La visione del mondo e le fragilità umane: intervista a Marco Morana

La visione del mondo e le fragilità umane: intervista a Marco Morana

Leggere i testi di Marco Morana è un’esperienza immersiva. Rapida come un salto. Imprevedibile come un volo. La sua carriera come drammaturgo è iniziata al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dove si è formato come autore. La scoperta della passione per il Teatro è avvenuta, invece, molto tempo prima, nella terra in cui è nato. Un incontro fondamentale è stato quello con Michele Perriera, scrittore e regista, direttore della casa editrice Sellerio, tra i fondatori del movimento letterario di neoavanguardia Gruppo 63. Perriera ha diretto, dal 1997 al 2005, la Scuola di Teatro del Comune di Marsala. 

Marco Morana
Marco Morana

Due sono le opere di Marco Morana che hanno ottenuto riconoscimenti importanti e grande visibilità. Le scoperte geografiche è la prima, spettacolo finalista dell’XI edizione del Premio delle Arti Sceniche Dante Cappelletti. Virginia Franchi ne ha curato la regia per le repliche al teatro dei Filodrammatici a Milano e al Brancaccino a Roma. 

Stormi, il secondo testo, è stato segnalato al premio Hystrio-Scritture di Scena e ha vinto l’edizione 2019 del concorso InediTo di Torino. È  stato presentato al pubblico dello Spazio Banterle di Milano, il 2 dicembre del 2019, durante il secondo appuntamento dell’evento  Il copione,  promosso dall’associazione Situazione Drammatica  fondata da Tindaro Granata, Carlo Guasconi e Ugo Fiore

In questa intervista, Marco Morana dà un’anticipazione sul suo prossimo lavoro, Biografia dell’inquietudine e approfondisce alcuni dei temi che caratterizzano la sua drammaturgia: dalla percezione del tempo, alle relazioni umane, passando per una visione atemporale del Teatro,  il luogo privilegiato dove vengono stimolate le riflessioni critiche e personali, le azioni e le reazioni delle persone. 

Con il testo Stormi hai vinto il premio InediTo e sei stato segnalato al premio Hystrio – Scritture di scena. Ci racconti quest’esperienza?

Stormi è nato dalla lettura di un articolo sul caso di Vincent Lambert, molto conosciuto in Francia, simile a quello di Eluana Englaro. Dopo un incidente motociclistico, Lambert ha vissuto dieci anni in uno stato post-vegetativo. Non era attaccato a un respiratore ma non riusciva ad alimentarsi da solo. C’è stato un acceso dibattito sulla possibilità di interrompere l’alimentazione forzata, scaturito dallo scontro legale tra la madre, che voleva tenerlo in vita, e la moglie, che invece voleva condurlo a una morte serena.

In quello scontro ho visto un grande potenziale drammatico e anche l’occasione di mettere in crisi la mia posizione personale sulla vicenda. Volevo portare sulla scena un dilemma.Il testo ha poi avuto una lunga gestazione e credo che non parli solo del fine vita, ma dell’impossibilità di ridurre, di considerare una verità senza comprendere anche il suo opposto. Di questi tempi siamo abituati a dividerci in schiere. Le opinioni si polarizzano su tutto in modo reattivo, vuoto. Per me sfuggire alla prigionia di una verità è fondamentale nel processo di scrittura.

Il testo si è sviluppato ed è stato costruito all’interno di NdNNetwork drammaturgia nuova, un percorso di residenza artistica promosso da Idra con 16 partner fra realtà teatrali nazionali. Successivamente è stato presentato e letto nel corso dell’evento Il Copione, promosso dall’associazione Situazione Drammatica

Il tuo prossimo lavoro, Biografia dell’inquietudine, ha tratto la sua origine dall’opera di Pessoa. C’è un filo rosso che unisce e accomuna tutti i tuoi testi?

È difficile rispondere a questa domanda, non credo sia possibile essere del tutto consapevoli del proprio lavoro. Direi che un elemento ricorrente è proprio l’impossibilità di ridurre la verità a una sola verità.Ne Le scoperte geografiche, il mio primo testo, racconto una storia d’amore fra due uomini attraverso tre incontri, tre fasi della vita.

Un personaggio è più consapevole del proprio orientamento sessuale, l’altro meno, ma il fulcro del testo non è il coming out quanto la considerazione che entrambi danno a quell’amore. I due vivono due “storie” diverse, si nutrono di due interpretazioni differenti di quella passione, e per questo restano fondamentalmente lontani. E nella terza parte, ormai vecchi, si chiedono cosa sia stato quel sentimento mancato, si interrogano sul suo senso.

Biografia dell’inquietudine è un “dis-adattamento” teatrale de Il libro dell’inquietudine di Pessoa, uno dei tanti impossibili adattamenti di quel meraviglioso zibaldone in cui l’autore portoghese, attraverso il suo semi-eteronimo Bernardo Soares, alterna pensieri, aneddoti pseudo-autobiografici. Nel mio testo, Bernardo, il protagonista, si lancia dalla finestra e muore. Avendo squarciato il velo della vita, comincia a raccontarci la sua biografia a ritroso, dandoci l’illusione che grazie a quel racconto sia possibile afferrare il senso del gesto estremo.

Biografia dell’inquietudine
Biografia dell’inquietudine

Come si è sviluppato il tuo processo di formazione e come sei arrivato alla scrittura?

Ho cominciato ad avvicinarmi al teatro attraverso la recitazione e grazie all’incontro con un uomo visionario, un grande pedagogo, Michele Perriera. Immaginavo per me un percorso di attore, ma quando sono stato preso alla Scuola del Teatro Stabile di Torino ho sentito che dovevo rifiutare. Avevo vent’anni ed è stata una scelta strana, che non ho mai capito fino in fondo. Tutti sognavano di entrare in una scuola prestigiosa, e anche una parte di me lo desiderava. Credo sia stato un istinto.

Mi sentivo in apnea. Quando finalmente ho cominciato a scrivere è stato come se avessi respirato attraverso un altro naso. Può sembrare un po’ romantico, ma mi sono sentito proprio così. Dopo un po’ ho frequentato il corso di sceneggiatura del Centro Sperimentale di Roma, un’esperienza che mi ha messo in crisi perché è difficile trovare una propria libertà nella scrittura per il cinema, almeno nella grande maggioranza dei casi.

Molti sceneggiatori sono abituati a fare dei ragionamenti funzionalistici. Tutto deve funzionare, non si possono correre molti rischi. E quando si rischia è per una motivazione superficiale, come la volontà di essere originali o di rompere qualche presunto schema. Mi ritrovo di più nell’intimità e nell’artigianalità della scrittura teatrale.

Uno degli elementi che caratterizza la tua cifra autoriale è la contemporaneità di un livello alto e di un livello basso nella scrittura. Ti riconosci in questa descrizione?

Questo aspetto c’è, è vero. Nei miei tre testi e nei racconti cerco spesso di mescolare diversi registri linguistici, di proporre una rottura dello stile. In effetti, non ha più molto senso parlare di canoni. L’assurdo che proviene dalla televisione e soprattutto da internet mi colpisce: la ripresa di un bombardamento di civili può avere le stesse visualizzazioni di un video di qualcuno che fa la permanente al suo porcellino d’India. Il discorso spettacolare è così, ed è quello che più ci caratterizza, che ci plasma, anche se spesso non ce ne rendiamo conto. Noi stessi, comunque, conteniamo per natura tanti registri. Conteniamo identità differenti e contraddittorie.

Come prosegue la tua attività di ricerca e di scrittura? Quali prospettive intravedi nel post-pandemia, come lo immagini?

Durante la quarantena Andrea Dellai di exvUoto Teatro mi ha chiesto di scrivere qualcosa e, insieme al musicista Paolo Paolacci, abbiamo concepito il podcast Canto dello schianto. È una forma finita, scritta proprio per l’audio, non uno spettacolo da ascoltare. Comunque non scrivo molto. Per lo più trascorro il mio tempo leggendo.

Mi chiedo come si potrà fare teatro se dovessero rimanere in vigore le norme di distanziamento fisico (chiamiamolo fisico, che è più rassicurante di “sociale”). Il teatro è fondato sulla socialità, sul corporeo. Davvero l’unica possibilità è l’uso acritico delle tecnologie digitali? Non credo.

Le figure genitoriali di riferimento si manifestano tra assenze, narcisismo e controllo psicologico. Che ritratto fai di loro nei tuoi racconti?

Le madri di Stormi e di Biografia dell’inquietudine sono due figure di potere. Dare la vita è in effetti un gesto che afferma un potere indiscutibile. Questo aspetto mortifero, intrinseco nella creazione, è il paradosso dell’esistenza, con cui i figli dei miei testi si scontrano continuamente. Ho provato a esplorare di più questo mistero in Contrazione, un testo che ho appena terminato e che porta in scena il rapporto tra una madre e un figlio attraverso i cinque sensi.

Penso che sia un testo molto crudele. Nella generazione c’è sempre una de-generazione. Credo che andrebbe demistificata la retorica che definisce l’atto del dare la vita “un dono”. Se riuscissimo a rivedere la retorica sulla vita forse saremmo in grado di affrontare meglio il rapporto con la morte.

Le scoperte geografiche
Le scoperte geografiche

Un orientamento diffuso e a volte anche abusato, nelle produzioni teatrali, è l’autobiografismo. La spinta, l’accelerazione verso l’autenticità esclude, secondo te, il principio di finzione?

Quando l’“autenticità” viene confusa con la “trasparenza”, l’umano, con tutte le sue fragilità e contraddizioni, viene negato. Molto teatro di oggi si concepisce come spettacolo, e lo spettacolo dominante nella nostra società è il web 2.0. I social ci stimolano a produrre un ritratto infinito di noi stessi, a parlare per battute ficcanti, in un tripudio di etichette. L’autobiografia diventa autonarrazione pubblicitaria. Siamo brand in cerca di visibilità e di consenso. Io penso a Pessoa, che in Autopsicografia scrive: «Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente.

E quanti leggono ciò che scrive, nel dolore letto sentono proprio non non i due che egli ha provato, ma solo quello che essi non hanno». Quando scrivo per me è importante rivendicare il mio ruolo di “fingitore”. Per questo diffido di un teatro che si appiattisce sull’immediatezza della vita, che tratta temi sociali importanti fermandosi alla dimensione più sensazionalistica ed emotiva. Questo è un modo di assolvere lo spettatore e di assolversi in quanto artisti. Il teatro che piace a me non è mai catartico, non è liberatorio.