La poetica di un cantore dell’animo – Intervista a Leonardo Capuano
A Roma dal 21 al 24 maggio, presso lo spazio Fonderia 900, Leonardo Capuano terrà un seminario sul monologo come condizione scenica-creativa e come forma teatrale. Una possibilità espressiva che, oltre a mettere a disposizione ad ogni nostro tentativo questa o quella convenzione, ci dà la possibilità di agire al di là di quel che ritenevamo possibile come attori. Abitare la scena da soli implica il non accontentarsi, ma obbliga a spingersi più in là. Così il lavoro dell’attore ha modo di manifestarsi in direzioni non previste, ma proficue e a volte eccezionali.
Le giornate di lavoro saranno indirizzate alla creazione di alcuni dei monologhi tra quelli scritti dai partecipanti, mettendo in evidenza le diverse fasi che compongono il lavoro. La scelta dei monologhi da mettere in scena sarà determinata dalle peculiarità teatrali che i testi offrono e dal tempo a disposizione.
Leonardo Capuano, portatore di un teatro rigoroso e accurato e di una visione personale della profondità dell’animo umano e delle sue contraddizioni, si è rivelato al pubblico nella duplice veste di attore ed autore con vari monologhi, quali La cura, che debutta al festival di Volterra nel 2000, Zero Spaccato (2003 e ripreso nel 2017), La sofferenza inutile (2012) e Elettrocardiodramma (2013). Nel 2003 crea con Renata Palminiello Due, presentato in diversi festival di teatro tra i quali Volterra, Inteatro (Polverigi), Santarcangelo, Inequibilbrio (Castiglioncello). Nel 2004 con l’attore Roberto Abbiati crea Pasticceri, spettacolo che ha realizzato numerose repliche, ottenendo un ottimo successo di pubblico e critica e che ancora oggi è nei teatri italiani. Ha lavorato con Alfonso Santagata negli spettacoli Ubu Re e Terra sventrata; con la compagnia Lombardi -Tiezzi ne Gli uccelli di Aristofane; con il regista Pietro Babina in Ritter Dene Voss, Il libro di Giobbe e con Annalisa Bianco in Bilal. Da diversi anni lavora stabilmente con Umberto Orsini e conduce seminari sul lavoro dell’attore con un approccio legato alla fisicità del gesto e della voce.
Nel 2017 inizia la collaborazione con il regista Alessandro Serra come protagonista di Macbettu, insignito del premio ANCT 2017 e del premio UBU 2017 come miglior spettacolo dell’anno.
come È avvenuto il primo incontro con il teatro?
È stato abbastanza casuale il mio incontro con il teatro: il teatro mi piaceva perché sono cresciuto con le commedie di Eduardo in televisione, una modalità che mi affascinava molto. All’inizio per me era solo una possibilità poi così per gioco con degli amici che avevano anche loro interesse per il teatro abbiamo iniziato a scrivere delle cose per vedere se riuscivamo a farle, ma con molte difficoltà perché non eravamo capaci. Avevamo vent’anni verso la fine degli anni ’80 a Firenze. Ci piaceva molto ridere e all’inizio volevamo fare teatro comico, solo che le cose erano abbastanza poco credibili e per far sì che io potessi sviluppare una tecnica e imparare a fare questo mestiere mi sono iscritto alla Scuola di formazione teatrale Laboratorio Nove che ho frequentato per tre anni, dove mi sono diplomato.
Quali sono state le figure di riferimento nel mondo del teatro?
Studiando naturalmente ho avuto maestri teorici: Kantor, Grotowski, Peter Brook e poi ho avuto la fortuna di lavorare con Alfonso Santagata dal quale ho imparato alcuni segreti di questo mestiere e poi ho studiato molto da solo: in sala a provare e a rivedere che cosa fosse questo mestiere e imparare da me. Ho imparato molto da me; poi una volta capite alcune regole di questa professione mi è capitato di lavorare con dei bravi attori dai quali ho imparato altro. Umberto Orsini è uno di questi, è un mio grandissimo amico ma è anche un mio maestro.
Mi è sempre piaciuto il lavoro che ha fatto Danio Manfredini quando ero ancora ragazzo, vedevo i suoi spettacoli e mi piacevano molto. Mi piaceva molto anche il lavoro della Societas Raffaello Sanzio. Io quando ho cominciato a lavorare sono stato subito preso nella compagnia della scuola e da lì sono scappato via nel momento in cui mi sono reso conto che non era quello che volevo. Volevo fare delle cose mie e la scelta è stata quella di lavorare da solo per creare il mio teatro senza sapere se ci sarei riuscito anche perché all’epoca non avevo garanzie. Era quello che speravo di fare facendo l’attore e piano piano ci sono riuscito.
Rispetto alla dimensione autoriale dei tuoi spettacoli, qual è il processo di creazione che ti vede solo in scena?
Dipende da come vanno le cose. La maggior parte delle volte non so su cosa lavorerò, altre volte mi è capitato di lavorare su un testo perché ho deciso che quello fosse il testo che mi interessava in quel momento o su del materiale letterario perché mi interessavano alcuni argomenti ma il più delle volte quando inizio un lavoro non so su cosa lavorerò. Vado in sala, scrivo e improvviso e capisco di cosa si tratta, quali sono le cose che si stanno rivelando all’interno del processo che sto facendo.
Dopodiché valuto se il materiale che può essere interessante prevalentemente per me e poi per un pubblico che possa disturbarsi per venirlo a vedere. Se vedo che ci sono le possibilità che questo possa essere interessante continuo fino a cercare di concludere con un’opera teatrale. Lavoro da solo perché mi piace farlo ed è la mia cifra. Poi mi capita di incontrare o di essere chiamato perché ho tanti amici e c’è qualcuno che mi stima che mi chiede di collaborare e se vedo che il progetto è interessante e giusto, collaboro anche con altri come in questo momento.
Quindi quando sei in sala prove come percepisci la temperatura e la validità del materiale che stai creando essendo regista di te stesso?
Ormai sono tanti anni che lavoro in questo modo, ho imparato come ci si sta e quali sono le stagioni del lavoro e i percorsi che affronto o che mi si presentano. So benissimo che quando sto creando del materiale se quella cosa è sorprendente per me può essere sorprendente per qualcun altro; se non è così per me, è evidente che non mi interessa e l’accantono. Dopodiché quando ho un certo quantitativo di materiale sia di testo sia di situazioni che più o meno sono embrionali chiamo delle persone di cui mi fido e faccio vedere il materiale su cui sto lavorando e chiedo dei pareri rispetto a quello che vedono, facendo delle verifiche sul lavoro che sto facendo per capire quello che sembra agli altri. Se le sensazioni sono le stesse vuol dire che sto procedendo sulla strada giusta e vado avanti.
Nel tempo si fanno delle verifiche per capire se tutto sta procedendo bene, perché uno si può anche sbagliare ovviamente però il metro che utilizzo mentre sto lavorando è che se una cosa sorprende me e in qualche modo la considero unica allora le attribuisco molto valore. Dopo tanti anni è chiaro che quando lavori su uno spettacolo nuovo, il testo e gli altri elementi devono essere di un livello superiore rispetto a quello che hai già fatto sia rispetto alla performance d’attore sia rispetto all’intenzione di far quadrare lo spettacolo sia i linguaggi sia la forma e anche la scrittura.
Quali sono i valori e i significati che attribuisci al tuo lavoro di attore?
Per me il palco è casa mia. Essendo casa mia sono io a determinare le regole. Ed è il posto dentro il quale posso poter dire e poter fare tutto quello che nella vita non mi è consentito, quello è lo spazio per poter dar forma a tutto ciò che vedi e che senti: è un modo di parlare di sé o di far parlare chi non ha voce. Faccio l’attore perché non sono capace a fare altro (ride ndR) e perché il teatro mi possiede ed è il teatro che mi muove, è quella forza che all’interno di quel rettangolo mi dà il vigore che occorre per poter cercare di fare questo mestiere come si deve.
quali sono le intenzioni e le emozioni che cerchi di comunicare al tuo pubblico? Che tipo di accordo hai stabilito con chi ti viene a guardare in teatro?
Credo che ci sia un legame – poi non so se effettivamente è così – di grande onestà o perlomeno io cerco di innestare questo genere di contatto col pubblico, cioè in quel momento è come se io fossi il tramite fra la possibilità teatrale e l’animo del pubblico. In questo caso è come se decidessi di dare tutto te stesso per far sì che quelle parole, quei gesti e quelle situazioni possano parlare a un livello di coscienza un po’ più profondo e che possano aprire dei varchi all’interno dell’animo di chi guardo. Questo è fondamentale.
Io sono capace di potermi sdoppiare e vedere tutto quello che faccio, soprattutto quando lo spettacolo sta andando in via di definizione per mettermi dalla parte del pubblico e osservare quello che è lo spettacolo chiedendomi se andando a vedere uno spettacolo come quello io mi divertirei o mi annoierei a guardarlo perché poi quando faccio uno spettacolo io sono il primo spettatore di me stesso.
Rispetto alla situazione economica e produttiva del teatro italiano, quali sono i cambiamenti che hai registrato da quando hai iniziato a fare teatro fino a oggi?
La situazione rispetto a quando ho iniziato è una catastrofe: prima c’era grande curiosità, nonostante non ci fosse tutta questa comunicazione e possibilità di scambiarsi dati, informazioni e video mi sembra che ci fosse un’urgenza diversa. Questa è la sensazione che ho, forse si era meno evoluti dal punto di vista tecnologico ma con un livello di febbre rispetto alla possibilità di iniziative e di anche di gruppi che saltavano fuori e cercavano di farsi strada che in questo momento mi sembra non esserci.
Adesso si fa tanta fatica. Tutti noi per poter lavorare facciamo dei gran salti mortali, prima non era assolutamente così. Ho avuto la fortuna di lavorare con ottimi attori che stimo e magari capitava di fare tournée di cinque o sei mesi, adesso è una cosa che non esiste più. Se sei fortunato e lavori in quelli che oggi chiamano “Teatri Nazionali” magari ci sta che tu possa fare trenta repliche – se ti va di lusso. Ci sono spettacoli nati e già pronti a morire senza nessun seguito, è come se non avessero più la capacità di lasciare il segno nel tempo.
Laboratorio sul monologo a Roma a cura di leonardo capuano. Quali sono i saperi e le tecniche attoriali che cercherai di trasmettere?
Avendo fatto tanti monologhi ho imparato abbastanza bene di cosa si tratta, qual è il percorso che si deve fare. L’idea di questo laboratorio nasce perché io lavoro prevalentemente così e se devo insegnare – come in questo caso – vorrei passare le competenze che ho maturato in questi anni facendo questo genere di percorso. Questo è il motivo per cui faccio il lavoro sul monologo. Cerco di far sì che delle persone che decidono di partecipare a questo laboratorio possano cominciare a rendersi conto di cosa si tratta e che è possibile cercare la propria strada ovvero provare a scrivere dei testi e a capire in che modo questi testi possano comunicare qualcosa di molto interessante e far vedere loro che è possibile poter pensare di realizzare il proprio teatro avendo la possibilità di dire ciò che si desidera dire. Questo garantendo loro la mia totale collaborazione e cercando di passargli quello che è il mio credo all’interno di questo lavoro e facendoli lavorare su più livelli e mostrando loro quello che è il lavoro dell’attore. Vorrei, inoltre, mostrare quello che è il lavoro della scrittura e quello che è il lavoro del montaggio e della possibilità registica all’interno di un proprio scritto.
in che modo un giovane ragazzo o una giovane ragazza possono assecondare il proprio istinto di fare teatro e capire se sono adatti a svolgere questo lavoro con professionalità e talento?
Se un attore può fare o meno questo lavoro lo si può rilevare soltanto con la possibilità di provare ad attraversare il teatro, altrimenti è impossibile; io credo che nell’essere umano ci sia questo genere di peculiarità perché tutto ciò che si manifesta intorno a noi è una sorta di rappresentazione. Un conto è farlo nei termini della propria esistenza, del proprio presente e del proprio agire e un altro conto è studiare come si fa e prepararsi per essere pronti a farlo. Penso che il lavoro dell’attore sia davvero impegnativo per cui bisogna volerlo diventare ardentemente. Penso che innanzitutto ci sia bisogno della volontà di diventarlo considerate tutte le difficoltà che ci sono da attraversare per poterci riuscire perché è un lavoro che ti devi guadagnare. È un lavoro molto rischioso perché ha delle caratteristiche di instabilità: può capitare che rimani anche un anno senza lavorare, purtroppo sia gli attori sia i registi sono precari da sempre. Detto questo credo che chi vuole fare questo mestiere deve avere veramente voglia di farlo perché ha un rischio di fallimento davvero molto alto e non tutti sono pronti a correre questo pericolo.
Esistono dei valori morali, artistici e culturali che dovrebbero avere le giovani leve e che vorresti trasmettere loro durante il laboratorio?
Sicuramente essere molto esigenti rispetto al proprio lavoro e avere una cultura del lavoro molto alta, una grande onestà e nessun genere di presunzione. Io non sarò lo stesso dopo aver finito con il Macbettu perché è normale che sia così, quando fai questo mestiere migliori spettacolo dopo spettacolo. Questa è la zona in cui gli attori si muovono e procedono, l’egocentrismo e la presunzione sono cose che a me non interessano. L’attore cerca di garantire con il massimo dell’onestà di fare il proprio mestiere al meglio: quando vado in scena so che pretendo da me stesso di svolgere il mio lavoro nel miglior modo possibile e deve essere una garanzia. Quando mi è capitato di lavorare con altre persone di un certo livello è naturale che il valore del tuo lavoro deve essere sempre molto alto ed è a questo che devi ambire. Solo così migliorerai quello che fai, se continuerai sempre a fare le stesse cose è chiaro che oltre a quelle il tuo panorama è abbastanza ristretto. Questo è quello che penso io.
Redattore