Le Metamorfosi di Ovidio: un viaggio nel tempo. Intervista a Maddalena Crippa

Le Metamorfosi di Ovidio: un viaggio nel tempo. Intervista a Maddalena Crippa

Il reading che è andato in scena il 29 ottobre ha inaugurato una serie di appuntamenti, i Lunedì di Via Giulia, fortemente voluti da Silvano Spada il direttore artistico del Teatro Off/Off. Dopo un grande classico, quattro sono gli appuntamenti previsti: il 12 novembre ci sarà The Conductor, spettacolo in lingua inglese con sopratitoli in italiano, un adattamento del romanzo di Sarah Quigley con Joe Skelton e Deborah Wastell. Il 19 novembre sarà la volta di Figlie di Sherazade, scritto, diretto e interpretato da Chiara Casarico e Tiziana Scrocca. Chiuderà il ciclo di novembre dei Lunedì la performance , realizzata con il supporto di Pergine Open Spettacolo Aperto, Tenuta dello Scompiglio, OFF/OFF Theatre, Altofest – International Contemporary Live Art e Armunia-Castiglioncello.

Sebbene fosse stato già previsto nella programmazione, la lettura di Maddalena Crippa, tratta da Le Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone, ha ingenerato un evento sincronico, un’esperienza e, insieme, un viaggio della mente e nel tempo. Una grande artista può anche non aver bisogno di installazioni, scenografie e costumi. La Crippa, infatti, ha utilizzato solo un faro giallo-arancione, un leggio e un microfono. Anche la scelta di indossare abiti di scena sobri, scarpe basse, casacca e pantaloni neri, non è sembrata casuale. La decisione di presentarsi nelle rigorose e parche vesti di una sacerdotessa si è rivelata forte nella sua simbologia e funzionale al momento. Utilizzando il qui e ora del teatro l’attrice ha condotto la platea, donne e uomini del nostro tempo, in un varco spazio temporale dove è possibile ritrovare l’energia immortale dei classici. Mediante la forza dello sguardo, con piccoli movimenti del corpo che hanno saputo descrivere ambienti e situazioni, con la sapiente tecnica vocale, Maddalena Crippa ha celebrato un rito solenne e ha rapito gli spettatori per poco più di settanta minuti.

Declamando le parole di Ovidio: «Alle parole seguono i fatti e si avverano le profezie ». Due le storie raccontate e proposte al pubblico: quella di Bacco e quella di Fetonte. Tra i due racconti e alla fine, la sagoma del corpo della voce narrante sparisce in un buio momentaneo, prima di riemergere nella luce per gli applausi finali. Una presenza scenica la sua e una voce che è riuscita ad incarnare e a caratterizzare ora la divinità, ora il personaggio maschile o quello femminile. Il giovane, l’anziano, le folle dei marinai. Leggere le grandi opere è una sfida difficile, ma non in questo caso. Il loro potere è anche quello di mettere insieme tutti i pezzi e lenire la sofferenze. Maddalena Crippa lo consiglia: «Quando mi sento ansiosa, unruhig come dico in tedesco, i classici mi fanno stare bene».

In sala erano presenti alcune classi del Liceo Ginnasio Statale Virgilio di Roma, la cui sede si trova in quella stessa via, a pochi passi dal Teatro. Un esperimento riuscito perfettamente che realizza non un’alternanza programmatica scuola-lavoro, ma una sinergia scuola-teatro-vita.

Maddalena Crippa, durante la nostra intervista, dichiara appassionatamente tutta la sua stima verso quella docente che ha colto l’occasione con le sue classi, conducendo simbolicamente per mano quelle ragazze e quei ragazzi che emanavano un sincero rispetto verso quel luogo e quel momento sacro. La Crippa ha aggiunto: «Scoprire di colpo qualcosa che ti interessa o ti riguarda è un’esperienza che bisogna fare emozionalmente e razionalmente. Ma è necessario farla personalmente e fisicamente, tocca uscire e andare a teatro, nonostante la pioggia, il vento».

Nel suo reading tratto da Le Metamorfosi sono spesso presenti in sala scolaresche, liceali, nuove generazioni di futuri cittadini. Quali sono le responsabilità e le emozioni vissute nel fare da voce narrante e da tramite tra mondo classico e società digitale?

L’emozione è stata grande, da parte mia, soprattutto perché nella serata del 29 ottobre c’erano tanti studenti in sala. Tutto questo mi ha riempito di gioia per essere riuscita a catturarli con la lettura di Ovidio. Non è facile oggi, soprattutto con i giovani, ma è la forza del teatro. È il motivo per cui faccio questo lavoro, un po’ come una missione, perché credo nell’uomo, nella sua possibilità di stare nel mondo e anche di lavorare su sé stesso e crescere.

La dimensione teatrale oggi è più che mai necessaria perché è l’unico luogo dove si può verificare l’unità di tempo, di luogo, di spazio e c’è una concentrazione che permette lo sviluppo dei sentimenti, delle emozioni, dei pensieri ma non in solitaria. Il teatro è nato per una condivisione sociale, per vivere un racconto insieme, per interrogarci su chi siamo, da dove veniamo, per confrontarci con le tematiche e le problematiche che ci riguardano. Soprattutto oggi che siamo così separati, isolati, frammentati e sembra che l’attenzione debba essere solo di 3 secondi, perché dopo ci si annoia.

Al contrario, il teatro dà la possibilità di sperimentare sulla propria pelle l’unità, la riconnessione umana in tutta la sua potenza. Quando ciò si verifica, in quel momento si viene catturati e portati via da una realtà che si sta vivendo. Quando io, come attrice, riesco a far provare tutto questo e trascinare tante persone dentro una storia, allora si aprono contemporaneamente tutti quegli scrigni meravigliosi che contengono i classici.

In particolare i Greci e i Latini conoscevano profondamente l’animo umano e soprattutto lo sapevano esprimere. Cosa che noi, in particolare le nuove generazioni, con i mezzi telegrafici a disposizione, non sappiamo più fare. Oggi c’è l’omologazione assoluta. Il teatro può aprire davvero la mente, il cuore, le viscere e ti nutre spiritualmente. È la necessità di conoscere e di occuparsi di se stessi innanzitutto. Ognuno di noi è unico e deve scoprire la sua originalità, quella fonte meravigliosa che ognuno ha dentro di sé. È possibile farla sgorgare, non rimanendo dentro una torre isolata, ma insieme agli altri perché noi siamo esseri sociali, siamo nati per essere sociali.

Abbiamo bisogno gli uni degli altri; nasciamo con la necessità di qualcuno che ci accudisca, così come quando moriamo. La ricchezza sta proprio nella capacità di sviluppare relazioni, sentimenti e conoscenza di sé. Per questo i classici sono tali e non moriranno mai. Come loro, i Greci soprattutto, nessuno ha saputo descrivere l’essere umano e tutto quello che lo attraversa: l’ira, la vendetta, la gelosia, l’amore, la tenerezza… tutte le sfumature presenti, in special modo in Ovidio. La frase che riassume la sua opera, Le Metamorfosi, è: « Nulla si crea, niente si distrugge, tutto si trasforma».

Il dolore è un elemento che sembra mettere in connessione o a confronto il mondo descritto da Ovidio, con la realtà contemporanea sempre più anaffettiva. È così?

I greci piangevano come dei vitelli, sapevano bene quanto è salvifico e fondamentale dare sfogo e tempo alle cose, ai sentimenti, al sentire. La lettura tratta da Le Metamorfosi richiede attenzione e un’arte dalla mia parte, nel tirare dentro il pubblico. Quell’ora e dieci minuti di durata è un momento che si dedica e si trascorre insieme. C’è qualcosa che si sviluppa all’interno di ognuno e, come il pianto o la riflessione, ha bisogno di un tempo che non è interrotto e per questo può comunicare così potentemente.

Oggi, secondo me e rispetto ai miei tempi, per i giovani non c’è più una guida dell’anima, un prendersi cura della propria interiorità. Sembra che tutto sia diventato materiale in questo mondo, ma non è così. I bisogni umani non si esauriscono con i mezzi che abbiamo. Il problema è che tutto il lato umanistico, oggi, si è tirato come indietro. Ha preso il sopravvento il lato ingegneristico, tecnologico, con delle invenzioni stupende, ma come al solito non ci può essere soltanto uno sfrenamento. Fetonte lo dimostra ampiamente, così come tante altre storie. Ci vogliono limiti alle cose, regole e leggi che ci diamo e che osserviamo.

E così il lato umano in questo momento soffre perché non è alimentato, non è nutrito e per questo le persone sono infelici. Ognuno ha tutto e non è soddisfatto perché la felicità non viene da fuori, viene da dentro, dalla capacità di conoscersi e di accettare la morte e il dolore. Noi non siamo gli dei dell’Olimpo, siamo esseri umani e lì dobbiamo finire, come polvere. Il dolore è qualcosa che ci costringe e che ci porta vicino alla miseria di quello che siamo. La felicità è direttamente proporzionale a questo. Consiste nel saper godere delle piccole e non delle grandi cose.

Tutta questa instabilità, questa mancanza di futuro, tutto il lato negativo che possiamo sperimentare sarà pur vero, ma c’è sempre la possibilità della felicità. Bisogna accettare la propria finitezza, la propria inadeguatezza e andare avanti con fiducia, facendo quello che ognuno può realizzare nella sua dimensione sociale.

Per esempio il mio modo di essere attrice è quello di servire l’autore, in tutti questi anni ho affinato tutte le mie arti vocali, interiori, interpretative e di analisi per poi essere lì libera. Chiaramente si è trattato di una preparazione grande e poi, però, lì sul palco io sono al totale servizio: deve venire fuori Ovidio nella sua bellezza, nella sua potenza, nella sua tenerezza.

Per questo io dico che non può essere tutto così materiale, c’è questo elemento dionisiaco, qualcosa di santo per me che sono difesa dalla sacralità di quel luogo e sono anche senza rete perché si compie in scena, in quel preciso momento, né prima né dopo ed è irripetibile. Forse mi si può riprendere con la telecamera, ma rivedendolo non è la stessa cosa.

Questa è la mia arte di recitare, ma dovrebbe essere l’arte di vivere di ognuno: ci trasformiamo, niente può essere fermato, ma per questo è necessario vivere intensamente e con originalità. Ognuno secondo me dentro ha una grande forza, una altrettanto grande possibilità di gioire e di accettare la sofferenza, non si può far finta che esista solo l’una o solo l’altra.

Il gusto della narrazione, la forza atemporale dei classici, le dimensioni del sogno: è rivoluzionario il concetto che l’umana felicità è ancora possibile?

Non c’è felicità senza dolore, questo ognuno lo deve sapere, ma deve anche aver fiducia perché fa parte del nostro essere umani. La luce e l’ombra ci sono entrambe, il bene e il male stanno insieme, fanno parte di una lotta e di una ricerca umana. La felicità è possibile, bisogna avere la resistenza di non scoraggiarsi e di andare avanti giorno per giorno con questa consapevolezza e con l’umiltà di saper guardare dentro di sé veramente.

Quali sono state le principali metamorfosi, le trasformazioni di Maddalena Crippa come attrice e come donna?

C’è un tempo in cui vuoi essere brava con un eccesso di muscolatura, di presunzione e dopo avviene la metamorfosi come attrice. Io sono libera adesso, ho una grande esperienza che metto al servizio degli autori. Riesco a conoscere tutti i punti di snodo che mi aspettano analizzando il testo, ma non sono io che mi arrogo il diritto di farlo forte o piano. È il racconto o il momento a richiederlo. Porto con me la calma della mia respirazione, della mia vocalità che è pronta ed elastica, in una dimensione di rischio e accade così il miracolo. Avviene come una creazione. È molto forte per me ma anche per chi lo vede.

E così come donna, nello stesso modo, la metamorfosi più bella è quella che arriva col passare degli anni, quando ognuno sempre di più incontra chi è veramente. A volte non è bello. Accettare l’ombra dei propri difetti significa abbandonarcisi in qualche modo, senza indulgere, ma avendone la giusta consapevolezza. E poi c’è in me la voglia di dare agli altri sia come persona sia come attrice. Credo fortemente in questa missione e nella necessità della comunicazione. Io sono il mezzo per fare arrivare gli autori al pubblico in una maniera così fresca che a me non sembrano per niente così lontani, anzi mi sorprendono e mi calmano. Se sono agitata, ansiosa mi metto a studiare l’Odissea, in special modo adesso che dovrò leggere Polifemo a Imola, e mi pacifica subito. Tutte le volte che leggo i testi di Penelope e Ulisse mi commuovo e questo fa bene. È importante anche piangere, Ulisse piangeva continuamente, tutti gli antichi lo facevano perché c’era e c’è sempre qualcosa da sciogliere, ma non da soli. Quasi sempre erano insieme agli altri e non è una cosa riprovevole, è una cosa che fa bene, è un legame ma è anche il riconoscere l’anima, lo spirito.

«Dobbiamo tornare a essere fieri di come eravamo: un crocevia di lingue, culture, tradizioni». Questa citazione è sua, era il 2013, l’anno di Italia mia Italia. Recuperare l’umanità è diventata una missione ancora più difficile e urgente?

A me viene in mente Mimmo Lucano. Credo che noi italiani siamo la testimonianza di quello che siamo perché sono venuti e ci hanno invaso tutti. L’Italia per come è messa morfologicamente è uno stivale che si protende da nord verso sud, è tutta costa. Questa inventiva italiana, questo lato bello per il quale siamo conosciuti come inventori, deriva anche dal fatto di essere stati terra di conquista e di aver però saputo accogliere e mescolarci con gli altri. Da qui sono nate le nostre doti i maggiori. Come possiamo pensare di chiuderci adesso? È così avvilente e disperante perché nel passato ci sono stati dei momenti straordinari, felicissimi. Lo stesso Impero Romano era così grande e potente perché inglobando territori e popoli, lasciava loro libertà di culto e tradizioni.

C’era la possibilità di convivere. In Sicilia ancora di più, ci sono stati dei momenti di unione con l’Islam, con tutta la cultura orientale. Adesso c’è una omologazione e una tristezza nel popolo italiano che non riconosco. E allora, veramente, dove stiamo andando? Sono tempi disperati. Questo ritorno al fascismo, alla chiusura, al particolarismo trovo che sia estremamente pericoloso. L’esperimento di Mimmo Lucano dimostra innanzitutto che accogliendo ha dato dignità, ha recuperato un luogo e ha dimostrato che si può fare inclusione. Io sono dunque per questo modello di cooperazione, di conoscenza, di crescita insieme. In ogni caso bisogna andare avanti, bisogna tenere dritta la barra. Ognuno ha la responsabilità di questo mondo con la sua vita, con il suo comportamento, con il suo esempio. Può migliorare le cose, far del bene e dimostrare che ne vale la pena.