L’umanità in bilico tra ombra e buio, incontro con Alberto Fumagalli e Ludovica D’Auria de Les Moustaches

L’umanità in bilico tra ombra e buio, incontro con Alberto Fumagalli e Ludovica D’Auria de Les Moustaches

Recita un vecchio proverbio che «quando il sole è al tramonto le ombre dei nani si allungano». L’autore è ignoto, ma il significato di questo adagio è evidente. Nel momento del declino, quando le qualità morali vengono meno, iniziano contemporaneamente ad imporsi i mediocri, elevandosi a grandi uomini o grandi donne. Non sarebbe e non è corretto individuare i “nani” come gli unici responsabili di questo “crepuscolo” che è la metafora della decadenza. Ognuno di noi, senza ombra (termine quanto mai appropriato) di dubbio può diventare il responsabile più o meno diretto di tale processo. A volte per debolezza o per indifferenza, ma anche per vigliaccheria o per opportunismo. E in generale tutte le volte che non si contrastano le cattive abitudini o la corruzione, si diviene inevitabilmente complici di un inesorabile disfacimento, come il lento prosciugarsi di un lago.  

«Io detesto i laghi – esordisce così Alberto Fumagalli, autore, attore e regista della compagnia Les Moustaches – luogo domenicale di coppie destinate allo spegnersi della fiamma dell’amore». In questa affermazione “fuori onda” è contenuto il senso dell’incontro con Fumagalli e Ludovica D’Auria. L’occasione è stata quella di parlare della loro ultima produzione teatrale, L’ombra lunga del nano, ma anche di fiabe, di amore e altre oscenità. In senso più o meno figurato.

«Tutto ha avuto origine con quella che è stata come una grande storia d’amore – dichiara Ludovica D’Auria. Da subito, da quando ho letto il testo, la prima stesura che Alberto aveva realizzato, mi sono innamorata del personaggio di Neve. Lei mi piace tantissimo perché è dolce, ha delle caratteristiche di debolezza e di fragilità. Nello stesso tempo è una donna molto frustrata. In alcuni momenti è capace di rivelare tutta la sua ferocia estrema e il suo incredibile cinismo, cose che me la fanno amare. 

Mi piace molto il doppio aspetto che ha e che la rende tridimensionale. E soprattutto è estremamente divertente da interpretare. Entrambi i personaggi modificano il loro status, le loro vite a secondo della presenza o meno dell’altro. Per la crescita dello spettacolo è stato fondamentale il percorso e la relazione che si è creata tra personaggi e attori. Io e Claudio Gaetani siamo riusciti ad avere fiducia reciproca e questo ci ha permesso di stare sul palco insieme».

Olo e Neve sono marito e moglie. La loro vita coniugale è peggiorata e sono crollate, una ad una, le aspettative sul loro rapporto di coppia. Lui è un operaio geloso, affetto da nanismo. Lei è una donna depressa e una moglie insoddisfatta, tormentata dal tempo che passa. I due personaggi si realizzano nel colpevolizzarsi a vicenda sui loro fallimenti, anche se rimane inalterato il loro legame di appartenenza e di dipendenza reciproca.

Alberto Fumagalli precisa che: «L’ombra lunga del nano nasce da un regalo di Ludovica, un bellissimo libro che ora appartiene alla mia collezione personale: Le fiabe del focolare dei fratelli Grimm. All’interno di questa raccolta c’è, ovviamente, Biancaneve, insieme a tanti altri racconti con i quali mi sono già scontrato nel corso del tempo. Ho riflettuto molto sulla figura di Biancaneve e su come è stata tramandata e raccontata in chiave Disney; rappresenta l’esempio di una non emancipazione femminile. Una relazione sociale alla cui base c’è uno scambio tra cucinare, pulire e rattoppare i vestiti, da un lato, e, dall’altro, ricevere in cambio un tetto e un posto caldo dove abitare e dormire. Da questo passaggio, da questa lettura sul presente che contiene il maschilismo e la condizione della donna, abbiamo voluto alzare il tiro attraverso il filtro e il tema del fiabesco, portando la narrazione verso qualcosa di più».

Una fiaba (moderna), non una favola, sottolinea Alberto Fumagalli: «Dove riecheggia un’assenza, una non necessità di morale, e dove c’è l’elemento fondamentale che è quello del magico, del surreale che attraverso il meccanismo teatrale porta la lettura della quotidianità, superandola. L’ombra lunga del nano avrebbe potuto svilupparsi come il rapporto tra un marito e una moglie che non si amano più, raccontato con una forma dialogica che è lo specchio della realtà. Tutto ciò non avrebbe suscitato in me alcun interesse. 

Il passaggio a teatro, secondo la mia opinione, consiste nel riuscire ad aumentare il filtro del fiabesco e a potenziare la condizione della realtà. Ci sono alcuni elementi della fiaba che mi appassionano e che sono quella condizione radicale dell’essere profetici, estremamente semplici e comprensibili ma al tempo stesso violenti. La fiaba è molto elementare, ma è piena di violenza e, dunque, di vita, di verità, pur essendo non vera».

Fumagalli ricorda Raymond Carver con il suo libro Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, individuando le “Tre A” (aria, acqua e amore) come un trittico vitale. «Spero e credo che ci sia l’amore in tutto quello che faccio, che facciamo. Anche al di fuori dell’attività teatrale. C’è una frase biblica di San Giovanni Della Croce  che è diventata l’epitaffio della tomba di mio nonno. “ Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore”. Ciò che conta è avere amato. Lui che è stato un uomo molto silenzioso mi ha fatto conoscere questa parola essenziale, amore, e questa citazione che condivido parecchio». 

L’ombra lunga del nano
Les Moustaches

Ph Francesco Bondi

Ci sono due livelli di diversità che vengono utilizzati nella drammaturgia de L’ombra lunga del nano. Il primo è una condizione dell’aspetto fisico, un elemento di partenza che viene superato nell’evolversi del plot e dello spettacolo. «La diversità si supera nel momento in cui si vanno ad utilizzare ed esaminare gli aspetti umani – afferma Alberto Fumagalli. Ci si può affezionare a Olo e al tempo stesso detestarlo, senza pietismo, credo che questo accada anche con Ciccio Speranza (il protagonista de La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza, ndr). 

Partire dalla diversità per superarla, per dimenticarla, credo che sia la cosa più bella che possa esistere. Raccontare la storia di un essere umano che ha un corpo diverso significa raccontare esclusivamente il bello e il brutto di un essere umano. Io credo che sia questa la caratteristica molto forte e potente della nostra compagnia, Les Moustaches e lo abbiamo voluto raccontare durante il nostro percorso».

Il secondo livello è quello rappresentato dall’ombra, intesa come «Una proiezione sia buona, ma, in particolar modo cattiva di quello che siamo – prosegue Fumagalli. È un altro “io”, un altro “noi”. Ciò che proiettiamo, come se fuoriuscisse dalla nostra interiorità senza che possiamo averne il pieno controllo, senza che possiamo vederla. L’ombra di Peter Pan è quasi una forma di coscienza. Scappa da lui e si ribella alla sua anima già ribelle. Al tempo stesso la possibilità che da un nano, confinato nella sua piccolezza da un punto di vista fisico, si riesca a proiettare qualcosa di gigantesco, il suo opposto, questa cosa mi ha molto affascinato, mi ha spinto a ordinare la creazione fino a farlo diventare un racconto, una fiaba».

Olo non è l’unico a proiettare la sua ombra, in un certo senso anche Neve ne possiede una, la sua antagonista invisibile: Mariapia Bonaiuti, «La donna idealizzata, tutto quello che avrebbe voluto diventare e non è diventata – dichiara Ludovica D’Auria. La Bonaiuti è il simbolo di tutte le sue frustrazioni. Noi ci confrontiamo spesso con la vita e i successi degli altri, al punto che ho notato che il pubblico è come se si riconoscesse in questi meccanismi, in una forma di invidia collettiva. C’è una battuta alla quale sono molto legata. Olo prima di uscire di casa dice a Neve che è fortunata e la donna rivolge una considerazione a sé stessa. “Fortunata? Fortunata di cosa? Vorrei proprio sapere chi ha il coraggio di dire che sono fortunata. Sarà Maria Pia Bonaiuti dell’ottavo piano a dire queste cazzate, quella zozzona che ancora piange raccontando del marito morto in guerra, che nel palazzo la chiamano la moglie dell’eroe. È saltato su una mina! Allora adesso non è che tutta la gente distratta può diventare un eroe”. Per me questa battuta è stupenda perché solo una donna frustrata può tirare fuori tanta cattiveria ».

Olo, tuttavia, scopre che mediante la sua ombra può diventare un gigante e utilizza questa scoperta in modo scorretto. Neve si innamora della proiezione di suo marito, senza sapere a chi appartiene quella figura enorme. Arriva a tradirlo con l’immaginazione e in quel tradimento, in quella scena di sesso solitario riecheggia il crepuscolo, il declino. In quel momento di tristezza e di opacità affiora la sensazione di un contatto fisico con il buio che presto divorerà l’ultimo quantum di luce. Lo sguardo cercherà di memorizzare freneticamente, per l’ultima volta, l’ombra visibile di Olo e quella invisibile di Neve. Si allungano entrambe, fino a quando verranno inghiottite dal buio. Senza pietà.

“Non temo niente, non spero niente, sono libero”, intervista ad Alberto Fumagalli

“Non temo niente, non spero niente, sono libero”, intervista ad Alberto Fumagalli

Alberto Fumagalli
Alberto Fumagalli

Poco più di un anno è passato dalla vittoria del premio Miglior Spettacolo al Roma Fringe Festival. Era gennaio, era La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza, era la compagnia Les Moustaches, erano altri tempi. In gioco c’era anche un po’ della loro storia, le storie delle loro vite. 

Diplomato attore all’Accademia Stap Brancaccio di Roma e laureato in Scienze dei beni culturali all’Università degli Studi di Milano, Alberto Fumagalli scrive per il teatro e l’audiovisivo. Ha partecipato come drammaturgo al progetto Les Clinique Dramaturgiques nell’ambito del festival europeo Short Theatre. È stato finalista al Premio Hystrio, attore in diverse tournée teatrali, cantautore per il gruppo musicale Cane Maggiore.

Quello con Alberto Fumagalli, oggi, è un incontro che rinnova le tracce e i sapori di un caffé letterario. Dissertazioni filosofiche ed esistenziali senza essere filosofi o artisti maledetti. In un ritrovo tecnologico e in una sera di febbraio, si è realizzata la perfetta armonia tra Il vecchio e il Mare di Ernest Hemingway e Il giovane Holden di J.D. Salinger. E nel raduno si sono aggiunti Nikos Kazantzakis ed Eva Cantarella. Un necessario soffio di anticonformismo e di eretica utopia che abbatte qualche muro, ma contemporaneamente costruisce un ponte verso la bellezza.

Parafrasando la celebre opera della Letteratura americana, Il vecchio e il Mare di Hemingway, il nostro potrebbe essere l’incontro tra Santiago e Manolin. Ti riconosci nell’anziano pescatore con gli occhi che “avevano lo stesso colore del mare, allegri e indomiti” o nel giovane discepolo, amico e affezionato? Sei l’uno, sei l’altro, entrambi o nessuno dei due?

Andando oltre il dato anagrafico, non avendo più un’età con il numero due iniziale, scelgo sicuramente il vecchio. Tendo a non credere nella figura del maestro, confido nel fatto che esistano incontri più o meno luminosi. Credo che affidarsi alla figura di un ipotetico saggio sia il grande male dell’uomo moderno contemporaneo, soprattutto del lavoratore dello spettacolo, dell’arte. 

Mi permetto di parlarne in quanto è il campo dove “zappo la terra”, metaforicamente parlando. Ritengo che non esistano più i saggi, i maestri; esistono le persone, delle fonti di ispirazione ma non dei riferimenti, secondo me. Il mio è un punto di vista che non vuole essere assolutistico

La vita di un autore, attore e regista tra sconfitte e tante piccole morti… Hemingway scrisse: “Un uomo può essere distrutto ma non sconfitto”. Come hai vissuto tutto questo?

La citazione è molto azzeccata perché cade proprio a pennello, accompagna – secondo me – la quotidianità di chi come me ha scelto o forse si è ritrovato dentro questo mestiere bellissimo o mestieraccio. Sono propenso a esorcizzare il concetto dell’autore, dell’attore maledetto, pazzo, che arriva al punto di strapparsi il cuore. Anche questa ritengo che sia una sopravvalutazione, ognuno deve parlare per quello che sente e che prova

Penso che la colpa non sia del singolo del soggetto, ma di un sistema zoppo, bizzarro, egoista che non dà la possibilità a chi fa questo mestiere di farlo veramente e, quindi, in certi giorni arrivi a sentirsi il nuovo Jimenez, il nuovo Coelho oppure il nuovo Galliazzo – citando alcuni degli autori che mi solleticano.

In altri giorni, invece, ti senti una nullità perché non hai un consistente rapporto con la società. Sentirsi come un parassita della società è una sensazione molto brutta, ma accomuna molti lavoratori dello spettacolo. C’è chi, come me, si pone la domanda: uno scrittore, uno che si occupa e che studia le parole, a chi deve chiedere dove e come lavorare? Questa è una domanda che distrugge i miei pomeriggi, le mie giornate. Non solo per poter andare in scena all’Argentina piuttosto che all’Elfo Puccini.

Non c’è neanche la consapevolezza di come si scrive una fiction televisiva. Di come far domanda alla Rai, per una serie web, per poter scrivere, per poter vivere di quello che siamo capaci di fare, di quello per cui abbiamo studiato. È sicuramente un’inclinazione molto soggettiva, la tua citazione tuttavia ha aperto un mio canale di sconforto e di entusiasmo. Il segreto è sempre quello di trovare l’equilibrio. C’è un verso di Nikos Kazantzakis che mi ha colpito molto perché è un po’ una forma di raggiungimento della calma, dello zen e recita: «Non temo niente, non spero niente, sono libero». 

Noi non siamo liberi, chi fa questo mestiere è schiavo di qualcosa che non c’è, di un padrone inesistente. Posso avere l’idea più bella del mondo ma se non ho qualcuno che mi permetta di renderla tangibile, di darle una dignità, noi non siamo niente, non siamo nessuno.

Salinger ne Il giovane Holden scrive: «Si capisce subito quando i ragazzini ce l’hanno con voi. Non ridono, niente da fare». Si delinea un mondo diviso in due macro categorie che non comunicano più tra di loro, non si mescolano. Gli adulti e i giovani vivono assorbiti in un contesto di insoddisfazione, di rabbia e allora sono più diversi o simili tra di loro? 

A me non interessa tanto fare riferimenti personali, nel senso di alimentare l’ego mania dell’autore che parla sempre e solo di sé. C’è un’altra riflessione molto bella, un punto di vista sviluppato nel saggio Non sei più mio padre di Eva Cantarella che ho appena finito di leggere e che raccoglie proprio questa considerazione, portandola indietro fino alla notte dei tempi.

Il continuo conflitto tra le diverse generazioni, il vecchio e il nuovo che non si capiscono a vicenda e quindi non c’è mai un vero dialogo tra di loro. Sicuramente è cosa buona raccontare perché noi viviamo tutto questo oggi, un sentire nutrito da una linfa rabbiosa, che noto sia da parte del giovane sia da parte dell’anziano. 

Il primo non ha più il coraggio di essere sé stesso. Questa è una cosa che mi fa arrabbiare: rincorrere la speranza di diventare velocemente adulto. Sposarsi, avere un figlio, una casa con un divano, diventando docili e accoglienti. Io credo che non debba essere una caratteristica del giovane questo tendere verso l’anzianità quando si è giovani, per poi rimpiangere la giovinezza quando la si è persa. Ogni generazione è divorata da una rabbia continua da involuzione della specie.

Il tema del sogno è sempre presente e ricorrente, lo sottolinea Hemingway in un passaggio: «In cima alla strada, nella capanna, il vecchio si era riaddormentato. Dormiva ancora bocconi e il ragazzo gli sedeva accanto e lo guardava. Il vecchio sognava i leoni». Quali erano i tuoi sogni?

Ho sempre sognato tanto, come probabilmente racconta anche Ciccio Speranza, il nostro ultimo spettacolo. Il sogno è la benzina al motore delle nostre giornate. I miei sono sempre stati dei sogni giganteschi, anche un po’ fuori portata. Alla fine dei conti credo di aver sognato sempre un palcoscenico. All’inizio era quello calcistico, quando giocavo. Subito dopo, c’è stato quello dello spettacolo. Penso che ci sia una parte egocentrica o comunque molto viva in ogni persona che fa il mio mestiere e, al tempo stesso, il grande sogno di poter cambiare qualcosa. Qualcosa che cresce contemporaneamente con la persona. I cambi della vita trasformano anche i sogni. 

La carriera può essere determinata da un colpo di fortuna, dal cognome che porti o dal carattere che è un veicolo formidabile per conoscere, per entrare nei circuiti del meccanismo. Credo di non avere mai avuto la pazienza adatta nella preparazione, per arrivare a essere inattaccabile. È una cosa che ho constatato e ho capito nel corso del tempo. Tanto la formazione, l’allenamento, quanto una certa solidità permettono di fare dei passi in avanti. Bisogna fare un lavoro molto antropologico: conoscere esattamente il contenitore ed esserne il cuore, il contenuto pulsante.  

Holden Caufield, per mano di Salinger recita così: «Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando. È una cosa che odio. Che l’addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no, ti senti ancora peggio». Quanto tristi o brutti sono stati i tuoi addii, al teatro o nella vita?

Credo che l’addio sia necessario, lo è anche per poter rinascere, per ricominciare, per respirare. La vita a un certo punto inizia a prendere una direzione, è come seguire un filo rosso. Che sia l’amore, il lavoro o l’amicizia, quello è il percorso principale. Penso di aver detto addio, di aver lasciato almeno una cinquantina di fili rossi. Come una sorta di Ulisse io vivo l’impossibilità di dire addio verso la mia casa. 

Sono nato a Fara Gera d’Adda, che è un po’ la Spoon River del Nord Italia, abitata criminali, puttane, farisei, angeli, demoni, preti, bigotti, c’è di tutto. Un ambiente che surclassa Roma perché c’è una densità di umanità gigantesca. Io non sono mai riuscito a dire addio a questo posto, andavo a Roma ma poi tornavo lì per coltivare la mia compagnia. Ho fatto il pendolare per cinque anni. Mi sono innamorato di una ragazza di Roma ma non mi sono mai trasferito là a viverci. 

Il cordone ombelicale dei miei affetti non mi molla. Si dice che è fondamentale morire a casa propria e credo che sia una frase molto bella. La morte, inoltre non è solo quella del corpo, ci sono tante piccole morti nella vita e ogni volta si rinasce, si ricomincia. Dopo aver vissuto un fallimento che cosa si fa? Si torna a casa, sempre. Io non piango mai sul divanetto che ho qui a Milano, per esempio. L’addio è fondamentale, il grande distacco non l’ho mai cercato, forse, non ho alcuna intenzione di farlo.  

Cosa non abbiamo capito o fatto nostro, cosa si può fare con quello che c’è oggi, a teatro?

Il concetto chiave di questa domanda, secondo me, è legato a una risposta che non devo dare io, da un punto di vista teorico. Ci si dovrà assumere la responsabilità nella rinascita. La storia insegna che una ripresa, un risveglio avviene – retorica a parte – dopo una disfatta, una distruzione. 

Non si può negare che quello che abbiamo vissuto sia stato un anno devastante e ancora adesso stiamo vivendo questa realtà tragica. La risposta deve essere consapevole, non ci si può nascondere dietro niente. Questo è quello che noi ci aspettiamo dal teatro di domani più che da quello di oggi. Io spero che il teatro possa rinascere ed essere nuovo e coraggioso e che soprattutto esista, poiché adesso è morto.

Confrontandoci con la Francia, la Germania, la Spagna, l’Inghilterra, la Svizzera si evince che siamo indietro anni luce per coraggio, per pazienza, per ricerca della bellezza. La maggior parte delle nostre rappresentazioni riguardano autori che sono morti o autori che riescono a entrare in un piccolo e ristretto giro. Serve un atteggiamento responsabile, l’ammissione del fallimento, una presa di coscienza verso il positivo. Il che vuol dire ricercare, dare fiducia perché per creare bellezza ci vuole del tempo, sempre, e questo coefficiente non viene mai dato. 

Bisogna lasciare che la nuova drammaturgia abbia un posto in cui potersi esprimere in modo libero. Questo secondo me sarà fondamentale ed io lo attendo. Spero veramente ci possa essere una rinascita perché laddove dovesse ricominciare tutto con i monologhi o gli spettacoli che costano milioni di euro significherebbe continuare qualcosa di vecchio. Significherebbe essere poco coraggiosi, pavidi. 

Ritorna, in conclusione, Hemingway e il marinaio Santiago il quale elabora una lucida riflessione: «Nel buio, e senza luci in vista e senza chiarori, e soltanto col vento e la spinta regolare della vela, gli parve di essere già morto, forse. Congiunse le mani e si tastò le palme. Non erano morte e gli bastava aprirle e chiuderle per risuscitare il dolore della vita». È possibile o immagini si possa resuscitare dal dolore della vita?

Gli scrittori tendono sempre a scrivere le loro più grandi opere partendo dal dolore. Affidandosi alla scrittura, rimangono in vita partendo dal dolore dei loro rapporti distruttivi con il padre, con la madre. Questa è una scorciatoia, quasi un alibi, un tabù che vorrei superare. Sono queste cose che allontanano questo mestiere dalla sua possibile universalità, dalla sua dignità. La mia risposta, legandomi alla tua domanda, è sì. Si può rinascere da una morte, io ho avuto tante micro morti nella mia carriera o quantomeno nella mia vita, un po’ come il serpente che cambia la pelle. Non ho più le gioie, gli interessi di quando avevo diciotto anni, ne ho altri. 

Il teatro supera qualsiasi arte, il cinema, la televisione, è talmente gigantesco che non permette paragoni o confronti. Noi di Les Moustaches siamo in fase di ricerca, stiamo ricercando il nostro modo per poter raccontare e capire il nostro Teatro, probabilmente sarà una ricerca lunghissima. Altra cosa per me importante è il fatto di aver abbandonato qualsiasi forma di laboratorio teatrale. Prima di fare un corso teatrale bisogna ricercare tanto, altrimenti è un’associazione a delinquere. 

C’è una mancanza di dignità del mestiere, già il nostro sistema scolastico non permette di fatto di inserirsi con facilità nel mondo del lavoro. Il fatto che non lavoriamo, che non esistiamo come drammaturghi piuttosto che come lavoratori, come ricercatori dello spettacolo, è sintomo che il Teatro non esiste nel nostro Paese. Un errore di coscienza che riguarda ciò che effettivamente è il Teatro e quali sono le sue potenzialità. Come Compagnia teatrale, questo è ciò che ci spinge a fare un passo indietro per cercare poi in futuro di farne due in avanti. È il nostro obiettivo.

La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza: Intervista a Les Moustaches

La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza: Intervista a Les Moustaches

«Le aspettative erano molte, cercavamo da tanto tempo una risposta positiva perché, dopo aver lavorato a lungo sul nostro progetto, per noi era una tappa importante, anche per riprendere fiato». Ludovica D’Auria riassume così la “difficilissima storia” della vita di una giovane compagnia teatrale, Les Moustaches, vincitori del premio miglior spettacolo del Roma Fringe Festival con La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza.

La menzione recita che il riconoscimento viene assegnato: “Per la compiutezza del lavoro, per l’innovazione di una lingua, per l’equilibrio dei rapporti tra gli attori, per una regia accurata che ha saputo costruire anche con pochi elementi scenografici un’opera suggestiva ed evocativa del contesto poetico della storia”.

La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza – Les Moustaches

Sul palco del Teatro Vascello, Ludovica D’Auria, regista dello spettacolo insieme ad Alberto Fumagalli, ha presentato gli attori Francesco Giordano, Giacomo Bottoni e Antonio Orlando. Insieme a loro erano presenti anche Giulio Morini, direttore di scena che ha realizzato anche i costumi e Tommaso Ferrero che si è occupato di luci e suoni. 

È un periodo favorevole per Alberto Fumagalli e Ludovica D’Auria, i quali hanno recentemente vinto anche il Milano Off Fringe Festival con l’opera Il giovane Riccardo. Nel suo discorso durante la premiazione, ringraziando la giuria, D’Auria ha ricordato che i tre premi ricevuti nella serata del 24 gennaio rappresentano una vittoria dal sapore speciale. Tutte le difficoltà incontrate durante il percorso sono state superate grazie alla perseveranza e alla tenacia di un gruppo solido che non ha mai smesso di credere nella validità e nella forza di questo progetto. E, come testimonia Ciccio Speranza, sognare rappresenta una possibilità, per tutte le donne e gli uomini, in qualsiasi tempo e contesto sociale. 

Iniziamo la nostra intervista con una riflessione a posteriori sulla vittoria del Roma Fringe Festival 2020 e sul vostro  spettacolo La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza

Ludovica D’Auria:  Ricevere una conferma dall’esterno è un obiettivo importante che volevamo raggiungere. La nostra vittoria al Roma Fringe Festival è stata come un’iniezione di sicurezza, di stima e di certezza sul lavoro. Ci ha dato tanta adrenalina e la voglia di ricominciare a lavorare.

Alberto Fumagalli: Questo spettacolo non porta soltanto la firma di un drammaturgo, di un regista, di un direttore di scena o un tecnico delle luci. È firmato da una squadra, senza la quale non si va da nessuna parte. È la capacità di remare nella stessa direzione, l’essere tutti convinti del progetto da portare in scena. Con Giacomo Bottoni, Antonio Orlando e Francesco Giordano è stato un amore a prima vista. Loro erano i profili perfetti per interpretare i tre personaggi. Ci siamo sentiti telefonicamente, li abbiamo visti in scena, c’è stata una condivisione molto umana e una simpatia immediata. A loro ho dato le chiavi della mia macchina: il nostro è stato un corteggiamento molto veloce prima di innamorarci per tutta la vita.

“La campagna è un compito, una tradizione, un volere di Dio”. In questa battuta c’è l’essenza dello spettacolo?

Alberto Fumagalli: Volevamo raccontare la campagna lombarda, un luogo non così vicino dalla città, dalla metropoli. Una periferia poco descritta, poco conosciuta. Se nasci lì, in una fattoria della mia provincia, ti viene assegnato fin dalla nascita un compito, che è quello di portare avanti il corso di quella fattoria. Dal coltivare la frutta e gli ortaggi, all’allevamento del bestiame. Sembra una cosa un po’ retrò, ma esistono ancora luoghi così che non hanno tanti microfoni. Per questo noi, con un certo orgoglio, abbiamo voluto narrare una periferia che è raccontata poco. Faccio un esempio: Suburra e Gomorra sono periferie lontane dal cuore della città, però hanno una visibilità che rivela la loro esistenza. I luoghi che noi abbiamo portato in scena, invece, non hanno microfoni né telecamere. Sono un po’ come L’albero degli zoccoli, però esistono e ci sono tante persone che gravitano intorno a quel micromondo. 

Il concreto e l’astratto, la fame e la speranza, scandiscono il passaggio dalla vita alla morte?

Alberto Fumagalli: La speranza è sicuramente il filo conduttore, oltre a essere il cognome dei tre personaggi. Aggancia il correre delle stagioni, dall’estate sfortunata con la moria delle bestie e un caldo molto pesante, fino all’autunno molto generoso. La speranza appartiene a tutti e tre, ma solo uno di loro ha anche qualcosa in più, ovvero un sogno.

Ludovica D’Auria:  Secondo me più che di un passaggio si tratta di una convivenza, nello stesso momento, della vita e della morte che è anche una costante, una caratteristica peculiare della fattoria. Noi, a proposito di questo, abbiamo fatto un’esperienza molto bella, siamo stati ospiti di una famiglia di contadini che abita a dieci minuti da dove abita Alberto, avendo la possibilità di vivere la vita di campagna. 

Giacomo Bottoni:  Si è trattato di vedere come realmente lavorano, capire che tipo di sensibilità hanno quelle persone. Come affrontano quella linea sottile tra la vita e la morte: abbiamo assistito alla nascita di un vitellino. Per noi era una cosa meravigliosa, per loro era normale come lo era il fatto che, il giorno dopo, lo stesso vitellino sarebbe andato a morire. Quella normalità delle cose ci ha aiutato a capire i sentimenti di quelle persone, il legame con la terra, il loro modo di lavorare. E quanto la vita e la morte siano importanti per ognuno di loro, perché mandano avanti la storia.

La ricerca di tre attori con differenti fisicità ha favorito e implementato l’utilizzo del corpo come vettore di linguaggio espressivo?

Ludovica D’Auria: Cercavamo delle fisicità molto precise e le abbiamo ritrovate in maniera perfetta nei nostri tre attori che hanno incarnato altrettanti personaggi molto diversi l’uno dall’altro. 

La regia è molto fisica sia per l’ambientazione del nostro spettacolo sia per le modalità di sviluppo e di lettura da parte del pubblico. Ogni attore ha realizzato il suo percorso a seconda delle caratteristiche del personaggio. Pian piano, durante le prove, ognuno ha trovato il modo di esprimere al meglio la propria fisicità in connessione con le energie che venivano portate all’interno dello spettacolo. Il lavoro fisico più specifico è stato fatto su Ciccio, Francesco Giordano, che doveva confrontarsi con il ballo, qualcosa che non aveva mai fatto fino ad allora. All’inizio cercavamo delle coreografie che a livello di emozioni, di sensazioni portavano pochissimo perché non avevamo davanti un ballerino, ma un attore. Abbiamo capito che Francesco/Ciccio doveva trovare dentro di sé la sua danza e quindi il “moto”, per capire come il corpo può liberare quel che si prova. 

Francesco Giordano: Il percorso per trovare le movenze è stato meraviglioso. Siamo partiti con l’idea di una coreografia che però ha un po’ ingabbiato i movimenti. Con Ludovica ci siamo interrogati a lungo su quello che volevamo esprimere. L’idea è stata quella di trovare una modalità di comunicazione con la gestualità di un attore: recitare con il corpo. La danza è un linguaggio che mi ha sempre affascinato, ma non mi appartiene perché non sono mai stato un danzatore. Io e Ludovica abbiamo fatto le prove in una fredda biblioteca per ragazzi di Fara Gera d’Adda. Ci sono stati momenti molto belli, di abbandono e di fiducia. Mi sono sentito libero di poter esprimere quello che volevo dire con il mio corpo. Non avevo avuto la possibilità di poterlo fare, da attore, fino ad allora. È stata la mossa vincente. La volontà di non avere uno schema definito consente al pubblico di trovare una chiave di lettura ogni volta diversa. Trovo interessante che il livello di comunicazione del corpo possa essere diverso da quello della parola. 

La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza – Les Moustaches
Foto di Simona Albani

Come avete costruito e caratterizzato i personaggi di Dennis, Sebbastiano e Ciccio Speranza?

Antonio Orlando: Costruire il personaggio di Dennis è stato abbastanza complicato. È talmente scritto bene che io credo di aver capito il 75% di quelle sue profondità che sono ancora tutte da scoprire. Grazie alla distribuzione del prossimo anno con il premio del Fringe, avremo modo di conoscere meglio Dennis. Le bellissime didascalia scritte da Alberto sono state un fondamentale punto di partenza per me.  “Entra Dennis, sembra una scimmia scema, ma è soltanto Dennis”. Questa è una delle prime e già racconta molto. Osservandomi intorno mi sono reso conto che l’80% della popolazione cammina con i piedi divergenti, in particolare le persone che fanno lavori fisici. Dennis ha i piedi così, è un personaggio che è sottoposto a sforzi estremi e ha in sé questo retaggio. Tutto ciò che viene fuori da lui sono risposte agli impulsi degli altri personaggi. È un giovane uomo che ha in sé sia la tenerezza di Ciccio, sia le convinzioni del padre. 

La campagna è un dovere, così come tutte le circostanze che orbitano intorno a quel luogo e alle persone che lo abitano. Poco prima del debutto, ci è stata data l’indicazione di non sposare questi personaggi, di trattarli come dei carnefici, sono tre uomini che involontariamente si fanno del male a vicenda: da Ciccio che libera la collezione di lucciole di campo, a Dennis che dice al fratello di rimanere e non realizzare il suo sogno, per finire con Sebbastiano, il quale nonostante capisca l’ambizione del figlio gli ricorda che l’unica strada da seguire è il dovere. Questi personaggi, seppur mossi dalla volontà di fare del bene, finiscono per ferire e intrappolare.

Giacomo Bottoni: Per me è stato molto difficile avvicinarmi ed entrare nel personaggio di Sebbastiano. Credo di essere una persona buona che cerca sempre di dare agli altri e di ricevere, mi piace condividere. Sebbastiano è molto più duro perché la vita lo ha indotto a crearsi una sorta di corazza: prima a causa dell’abbandono della moglie, poi per la responsabilità di mandare avanti una famiglia crescendo due figli maschi. È un uomo che deve fare il padrone, ha un ruolo preciso e delle responsabilità, anche per questo non intende mostrarsi mai debole agli occhi dei figli. Sebbastiano per me è stato importante perché mi ha fatto ritrovare qualcosa che da piccolo avevo vissuto: anch’io vengo dalla campagna, sono marchigiano, mio nonno ha fatto il contadino. La difficoltà che ho avuto, invece, deriva dal fatto che mio nonno era l’esatto contrario di Sebbastiano. Lui è stato una persona fondamentale per me; se sono arrivato a fare questo mestiere è stato grazie a lui che era un cantore, amava stare al centro dell’attenzione. Volevo regalargli qualcosa, nonostante fosse completamente diverso dal mio personaggio. Ho cercato di trovare qualche tratto fisico, qualche somiglianza: con la camminata zoppicante, la durezza nei movimenti, ho cercato di ricordare mio nonno che aveva delle mani grandissime. Questo è uno spettacolo che permette ogni volta di trovare qualcosa di nuovo e di diverso perché dentro ci sono tanti sentimenti, tante emozioni

Francesco Giordano: Come attore ho sempre interpretato ruoli molto potenti, per me lavorare in sottrazione è stata una possibilità enorme. In realtà, è togliendo che si aggiungono più cose di se stessi all’interno di un personaggio. Abbiamo lavorato sulla figura di Ciccio ricercando la leggerezza di un bambino, l’ingenuità. Questa è stata la chiave che abbiamo trovato insieme, definendo le caratteristiche, recuperando il disincanto di credere realmente ai propri sogni, alla possibilità di danzare. Non pensando da adulti, ma da bimbi. All’inizio è stato un po’ un trauma fare a meno di tutte le mie certezze attoriali, a partire dalla timbrica vocale. Poi però ci siamo sciolti, si è trattato di un lavoro che abbiamo fatto insieme preparando lo spettacolo in residenza. Abbiamo vissuto come una famiglia per più di dieci giorni, condividendo il sonno, il cibo, le risate. 

Ci sono state delle tappe intermedie, nella definizione dello spettacolo,  dai giorni della residenza al debutto alla Pelanda con il Roma Fringe Festival?

Alberto Fumagalli:  Dalla residenza alla Pelanda ci sono stati diversi passaggi. La storia di Ciccio Speranza si è un po’ cicatrizzata, come accade spesso ai lavori delle giovani compagnie. Il tentativo di sbarcare il lunario passa attraverso i festival, i bandi e le residenze. Ma, di volta in volta, il vincitore può essere solo uno. Bisogna costruirsele da sé queste possibilità. Grazie al comune di Fara Gera d’Adda, alla mia meravigliosa famiglia formata da mamma, papà, fratello e cani abbiamo realizzato la possibilità concreta di aprire le porte di una comunità, una piccola Woodstock sulle rive del fiume Adda dove gli artisti possono incontrarsi e ricercare. Siamo passati attraverso diversi Festival, con le loro regole e i loro meccanismi, da cui si rischia di uscirne provati. È successo che siamo arrivati fino in fondo e poi non siamo stati scelti per la cartellonistica della stagione. In altri contesti, siamo arrivati in semifinale ma poi sono state premiate altre compagnie. Alla fine è arrivato invece il riconoscimento e il premio del Fringe che ha fatto molto bene alla nostra compagnia. C’è stato un percorso di abbattimento totale per poi rinascere. Da un punto di vista drammaturgico, ho avuto un momento di grande blocco. Dalla prima scrittura alla forma definitiva, a mio parere, i testi devono superare almeno una dozzina di stesure. Quando abbiamo fatto una delle prime letture nella mia cucina tutti insieme, più che ascoltare le battute io guardavo le facce degli attori. Ricordo di aver detto a Ludovica di essermi sentito nel pieno di una crisi creativa che è stata risolta con una mossa molto intelligente, quella di collaborare con un giovane fotografo, Matteo Buonomo. È stato proprio lui, con i suoi ritratti, a mostrarmi come erano i personaggi e da lì ho capito che il testo sarebbe andato verso un’altra direzione. La pazienza, lo spirito di ricerca, la conoscenza sono caratteristiche che fanno parte del nostro gruppo artistico e ci hanno permesso di superare tutte le difficoltà. 

Giacomo Bottoni:  Un giorno Alberto ci ha chiamati tutti e tre perché era un po’ preoccupato. Voleva capire delle cose, cancellare tutto quello che avevamo fatto fino ad allora. È così grande la fiducia che nutro per lui che non mi sono spaventato nemmeno per un secondo. In quella circostanza gli ho risposto di togliere tutto e ricominciare perché credo che le porte in faccia che abbiamo preso siano servite. La pazienza che abbiamo avuto nell’aspettare il momento giusto ci ha permesso di realizzare qualcosa in cui abbiamo tutti creduto. Da noi attori, ad Alberto e Ludovica, a Giulio Morini, Tommaso Ferrero e lo stesso Matteo, il fotografo, che è stato con noi una settimana e che è entrato a far parte di questa grande famiglia, il cui punto più alto è rappresentato da Nives e Fulgenzio, i genitori di Alberto. Due persone che sono state fondamentali per le nostre vite e per lo spettacolo. Fara Gera d’Adda è ormai una seconda casa. Tutto questo ha evidenziato e rafforzato sempre di più la fiducia tra di noi. 

DRAMMATURGIA: La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza di Alberto Fumagalli

DRAMMATURGIA: La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza di Alberto Fumagalli

“La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza“, prodotto dalla compagnia bergamasca Les Moustaches, si è aggiudicato il premio di miglior spettacolo al Roma Fringe Festival 2020 e il premio della stampa nonché il premio Alessandro Fersen per la ricerca e l’innovazione.

Introduzione al testo

Lo spettacolo, con la drammaturgia di Alberto Fumagalli e la regia di Ludovica D’Auria e dello stesso Fumagalli, ha come protagonista Ciccio Speranza, un ragazzo grasso ma leggero con un’anima talmente delicata, che potrebbe sembrare quella di una graziosa principessa nordeuropea. Ciccio vive in una vecchia catapecchia di provincia dove si sente soffocare, come una fragile libellula rosa in una teca di plexiglass opaco. Ha un sogno troppo grande per poter rimanere in un cassetto di legno marcio: vuole danzare.

Attraverso un linguaggio inventato, poetico ed ironico nel suo impasto di dialetti viene evocata una famiglia di provincia schiacciata dalla sua marginalità sociale, da un immobilismo drammatico e contemporaneo. La famiglia Speranza vive da generazioni le stesse lunghissime giornate. Sebbastiano è il padre di Ciccio, violento e grave come un tamburo di pelle di capra in un concerto di ottavini. Dennis è il fratello di Ciccio, con un’apertura mentale di uno che va a Bangkok e spacca tutto perché non sanno fare pasta, patate e cozze. Solo, in fondo, nella sua fragilità, Ciccio vuole scappare da quel luogo che mai ha sentito come casa. Attraverso il suo gutturale linguaggio, il suo corpo grassissimo e il suo sogno impacciato, non smetterà mai di danzare, raccontando la sua vita così come la desidera. Ciccio appartiene ad un mondo lontano, senza alcuna possibilità di esaudire il proprio sogno. Il suo destino è segnato, il suo carattere è condizionato, la sua vita è soffocata da un ambiente che gli sta stretto come un cappottino antigelo sta stretto ad un bulldog inglese. Dunque, perché rattrappire i propri istinti? Solo perché la cicogna ci ha fatto cadere lontano dalla terra promessa? Perché sentirsi schiacciati da una famiglia che non vuole conoscere un mondo che sta oltre il proprio campo di fagioli?

> Leggi il testo integrale “La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza

Alberto Fumagalli:

Alberto Fumagalli è nato a Treviglio (BG) nel 1990. Si diploma all’Accademia STAP Brancaccio di Roma. Dopo la laurea in Scienze dei beni culturali (Università degli Studi di Milano), fonda la “Compagnia Teatrale Les Moustaches” per cui firma drammaturgia e regia degli spettacoli. Fra gli altri: Il Giovane Riccardo (spettacolo selezionato per il festival di Avignone 2020 – vincitore Milano Fringe festival 2019), La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza, Il Presidente (finalista Bando Testinscena).

Compagnia Les Moustaches:

La compagnia Les Moustaches nasce e cresce a Fara Gera d’Adda nel 2012, sulle rive del melmoso fiume bergamasco. Fondata da Alberto Fumagalli, tra zanzare, campi di grano e feste del patrono, la compagnia ha preso vita, forma e speranza. Il piccolo nucleo iniziale è aumentato dopo l’incontro e il confronto con altri giovani artisti, provenienti da tutta Italia, formatisi in differenti discipline artistiche nelle maggiori accademie del territorio. Un evidente meticciato culturale, si fonde nei nostri recenti spettacoli, attraverso lo scambio, il dialogo, il confronto, l’unione, in una ricca fattoria artistica. La compagnia Les Moustaches durante la stagione teatrale 2018/2019 ha raggiunto la fase finale del Premio Scenario con lo spettacolo/studio “La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza”. Lo spettacolo viene selezionato per il Roma Fringe Festival 2020 dove vince Miglior spettacolo, Premio della Stampa e Premio Fersen per l’innovazione e la ricerca. Con il testo “Il Presidente” la compagnia è finalista del bando Testinscena 2019 Fondazione Claudia Lombardi per la città di Lugano, tra le sei migliori drammaturgie originali. Les Moustaches vincono il primo premio del Milano Off Fringe Festival2019 con lo spettacolo “Il Giovane Riccardo” e rappresenterà l’Italia al Festival internazionale di Avignone durante il mese di luglio 2020.