniversario della rivoluzione russa. Avevo da poco riletto Cuore di cane con un occhio diverso rispetto a quello della me ragazzina dato che, al tempo, mi era sfuggito il rapporto con la questione sovietica, con Stalin e non conoscevo la biografia così difficile di Bulgakov, così lo proposi a Laura Palmieri. Questa lettura ebbe dei buoni risultati e Walter Malosti mi propose di farne uno spettacolo. 

Intanto, stava prendendo forma l’idea di un lavoro su Eduardo e sul rapporto tra teatro e genio con una serie di attori, ma non ottenni i diritti. Decisi allora di fare un Cechov che ben si abbinava al Bulgakov che era in preparazione e alla successiva aggiunta di Majakovskij: nacque così la trilogia Guarda come nevica che mi ha consentito una riflessione ampia sull’essere umano e sul teatro.

Cuore di cane, il primo spettacolo della trilogia, prende le mosse dal romanzo di Bulgakov. Che tipo di lavoro ha svolto per l’adattamento del testo per la scena?

Per quanto concerne il rapporto con la scena, ho scelto per la trilogia tre generi teatrali diversi. Benché Cuore di cane abbia un carattere fortemente teatrale – di fatto Bulgakov è un uomo di teatro –, si tratta di un romanzo esattamente la forma che volevo portare a teatro. Non ho realizzato un adattamento drammaturgico in cui le descrizioni fossero cassate, mi sono piuttosto ispirata a una mia fascinazione giovanile sul teatro di Ronconi che aveva l’abitudine di chiedere agli attori di fare un’azione descrivendola: l’attore narra ciò che sta facendo e contemporaneamente lo fa o lo agisce emotivamente. 

Ho riscritto alcune parti e ne ho dolorosamente falciate altre perché, quando scegli di lavorare su un romanzo o ne fai un bignami oppure fai delle rinunce a favore di parti di testo che sono più funzionali. Nel mio caso l’interesse è ricaduto sulla riflessione relativa alla giovinezza e sulla parte politica dedicata alla costruzione di un uomo nuovo, del governo del cambiamento composto da politici che hanno molto da dire ma nulla sanno. Una dimensione ruspante, ignorante, un approccio brutale a quella che è la questione politica.

Originariamente era stata immaginata una destinazione radiofonica per Cuore di cane, ciò ha comportato, anche nell’adattamento teatrale, la presenza di una forte componente musicale che permea l’intero lavoro. Che funzione hanno musica e suoni in Cuore di cane?

Cuore di cane è uno spettacolo mio e di Tommaso Qzerty Danisi, alcune parti drammaturgiche si sono plasmate in relazione alla creazione sonora. Si tratta di un mix tra un radiodramma – vengono raccolti alcuni suoni immediatamente raccontati – e un concerto, quindi anche con suoni slegati dalla didascalia che creano atmosfere capaci di determinare il mio apporto recitativa. 

Il fatto che lo spettacolo fosse inizialmente destinato alla radio ci ha fatto puntare sulla componente sonora, rimasta il pezzo forte anche della versione teatrale. Lavoro inoltre con la maschera, un elemento molto forte che annulla la mimica facciale, in qualche modo facilitandomi nel portare in scena 12 personaggi e obbligandomi a lavorare su alcune posture e a spingere la questione vocale all’ennesima potenza. Il lavoro mio e di Tommaso è completamente compenetrato, un dialogo tra due autori che lavorano in modo binario.

Quali sono i punti di contatto tra la società che emerge in Cuore di cane e quella odierna? In cosa ritiene che questo romanzo possa porsi come lente d’ingrandimento del tempo presente?

Nella prima parte del romanzo si affastellano una serie di personaggi ambigui con il mito della giovinezza che ho riportato saccheggiando la commedia becera all’italiana, creando una sfilata di dialetti e personaggi e ridicolizzandoli, nello stile ironico e grottesco proprio di Bulgakov. Una totale presa in giro verso l’ossessione per la bellezza e la giovinezza, attraverso figure ridicole che potrebbero essere totalmente sovrapponibili a quelle di oggi che animano il mondo della tv. Questa forma non giudicante ma profondamente ridicolizzante mi esalta molto, non amando la morale che sta permeando anche molte delle questioni socio-politiche del presente e che potrebbero, nell’intento di preservare certe categorie, scadere nella ghettizzazione. 

Ammiro di Bulgakov la capacità svelare in maniera violenta ciò che c’è da dire sulla società, tanto che i suoi testi sono stati pubblicati postumi: coloro che venivano ritrovati con i manoscritti di Cuore di cane venivano condannati a 20 anni di lavori forzati. Ciò da anche la misura del valore della letteratura al tempo.
Bulgakov mostra una società da tutte le parti è finita l’ideologia. Questo mi interessa molto e mi preoccupa. Oggi, la fine dell’ideologia, il parlare per slogan, l’orientamento del pensiero politico tramite i social network, danno vita a una dimensione di grande superficialità che mi terrorizza. Poi se pensi che queste stesse sono in parlamento…
Secondo me è molto chiaro il rapporto col presente. 

ZONA ROSSA, teatro “casa e puteca”

ZONA ROSSA, teatro “casa e puteca”

Dall’avvento della pandemia, due sono le giornate che hanno segnato il corso degli eventi per il comparto culturale: il 4 marzo e il 24 ottobre 2020. In queste date il sipario del teatro italiano è calato definitivamente. I blocchi dell’attività spettacolare hanno incentivato la proliferazione delle più disparate reazioni artistiche: nel mese di marzo, e in quelli a venire, la creazione artistica si è riversata sul web portando il mondo del teatro a confrontarsi con le possibilità offerte da altri linguaggi.

Con la riapertura dei luoghi della cultura, avvenuta in primavera, gli esperimenti mediali hanno lasciato spazio a fervidi dibattiti sulla preservazione dell’artigianalità del mestiere, minacciato come appare dalla componente multimediale, in assenza del teatro.

La messa in sicurezza delle sale teatrali non ha evitato la seconda chiusura intercorsa nel mese di ottobre. Un duro colpo per l’intero settore che ha saputo unirsi per levare alto un grido di aiuto e di affermazione. A questa seconda fase pandemica, che a differenza della prima consente lo svolgimento delle attività spettacolari purché in assenza di pubblico, il teatro ha reagito dedicandosi al processo creativo, avendo modo di dilatare il tempo della creazione rispetto alle prassi vigenti in epoca pre-Covid. 

In questo contesto si inserisce Zona Rossa, il progetto ideato da Daniele Russo e Davide Sacco, che ha trasformato il Teatro Bellini di Napoli in una bottega teatrale, una casa, abitata da un gruppo di artiste e artisti.

Come in un reality show pensato per il web, le telecamere seguono i momenti quotidiani e il processo creativo portato avanti da Alfredo Angelici, Federica Carruba Toscano, PierGiuseppe di Tanno, Licia Lanera, Pier Lorenzo Pisano, Matilde Vigna, i 6 artisti che porranno fine alla loro permanenza al Bellini solo quando un nuovo DPCM sancirà la riapertura al pubblico dei teatri. Una fuoriuscita che avverrà attraverso la porta principale, il palcoscenico, con lo spettacolo creato durante questo lockdown teatrale.

Adattandosi alla sperimentazione portata avanti dal progetto, Simone Giustinelli e Stefano Patti, ideatori de L’ultimo nastro di Krapp ―  il programma radiofonico che ha dato voce alla crisi del settore durante la quarantena ― documenteranno il viaggio di Zona Rossa con una docuserie in quattro episodi.

Intervistato, Daniele Russo, direttore artistico del Teatro Bellini di Napoli, racconta questo esperimento sociologico dalla grande eco mediatica, con un focus sul report realizzato da L’ultimo nastro di Krapp.

Nella presentazione del progetto Zona Rossa viene definita un’installazione, una performance, una provocazione, un manifesto. A quali delle tematiche emerse nel dibattito sul blocco dello spettacolo dal vivo e sul ruolo della cultura in Italia si rivolge questa provocazione e con quali obiettivi? Quali sono i “punti” di questo manifesto?

Daniele Russo: Zona Rossa nasce dalla voglia di non fermarsi, una voglia che avevamo testimoniato già con il progetto di Piano Be, che ha rappresentato per noi un modo di reinventare la programmazione e l’utilizzo dello spazio. Avevamo cercato una maniera più dinamica di sfruttare al meglio i soli 200 posti agibili contro i 900 di capienza effettiva. 

Zona Rossa è, innanzitutto, un modo per rendere produttivo un tempo potenzialmente morto, in cui mettere in discussione le dinamiche giuste e sbagliate del nostro settore, visibili già in epoca pre-Covid. Alla base di Zona Rossa c’è quindi il pensiero che il teatro si faccia in teatro e a prescindere dalla smania di qualche artista di far valere la propria conoscenza, il proprio nome, riversando il il teatro in altri linguaggi ― perché questo sono lo streaming e la televisione ― e finendo per svenderlo. Noi non ci siamo voluti piegare.

Se poi tra due anni saremo ancora con le sale chiuse, probabilmente anche noi inizieremo a produrre cinema, perché al teatro per il cinema non credo più di tanto. La risposta immediata, nel marzo scorso, fu quella di rendere i nostri spettacoli fruibili in podcast, ritornando alla forma del radiodramma, ma non abbiamo mai messo un nostro spettacolo interamente online. Abbiamo creduto fortemente che diffondere il processo creativo di uno spettacolo teatrale, potesse essere sia un modo per far conoscere qualcosa di poco noto, sia un modo per utilizzare il nostro linguaggio ― che è quello del teatro ―, insieme a quello della tv, dello streaming. 

Zona Rossa è una sorta di programma TV: ci rifacciamo alla regia televisiva, abbiamo utilizzato un altro linguaggio per i nostri contenuti, ma senza cambiare la frontalità, la polvere, l’odore del teatro. Abbiamo semplicemente aperto una finestra su una parte di teatro che il grande pubblico non conosceva e in questo ci siamo sentiti molto aderenti al nostro pensiero. 

Per quanto riguarda l’aspetto produttivo, quando ho presentato il progetto ho sottolineato come, pur essendo alla guida della direzione artistica del Teatro Bellini, ed essendo quindi editori prima ancora che artisti, io e mio fratello non sempre riusciamo a dedicarci ai progetti spettacolari che abbiamo maggiormente a cuore. 30 giorni di prove sono quasi il tempo “ufficiale” da dedicare al processo creativo, ma è un’ufficialità che non può essere adottata in maniera generalizzata, poiché ciascuno spettacolo dovrebbe avere a disposizione il proprio tempo di gestazione

Una maggiore attenzione nei confronti dell’atto creativo è necessaria, invece si è finiti per standardizzare la formula. Zona Rossa è un’operazione a lungo termine: gli artisti hanno intrapreso questo percorso senza un’idea precostituita del lavoro che avrebbero fatto, per cui il tempo andava necessariamente ampliato e non solo per l’azione in sé che è legata al DPCM, ma anche e soprattutto artisticamente. 

Il fatto che il gruppo non si conoscesse, non solo ha allungato ulteriormente il tempo della creazione, ma ha proiettato Zona Rossa, e il teatro tutto, in una dinamica da esperimento sociologico che riporta al centro il concetto di tempo di creazione e la possibilità del fallimento. Il gruppo di Zona Rossa dovrà certamente uscire dalla porta principale, il sipario, con uno spettacolo ma se dovessero fallire nell’idea primordiale, cioè quella di un progetto di gruppo fortemente vissuto, andrebbe bene anche così. Questo è un altro concetto che, per quanto riguarda il teatro, non ci è concesso nell’Italia del numerificio ministeriale. 

Non mi piace parlare di manifesto perché non ho la presunzione per redigere un manifesto, ma credo che le istanze che il progetto porta con sé possano essere condivise da qualunque artista. Legarsi al DPCM è per noi una richiesta di attenzione politica: abbiamo vissuto il primo passaggio del DPCM che ci ha rimandati alla chiusura del progetto entro il 5 marzo, ma tutto ciò è avvenuto senza che si parlasse del teatro. Questa è un’altra istanza presente in Zona Rossa: parlate di noi.

La mediaticità che il progetto ha acquisito è un bene per il settore. Essendoci difesi con i contenuti abbiamo potuto accettare anche l’accostamento che alcuni hanno fatto tra Zona Rossa e il Grande Fratello. 

Il teatro deve avere il coraggio di essere mediatico, popolare rispetto al discorso, non rispetto a quello che portiamo in scena. Dovremmo essere parte del processo, anzi dovremmo essere il fulcro della ripartenza. Zona Rossa vuole contribuire a gridare la necessità del teatro.

Il fatto che gli artisti stiano vivendo un nuovo lockdown a distanza di pochi mesi, rinchiudendosi in teatro con 5 sconosciuti, sacrificando la vicinanza degli affetti in un momento in cui crollano certezze e abitudini, ha proprio lo scopo di riaffermare l’utilità di questo lavoro, non tanto a livello di tutele sindacali quanto di centralità.

Zona Rossa rappresenta una possibilità concreta di coinvolgere l’audience nel processo creativo e di documentarlo. In che misura la presenza virtuale del pubblico nella fase di costruzione dello spettacolo sta incidendo sulla creazione? 

DR: Misurandolo in termini numerici, il progetto sta avendo una grande visibilità. Il mio grande dispiacere è che, pur avendo avuto questa operazione una grande eco mediatica, il teatro non ha la capacità di imporsi sui grandi numeri. Se il coraggio fosse maggiormente diffuso, un progetto come Zona Rossa potrebbe “teatralizzare” molte più persone di quanto non riesca a fare con la forza di un solo teatro. 

Mi rendo conto che il teatro ha importanti potenzialità, per questo annunciai Zona Rossa come un atto di fede e di amore verso il teatro: credo nella forza del teatro e soprattutto di ciò che avviene dietro le quinte, del processo. Il processo attiva la mente, è interessante, incuriosisce, fa viaggiare. Vorrei che la televisione si rendesse conto di questo e che, le rare volte in cui programma il teatro, non si occupasse solo di divi prestati al teatro o di riprese di spettacoli, ma che facesse trasmissioni sul teatro. 

Durante la prima settimana di lavoro, ho suggerito agli artisti di far entrare di più il teatro nello streaming e meno lo streaming nel teatro. Tornando al sotteso discorso sociologico, bisognerebbe lasciare i cellulari all’ingresso del teatro, disconnettersi dal mondo. Da questo punto di vista, il processo creativo è stato inquinato. Occorre tener presente, poi, che da un punto di vista artistico, paradossalmente non siamo abituati a un eccesso di libertà. 

Zona Rossa è un esperimento e io sono convinto che gli artisti faranno un grande lavoro, perché tutti hanno una profonda sensibilità. Il processo resta la parte più importante e più rischiosa di ciò che stanno facendo, perché anche rispetto al settore svelare le proprie modalità creative è una grande responsabilità.

L’avvento della pandemia ha posto nuova luce sulle possibilità dello streaming e dei processi mediali applicati allo spettacolo dal vivo, non senza polemiche. Qual è la tua posizione in merito? L’operazione messa in campo con Zona Rossa è un esperimento che si nutre dell’attualità o vuole rappresentare anche una risposta possibile? 

DR: Sì, vuole sicuramente rappresentare una proposta possibile. Tutti i teatri italiani avrebbero dovuto e potuto mettere in campo quest’operazione, facendole così acquisire una forza maggiore. Ciascun teatro avrebbe potuto definire la propria linea editoriale attraverso la scelta degli artisti coinvolti. Noi non abbiamo inventato nulla. Abbiamo avuto solo il coraggio di credere fortemente che il teatro inteso come mondo e non come semplice restituzione dello spettacolo potesse essere interessante. Invece è ancora dilagante l’idea che il teatro sia lo spettacolo. 

L’incontro tra gli spettatori, l’ascolto della voce reale dell’attore o dell’attrice, l’errore del tecnico o dello scenografo, fanno parte del teatro, sono la vita del teatro e sono il motivo per cui il teatro funziona. Da spettatore, non ho bisogno di vedere un prodotto artigianale inserito in un contenitore industriale ― perché il cinema è un’industria. Nel momento in cui riprendi la parola, il gesto, l’emozione, con una telecamera stai utilizzando un linguaggio che è proprio del cinema, al di là dei modi in cui decidiamo di chiamarlo.

Mi sentirei inadatto, come attore, a trasporre un mio spettacolo per la televisione, perché difendo l’artigianato del mio mestiere. Alternativamente, se si decide di adattarsi allo streaming, occorre pensare a qualcosa che abbia senso a prescindere dal Covid, a un’operazione che abbia una componente tecnica che necessita e che impone lo streaming.

L’ultimo nastro di Krapp è un progetto nato alcuni anni fa, rimodellato e riproposto durante il lockdown per raccontare il blocco del settore culturale, in particolare quello dello spettacolo dal vivo. Come è cambiato il progetto dagli esordi fino al format L’ultimo nastro di Krapp #Homedition?

Simone Giustinelli: L’ultimo nastro di Krapp nasce da un grande senso di solitudine. Nel 2015 avevo deciso di passare un periodo da eremita in un paese della Ciociaria con qualche centinaio di anime. Ero avvolto in questa grande solitudine e lì ho pensato a L’ultimo nastro di Krapp, un programma radiofonico andato in onda per due stagioni.

Stefano Patti: Il tema della solitudine è importante. Abbiamo proprio pensato a un modo per mettere in dialogo le persone tra loro, creare delle connessioni. In un momento come quello del lockdown, non c’era nulla da “valutare” artisticamente, ciò che per noi era davvero importante era parlare degli artisti e lasciare che i critici per un momento ragionassero sulla funzione della critica, mentre noi fossimo indotti a ragionare sulla funzione dell’arte che veniva fortemente messa in discussione. 

SG: Volevamo che in quella trasmissione entrasse il presente. La soluzione che abbiamo trovato, che è qualcosa che un pò ci portiamo dietro anche ora, è stata chiedere alle persone delle cose riguardo ai loro desideri, per sollecitare la capacità di programmare, di inventare il futuro. Quando i problemi diventano molto grandi sembra che il futuro non esista più, mentre il futuro esiste sempre, è l’unica certezza.

SP: Io sono principalmente un attore e il rischio di questo mestiere risiede spesso nel chiudersi nei propri problemi e nelle proprie esigenze, non avendo l’opportunità di confrontarsi liberamente con le diverse professionalità del settore. Con #Homedition abbiamo raccolto diversi sguardi, quello dei direttori di festival, degli organizzatori, dei registi, in questo è stato decisamente illuminante. 

SG: Credo sia necessario riflettere sul valore della costruzione dei legami. All’interno di #Homedition abbiamo anche fatto in modo che delle persone si conoscessero. Alcuni ci hanno detto che grazie a Krapp, durante il lockdown, hanno potuto fare degli incontri imprevisti. Una piacevole scoperta è stata il fatto che abbiamo ospitato persone che si sono assunte la responsabilità del loro ruolo di artisti.

SP: Nel corso delle puntate, L’ultimo nastro di Krapp è diventato una sorta di foyer virtuale in cui, anche dopo la trasmissione, tutti gli ospiti potevano incontrarsi, condividendo degli spunti interessanti, dei principi di collaborazione. Il dialogo è diventato reale quando abbiamo trovato un equilibrio tra la nostra mission, fare informazione creativa, e il preservare una sorta di anarchia rispetto a ciò che sarebbe potuto accadere in puntata. 

#Homedition ha condotto alla collaborazione con festival e teatri per il racconto di eventi e programmazioni: da #Mezzogiornodifuoco, il ciclo di interviste con cui avete approfondito la ripresa delle attività del Teatro Stabile di Catania, a #PianoBe del Teatro Bellini di Napoli interrotto, insieme alla programmazione, a causa della nuova chiusura dei teatri intercorsa nel mese di ottobre. Con Zona Rossa, il Teatro Bellini ha avviato un progetto che indaga il processo creativo, rendendolo fruibile per il pubblico. Come si struttura l’intervento di L’ultimo nastro di Krapp per la narrazione di Zona Rossa?

SG: Dopo la chiusura dei teatri di ottobre abbiamo dovuto ripensare le azioni di Krapp. Da un lato c’era la volontà di continuare un percorso che era iniziato e si stava sviluppando con due strutture importanti come il Teatro Bellini di Napoli e lo Stabile di Catania; dall’altra non potevamo non riconoscere quanto quella seconda chiusura avesse inciso sugli umori e sulle speranze di un intero settore, lasciando tutti noi senza parole. 

Ci è sembrato inopportuno, all’inizio, continuare le nostre attività ― pur se pensate per un ambiente digitale, pur se costruite e sviluppate per una produzione e una fruizione a distanza. Abbiamo parlato con Daniele Russo e con Laura Sicignano e con loro abbiamo deciso di aspettare, e nell’attesa maturare un pensiero più consapevole, una risposta piccola ma decisa all’ennesima mortificazione. È stato il periodo in cui, d’altro canto, abbiamo sostenuto un progetto come Litura, in cui artiste e artisti hanno prestato la loro schiena per guardare con il pubblico la desolazione dei palcoscenici vuoti.

Zona Rossa è poi arrivato improvviso e incendiario come il risveglio di un vulcano. Abbiamo pensato potesse essere l’occasione giusta per ristabilire un contatto con la programmazione del Bellini, con il loro e il nostro pubblico, e un modo per metterci ancora una volta in discussione in termini di linguaggi e modalità di lavoro. La forma che abbiamo scelto è quella del documentario

SP: Tenda e zaino in spalla, siamo andati ad accamparci sul palco grande del Teatro Bellini e abbiamo vissuto per tre giorni con gli artisti residenti, raccogliendo voci, suoni, immagini, momenti di ordinaria follia, di uno dei progetti più unici e accattivanti nati in questo momento in Italia. Nascerà un documentario in quattro puntate, per raccontare, con gli occhi de L’ultimo nastro di Krapp, il progetto di Zona Rossa con i suoi protagonisti.

Per noi si tratta di un formato nuovo, dell’ultima piccola scommessa da teatri in lockdown che abbiamo fatto con noi stessi e che vuole essere il nostro modo per dire che il comparto dello spettacolo è vivo, continua a produrre idee, provocare, edificare. Ci siamo, insomma, nonostante tutto e faremo il possibile per continuare a esserci.

La forza de L’ultimo nastro di Krapp è la capacità di mettere in relazione diverse modalità di fruizione (la radio, il video) e dunque diversi linguaggi mediali con lo spettacolo dal vivo. Qual è, nella vostra esperienza, il rapporto che intercorre tra spettacolo dal vivo, comunicazione e New Media? 

SG: Il rapporto è ancora troppo debole. Con Stefano stiamo cercando di capire come la nostra comunicazione, cioè il racconto dell’Ultimo nastro di Krapp possa diventare sempre più popolare: in Italia ci sono dei media che il teatro non utilizza affatto come il cinema, la sala cinematografica intesa come medium, la televisione, la radio, privandosi di fatto di settori di pubblico. In qualsiasi discorso programmatico di un direttore teatrale sentiamo dire che la stagione vuole essere popolare, inclusiva, orizzontale. 

Questa affermazione, che è molto corretta, ha bisogno anche di un ragionamento profondo su come questo prodotto culturale e popolare, elaborato da una direzione artistica, venga comunicato. Non penso che le storie che avvengono in teatro siano meno divertenti o meno accattivanti di quelle che avvengono in televisione anzi, l’aspetto umano e “analogico” dello spettacolo dal vivo fa sì che il rapporto tra spettatori e scena sia molto più intimo di quello che si crea mediante un prodotto televisivo. Credo che debba essere rimossa la patina di diffidenza nei confronti della comunicazione su ampia scala: questa è la vera sfida per lo spettacolo dal vivo in questo momento.

Black’s Tales Tour al Teatro Argot Studio – Intervista a Licia Lanera

Black’s Tales Tour al Teatro Argot Studio – Intervista a Licia Lanera

Arriva da mondi lontani e oscuri come i ricordi dei racconti delle favole che da bimbi a volte ci incantavano, altre volte invece ci terrorizzavano. Andrà in scena al Teatro Argot Studio di Roma: Black’s Tales Tour, spettacolo in cui cinque fiabe classiche – la Sirenetta, Scarpette rosse, Biancaneve, La Regina delle Nevi e Cenerentola – vengono spogliate della loro parte edulcorata e consolatoria e presentate in tutta la verità della loro versione autentica. Per la rassegna DPBLACKMIRROR  all’interno della stagione Home Sweet Home l’attrice e regista Licia Lanera – Premio Ubu come miglior attrice under35 nel 2014 –  e fondatrice, insieme a Riccardo Spagnulo, di Fibre Parallele, firma una scrittura originale che racconta incubi notturni e storie di insonnia, per parlare di alcune donne, delle loro ossessioni, delle loro manie, delle loro paure.

“Arriva un tempo che è quello della notte. Arriva un tempo in cui dal tuo letto escono draghi e sirene, vecchie dal naso adunco e giovani spose, principi azzurri e maghi, gatti parlanti e serpi mozzate. Arriva un tempo che è pericoloso per chi non dorme, perché i pensieri si affastellano e strane creature ti vengono a trovare. Per me, che soffro d’insonnia, tutte le notti arriva un tempo magico e inquieto e questo tempo, per una sera, voglio condividerlo con gli spettatori. Travestita da icona pop, prendo in giro me stessa: la star. La star decomposta, la reginetta depressa. Arriva un tempo in cui racconto fiabe, o quello che ne resta, a suon di musica elettronica. Arriva un tempo in cui le fiabe che conosci da sempre sono una scusa per dire di te. E dici ciò che mai, altrimenti, avresti avuto il coraggio di dire”.

 

Licia Lanera

 

Quali fiabe ascoltavi da bambina e quali erano le tue preferite?

Nessuna, per questo sono un mostro! Ho un vago ricordo dei dischi con le Fiabe Sonore, quelle che iniziavano con la sigla “A mille ce n’è nel mio cuore di fiabe da narrar…”, e di una videocassetta Disney della Bella Addormentata, perché mi è rimasta impressa la voce che ripeteva “Tocca il fuso! Tocca il fuso!”, ma di qualcuno che mi leggesse le fiabe a letto non ho un ricordo, proprio zero assoluto. Infatti il primo step di Black’s Tales, dal titolo “Licia legge le fiabe”, in cui leggevo fiabe inquiete nei letti degli spettatori, era proprio un riscatto cattivo della mia vita.

Nel tuo Black’s Tales Tour non si riescono a trovare aggettivi per i principi e la disperazione delle protagoniste che si esibiscono in una danza grottesca, strappando improvvise risate nella tragedia. Cosa diresti alla Sirenetta, a Cenerentola, alla matrigna di Biancaneve, a Karen di Scarpette rosse e alla Regina delle nevi, se potessero ascoltare i tuoi consigli?

Questa è una bellissima e difficilissima domanda, perché le eroine sono loro e quindi dovrebbero essere loro a dare consigli a me. A Cenerentola consiglierei di fare una vacanza da sola. È un’esperienza in cui ti ritrovi con te stessa e scopri anche i lati meravigliosi della solitudine, il piacere dell’autonomia selvaggia. Così sarebbe anche più svincolata da quel principe un po’… un po’… un po’ così.
Alla Sirenetta, più che di uccidere il principe, consiglierei di non barattare un pezzo di corpo per un’altra persona e direi anche che non vale la pena di morire per amore, se non si ha la certezza della resurrezione.
Alla matrigna di Biancaneve che cosa devo consigliare? Di guardare oltre lo specchio. È il consiglio che do anche a me stessa, ma è molto difficile da seguire.
A Karen di Scarpette rosse consiglierei di dirottare l’attenzione anche su qualche maglione, su qualche vestito… È quello che faccio io per evitare che l’ossessione per le scarpe mi porti alla rovina.
Alla Regina delle nevi non ho niente da consigliare: quella sa il fatto suo.

Cosa chiederesti alla Strega del Mare e qual è la cosa più preziosa che saresti disposta a cederle in cambio?

Darei una parte della mia carriera in cambio di una famiglia che mi accompagni fino a quando sarò vecchia. Una parte, non tutta, eh! Che poi magari divento una casalinga… 

Foto di Rosaria Pastoressa

Alla fine dello spettacolo componi la scritta “eternità”, una parola che dici di non saper scrivere. Di questo lavoro così effimero, di quest’arte che non resta, cosa vorresti sopravvivesse al tempo? Cosa vorresti che si dicesse di te e di Fibre Parallele, tra venti anni?

Eternità è una parola legata all’arte: noi non siamo eterni ma l’opera d’arte, se di valore, sopravvive. Ogni artista ha ovviamente il sogno di restare nella memoria storica dell’arte non dico mondiale, ma almeno del proprio paese. Tra vent’anni mi piacerebbe essere nella memoria emotiva delle persone, sapere che un incontro a teatro con me per alcuni spettatori è stato qualcosa che magari non ha cambiato loro la vita, ma ha segnato un momento, un percorso. Quello che mi interessa è parlare alle persone, parlare dell’Uomo all’Uomo: se ci sono degli uomini che ricordano affettivamente quello che io ho fatto e che loro hanno visto, questo mi va bene, se non per l’eternità, almeno per i prossimi vent’anni.

Sei stata scelta come madrina degli UBU 2017: incubi ricorrenti nelle tue notti più o meno insonni, in attesa del 16 dicembre?

No, ero molto tranquilla. L’unico attimo di vertigine è stato quando ho cantato una canzone: non sono una cantante, accanto a me sul palco c’erano musicisti veri e avevamo fatto una sola prova, ma poi me la sono giocata, divertendomi. Mi sono anche data il microfono sui denti, è vero, ma non avevo alcuna ansia da prestazione: fare uno spettacolo è ben più impegnativo, ero lì con una tale leggerezza! Poi io dovevo solo leggere, Oliviero aveva il compito più complicato, invece io stavo lì e facevo la soubrette, che è un ruolo in cui mi sento totalmente a mio agio!

C’è un autore, classico o contemporaneo, su cui avresti tanta voglia di lavorare?

Sì, vorrei lavorare su Eduardo, ma non mi danno i diritti e mi viene da piangere per questo. È un desiderio forte che chissà se mai realizzerò. Intanto ci sono tanti altri autori su cui ho voglia di lavorare e su cui lavorerò.

 

Licia Lanera - The black's tales tour

Licia Lanera – The black’s tales tour

THE BLACK’S TALES TOUR

scritto, diretto e interpretato da Licia Lanera
sound designer Tommaso Qzerty Danisi
scenografia Giorgio Calabrese
costumi Sara Cantarone
light designer Martin Emanuel Palma
regista assistente Danilo Giuva
ph. Luigi Laselva

Produzione Fibre Parallele/Licia Lanera
Spettacolo realizzato con il sostegno di Residenza IDRA e Teatro AKROPOLIS nell’ambito del progetto CURA 2017 e di Contemporanea Festival/Teatro Metastasio 2016
DURATA 60′

 

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