Lacasadargilla debutta con L’amore del cuore al Teatro Vascello di Roma

Lacasadargilla debutta con L’amore del cuore al Teatro Vascello di Roma

L'amore del cuore

In prima nazionale, lacasadargilla debutta al Teatro Vascello di Roma con L’amore del cuore di Caryl Churchil, in scena dal 15 al 23 maggio 2021.
Regia di Lisa Ferlazzo Natoli, autrice e regista collabora con i maggiori teatri e istituzioni italiane. Con il suo ultimo lavoro When the Rain Stops Falling, vince i premi UBU e della Critica come miglior regia.
Testo di Caryl Churchill, tra le maggiori drammaturghe di lingua inglese, autrice di numerosi testi teatrali e radiodrammi rappresentati in tutto il mondo. Vince numerosi premi. Fra le opere maggiori si citano Cloud Nine, Top Girls, Far Away, Sette bambine ebree.
lacasadargilla è un ensemble allargato che lavora su spettacoli teatrali, istallazioni, rassegne e attività di formazione. È prodotta da istituzioni nazionali e internazionali.

Note di regia

Di cosa tratta L’amore del cuore? L’argomento, la storia sono in qualche modo secondari, perché l’intenzione principale di Churchill è di distruggere il testo stesso, usandolo per smontare i meccanismi del teatro, della realtà e delle relazioni che all’interno di questa realtà si costruiscono moltiplicando abitudini, rimossi e abissi. Certo c’è un filo narrativo, una piccola storia familiare, punteggiata da fatti e incidenti non esplicitamente legati tra loro, ma percorsi tutti da una stessa preziosa inquietudine, in cui l’ordinaria perversità dell’istituzione familiare e dei suoi meccanismi relazionali e sociali è letteralmente ‘gettata in scena’, per spingersi fino a quella esplosione della parola, del linguaggio, del sistema di segni attraverso la cui mediazione diamo senso al mondo.

Dunque in L’amore del cuore – che è anche solo un grande testo sull’attesac’èuna famiglia – i genitori Alice e Brian, la zia Maisie, il figlio Lewis – che aspetta il ritorno dall’Australia della sorella maggiore Susy. Mentre quest’attesa accade (l’arrivo di Susy sembra realizzarsi tre volte e dunque forse nessuna è vera) emergono (ma saranno veri?) inquietanti ricordi del passato: una relazione adulterina di Alice, un misterioso cadavere in giardino. E si svelano tensioni irrisolte: il rapporto dei genitori con il figlio, le paure notturne di Maisie, gli accenni a una possibile pulsione incestuosa di Brian per la figlia, il suo desiderio auto-cannibalistico confessato in un crescendo angoscioso e orgasmatico.

L’amore del cuore inizia con un’ambientazione realistica da dramma domestico, ma subito la superficie di normalità si incrina in una delle molte interruzioni/riprese della narrazione che punteggiano il testo. I personaggi si fermano per ricominciare, come un disco rotto, da un punto immediatamente precedente, replicando azione e dialogo con piccole modifiche e/o aggiunte – riprese che creano un effetto di disorientamento causale e temporale, annullando la verosimiglianza del primo breve segmento e risignificando l’orizzonte di attesa. Come se si trattasse non di una rappresentazione, ma dei resti di una rappresentazione, in cui i personaggi incertamente recitano sé stessi e la propria vita. Come se il testo stesso avesse dei ripensamenti e volesse riprovarci in altro modo.

Così per mettere in scena L’amore del cuore – in questa alternanza perfetta tra storie familiari e l’esilarante, cupissimo meccanismo a orologeria disegnato da Churchill – l’attore è costretto a prendere posizione sulla scrittura stessa, assecondandola, fraintendendola o ‘sabotandola’ – perché il testo lo richiede e il divertissement teatrale lo consente – mentre il regista continua il lavorio di un vigile direttore d’orchestra cui però inesorabilmente scappa di mano l’organico.

Proprio per questo, scegliamo per L’amore del cuore la forma ibrida e ‘ambigua’ di quella che potrebbe a prima vista sembrare una messinscena, ma con l’intenzione di radicalizzarne e metterne a nudo il dispositivo interno, facendone – letteralmente – il disegno di regia. Mostrando, in tempo reale il ‘combattimento’ dell’attore e l’immediatezza delle sue reazioni di fronte alla parola ricordata, dimenticata e rimemorata – la sorpresa procurata dalla stessa frase ripetuta più e più volte nell’arco del testo, o gli inciampi suscitati dall’esplosione del meccanismo narrativo. Ma anche semplicemente lo stupore di un testo che pagina dopo pagina si srotola, si inceppa, si dipana e si incaglia, che perde e riprende senza sosta il filo della narrazione. Scelta artistica ed espressiva che – in una messinscena compiuta e dettagliata intorno a un tavolo familiare, ‘ambiente’ apparentemente realistico – mostra l’attore alle prese con il linguaggio stesso, rivelando il processo che lo porterà alla graduale – e forse involontaria – ‘caduta’ nel personaggio.

Una forma scenica radicale e formalmente precisa per mettere a nudo il momento stesso del formarsi dello spettacolo, quando il testo – inteso come successione di parole, lemmi, sintassi – si apre alla regia e al suo immaginario, ai paesaggi sonori, ai movimenti scenici o alle inaspettate suggestioni visive. Perché L’amore del cuore accanto e intorno al ‘testo in sé costruisce letteralmente una scatola sonora fatta di un minuzioso uso di microfoni invisibili e una partitura quasi musicale di rumori, pause e iterazioni sonore. Mentre d’improvviso ‘irrompono in scena’ – come se nulla fosse e senza produrre apparentemente effetti sull’interno familiare – uno struzzo, una torma di bambini, il fragore di mitra che – a quanto il testo indica – uccidono letteralmente tutti. Irruzioni semplicemente ‘dette’ e che semplicemente ‘accadono’, perché Churchill chiede e chiama la vita ‘organica’ e incontrollabile a fare intrusione nel meccanismo inceppato della realtà. E richiederebbe che lo struzzo in carne e ossa o il suo fantasma narrativo – pericoloso e bellissimo – entri veramente sulla scena, per scorrazzare liberamente nello spazio umano del teatro mentre le luci scendono piano.

Una forma scenica che è quasi un ‘esercizio spirituale’ di lettura, scelta proprio perché il teatro di Caryl Churchill così insolito e poco addomesticabile sembra chiederlo. Una scrittura che – come un vaso di Pandora – è piena di affascinanti trabocchetti drammaturgici, d’invenzioni e sperimentazioni sul filo della lingua e dell’azione, sotto cui sono disseminati i temi, sempre politici, sempre vicini a questioni come l’identità, la costruzione delle relazioni pubbliche e private, la messa in scena della realtà, la frattura tra questo rappresentare e il rappresentarsi – come società o come uomini – rincorrendo quella cosa chiamata verità.

C’è ne L’amore del cuore un principio seminale, disseminato ovunque nella raffinata bellezza del cesello verbale e nel meccanismo di suspense degno di un’investigazione per omicidio, dove la vittima sembra essere proprio Susy, la figlia maggiore di una famiglia del tutto ordinaria, il cui ritorno tutti aspettano – o invece temono? – e che in ogni modo non accadrà se non forse solo nel perturbato spazio immaginario degli spettatori.

L’amore del cuore giocando con strutture e linguaggi teatrali, mette in questione la sovranità autoriale e registica, costruendo allo stesso tempo – come dice la stessa Churchill – dei “McGuffins”, elusivi nulla, espedienti che al tempo stesso attraggono e sviano l’attenzione, o – parafrasando Hitchcock che ne parla a Truffaut – marchingegni per catturare leoni là dove non ne esistono e grazie ai quali riesce a parlarci di amore e solitudine, inganno, paura e desiderio.

L’allestimento semplicissimo permetterà a L’amore del cuore di farsi negli spazi più diversi: un tavolo di ferro spesso, leggermente rettangolare, ma profondo, quattro sedie sempre in ferro, un appendiabiti poco discosto, 4 tazze da tè di porcellana inglese bianche rifilate d’oro, una grande teiera, cucchiaini. Gli abiti nei toni del grigio e dell’antracite stinti, quasi chiari come fossero presi da fotografie scolorite. Solo Susy con la sua valigia, in lontananza, sarà vestita di colori sgargianti, rossi e rosati, come se lo spettacolo uscisse fuori d’improvviso dal proprio bianco e nero. Un set di microfoni di diverse nature: panoramici per rendere astratta l’azione, a contatto per far risuonare i tavoli e levalier per restituire anche le più piccole esitazioni del linguaggio. Un piazzato livido – come un ring di luci a vista – intorno al tavolo di cui calibrare le intensità. Due punti di luce, uno per l’attaccapanni di Brian e l’altro, per Susy in lontananza.

Regia Lisa Ferlazzo Natoli
con Tania Garribba, Fortunato Leccese, Alice Palazzi, Francesco Villano, Angelica Azzellini
suoni ambienti e spazio scenico Alessandro Ferroni
luci Omar Scala
immagini Maddalena Parise
costumi Camilla Carè
aiuto regia Flavio Murialdi
una produzione Teatro Vascello La Fabbrica dell’attore e lacasadargilla
con il supporto di Theatron Produzioni
con il sostegno di Bluemotion

Tra teatro e scienza, la voce dell’immaginazione. Intervista a Manuela Cherubini

Tra teatro e scienza, la voce dell’immaginazione. Intervista a Manuela Cherubini

scienza

La scienza e il teatro: siamo abituati a considerare queste due discipline come regioni del sapere ben distinte. Diverse le posture, i linguaggi, gli scopi. Ma forse queste distanze potrebbero ridursi se riuscissimo a tenere aperte delle porte, a riconoscere le radici comuni. Allora le leggi della scienza potrebbero essere uno strumento per ampliare la visione su quei dilemmi che anche il teatro ha da sempre indagato. 

Avvicinare i due mondi è lo scopo della serie di radiodrammi Scienza e fantascienza, un progetto di Giorgio Barberio Corsetti prodotto dal Teatro di Roma. Ogni giovedì fino al 6 maggio verranno pubblicati sul canale Spreaker dello stabile i podcast delle puntate dirette da Paola Rota, Manuela Cherubini, Lacasadargilla, Roberto Rustioni, Giacomo Bisordi, Francesco Villano, Duilio Paciello. I testi scelti per essere interpretati sono molto diversi tra loro, spaziando da opere di fantascienza a lavori di drammaturghi contemporanei. Una particolarità risiede nel fatto che ogni appuntamento termina con un intervento di uno scienziato o scienziata che mette a fuoco uno dei temi trattati nella puntata. 

Un connubio quindi tra la divulgazione e la prova artistica, per la quale la regista Manuela Cherubini non poteva essere persona più indicata. Interessata da sempre al rapporto tra arte e scienza, tra le opere che ha tradotto e messo in scena con la sua compagnia Psicopompo Teatro ci sono quelle di Rafael Spregelburd, fautore di un approccio antiriduzionista, interessato ad introdurre nella drammaturgia modelli provenienti dalla teoria del caos e dalla matematica frattale. 

I radiodrammi che Cherubini ha diretto per la rassegna si basano su tre testi di Elisa Casseri, ingegnere e scrittrice, riuniti sotto il nome di Trittico delle stanze. Tre episodi in cui i legami familiari vengono narrati e interpretati alla luce di altrettante teorie scientifiche — come Casseri aveva fatto anche nel suo ultimo romanzo, La botanica delle bugie, pubblicato per Fandangolibri

Il primo dei tre testi, intitolato La teoria dei giochi, sarà interpretato da Luisa Merloni e Aurora Peres (con il podcast scientifico del Prof. Porretta), seguirà L’orizzonte degli eventi che ha vinto il Premio Riccione per il Teatro e sarà interpretato da Ferruccio Ferrante, Aglaia Mora, Alessandro Riceci e Giulia Weber (con il podcast del Prof. Balbi), infine Il polo dell’inaccessibilità vedrà dietro al microfono Alessandra Di Lernia, Sylvia Milton, Laura Riccioli, Simonetta Solder e Gabriele Zecchiaroli (con il podcast della Dott.ssa Negri).

Abbiamo intervistato Manuela Cherubini per chiederle qualcosa in più su questa esperienza, di cui abbiamo scoperto anche un risvolto politico ed esistenziale: la regista era tra gli occupanti del Teatro Valle, luogo nel quale i podcast sono stati registrati.

È da tanto tempo che la scienza entra nella tua ricerca artistica. Quali sono gli stimoli maggiori che hai trovato nel pensiero scientifico per la pratica teatrale?

Gli stimoli artistici e scientifici nella mia vita sono arrivati insieme, vengo da una famiglia di musicisti e scienziati. La divisione tra questi due approcci cognitivi alla realtà, io non l’ho mai vissuta come tale. Sicuramente entrambi i linguaggi si sono autoalimentati nel corso della mia formazione e del mio sviluppo artistico.

La scienza può essere per il teatro una fonte di idee e di spunti che confluiscono in una drammaturgia, come nel caso dei radiodrammi, ma può anche costituire uno sfondo teorico che ha a che fare con il come si sta in scena.

Sì, in questa direzione vanno gli esercizi «sistemici» creati da José Sanchis Sinisterra, uno dei maestri più importanti che ho avuto che parte dallo strutturalismo per arrivare alla teoria della complessità. Io li uso come allenamento attoriale per esplorare le possibilità espressive sia del corpo che della voce, attraverso uno schema di ripetizione di unità minime di azione che si sviluppano con delle modulazioni o delle trasgressioni rispetto al sistema di partenza. 

Inoltre il gioco teatrale può essere visto come un dispositivo che si avvicina alla realtà, la annusa, la osserva, cerca di tradurla in un linguaggio scenico che sia visivo, uditivo e di respiro. Un vero e proprio sistema dove fluiscono moltissime energie legate alla nostra sensorialità e all’elaborazione che ne facciamo poi a livello intellettuale. Tutto questo è leggibile attraverso un dispositivo di tipo scientifico.

Con Elisa Casseri avevi già ideato la rassegna Co(n)scienza, trasmessa sui canali dell’Angelo Mai e appena ricominciata con un nuovo ciclo. Cosa si genera nell’incontro tra pensatori, scienziati da un lato e teatranti, artisti dall’altro?

È grazie al Centro Ricerche Musicali di Roma, guidato da Michelangelo Lupone e Laura Bianchini, che dal 2000 se non prima sono stata coinvolta nei convegni di Arte e Scienza e in quelli di Musica e Scienza. Da lì è partita l’ideazione di questa rassegna con Elisa Casseri e Giorgina Pi, in cui abbiamo proseguito a mettere l’uno di fronte all’altro artisti e scienziati per mostrare che questi mondi non sono così separati. 

Per fare un esempio, quando nel primo ciclo di incontri ho dialogato con Alessio Porretta che insegna Matematica all’Università di Tor Vergata, Elisa Casseri sottolineava quanto io usassi un linguaggio matematico e quanto Porretta uno artistico. Lo scopo di questi dialoghi è quello di avvicinare i due mondi e di fornire ad entrambi un pezzetto in più di visione. L’immaginazione è alla base di entrambe le discipline, quindi più viene nutrita questa strana natura che possediamo, più abbiamo possibilità di fare delle cose belle.

È molto interessante il riferimento all’immaginazione nei riguardi della scienza, di cui forse si ha un’idea un po’ imbalsamata a volte.

Senza l’immaginazione la scienza non va da nessuna parte, anzi forse è l’ambito dove è più sfrenata! In un prossimo incontro dialogherò con Paolo Tozzi, uno scienziato dell’osservatorio di Arcetri, che osserva le galassie a centinaia di migliaia di anni luce da noi. Bisogna avere parecchia immaginazione anche solo per concepire il desiderio raggiungere mete apparentemente così irraggiungibili. Così come il concetto di infinito, tu riesci ad immaginarlo? È una sfida immaginativa e l’immaginazione è un muscolo, lo dico sempre così agli attori, bisogna allenarlo in tutte le direzioni possibili.

Parliamo ora di Trittico delle stanze. Come è stato misurarti con un radiodramma?

Avevo già ideato e recitato in alcuni radiodrammi ma è la prima volta che mi sono confrontata con testi di impianto drammaturgico più classico come questi di Elisa Casseri, fatto salvo per il dispositivo che li guida che è di tipo scientifico. L’autrice penso sia una delle voci più originali e interessanti del panorama letterario italiano, ha la capacità di lavorare a tutto tondo sulla scrittura con questo sguardo di taglio scientifico ma sulle vicende più fortemente emotive.

Amo moltissimo la radio e la voce, penso che il teatro da ascoltare sia la modalità meno tarpante rispetto all’assenza del teatro in presenza, riesce a restituire di più rispetto ad altri media come il lo streaming in video. L’ascolto riesce a creare quella condizione di intimità e apertura della percezione che necessita il teatro. Ci ho lavorato creando degli ibridi, degli oggetti a cavallo tra il radiodramma e il radiofilm, insieme all’ingegnere del suono Graziano Lella abbiamo dato vita a dei paesaggi sonori emotivi che conducessero chi ascolta attraverso le azioni contenute nelle opere.

Nel Trittico alcune teorie scientifiche si mostrano nella vita quotidiana, prendendo forma nei legami familiari. Le consideri suggestioni immaginative oppure credi che in qualche modo ci sia un legame tra queste leggi universali e le nostre esistenze individuali?

Io penso che un legame ci sia, innanzitutto perché queste leggi universali le abbiamo scritte noi, che siamo esseri umani con carne ossa emozioni sentimenti e con un linguaggio, lo strumento attraverso il quale costruiamo teorie. Quante volte ci è difficile comunicare i nostri sentimenti attraverso la parola? La stessa difficoltà incontra la scienza a comunicare alcuni concetti con un determinato linguaggio. È lo stesso tipo di spinta, se io analizzo il rapporto tra me e mio fratello, ad esempio attraverso lo strumento della psicoanalisi o della letteratura, non vedo perché ciò non possa accadere anche attraverso il linguaggio e la visione di fenomeni scientifici che ci riguardano. 

Nel primo dei tre testi il cardine è la teoria dei giochi matematici, che nasce dal rapporto tra giocatori o gioc-attori, ovvero persone che agiscono. Come quando incontriamo una persona e proviamo ad immaginare tutte le probabilità, le sue possibili mosse…possiamo osservare questi comportamenti da un punto di vista analitico o scientifico.

Questi podcast sono stati registrati al Teatro Valle, un luogo che ha una storia particolare per la scena teatrale romana.

Ho partecipato all’occupazione del Valle, ero nel gruppo che è entrato per la prima volta il 14 giugno 2011, quindi per me quel luogo ha un significato importante. Tornarci a lavorare è stata un’esperienza fortissima. L’ultima volta che ci ero entrata era il 2014, nel momento in cui si è chiusa l’occupazione. Quando negli anni successivi ci sono stati piccoli eventi nel foyer organizzati dal Teatro di Roma, avevo difficoltà ad andarci. 
Abbiamo restituito il teatro al governo della città chiedendo che lo spazio rimanesse pubblico e che non fosse riconvertito ad altro scopo, queste condizioni erano state accettate ma da allora è successo ben poco, il teatro non è stato riaperto alla cittadinanza in quanto tale. Da un lato è stato molto bello rientrare lì per fare teatro, anche se senza spettatori, dall’altro la ferita di questo luogo ancora non restituito si è fatta sentire.

Racconti ritrovati: l’ultimo appuntamento di Piccoli comuni incontrano la cultura

Racconti ritrovati: l’ultimo appuntamento di Piccoli comuni incontrano la cultura

Dopo tre mesi di continuo girovagare, si conclude in provincia di Rieti il percorso di scoperta e bonifica culturale del territorio laziale operato da Atcl Lazio e Regione Lazio, con la rassegna Piccoli comuni incontrano la cultura. Lo scorso 30 novembre, il Teatro Comunale di Poggio Moiano ha ospitato Racconti ritrovati, un progetto della compagnia Lacasadargilla, per la regia di Lisa Ferlazzo Natoli candidata ai Premi Ubu per la categoria “Miglior regia” con lo spettacolo When the rain stops falling

Racconti ritrovati – Compagnia Lacasadargilla

Racconti ritrovati è un reading musicale che vede in scena l’attrice Alice Palazzi e i musicisti Gabriele Coen e Stefano Saletti, incentrato sulle opere di Savyon Liebrecht, Dorothy Parker e Lynne Sharon Schwartz. Tre racconti, riscoperti e riadattati, di scrittrici che parlano di donne e del loro stare in società tra incontri, dubbi, riconquista dell’identità perduta e amori brucianti. La scrittura ebraica femminile diventa slancio per conoscere mondi lontani, tracciando una geografia di popoli e culture dall’America a Israele.

Tre donne per tre scrittrici

Alice Palazzi è, nelle parole della Liebrecht, una donna ebrea che diffida della sua stessa attrazione nei confronti dell’altro. Restando per giorni in contatto con gli operai arabi che stanno costruendo una stanza nel suo appartamento, coglie ora con disagio, ora con delicata sorpresa gli usi e i costumi di una società che non conosce. Una convivenza, dunque, che nell’oscillazione tra sospetto e curiosità, sorvola il conflitto israelo-palestinese per attestare, nell’universalità dell’umano sentire, l’esistenza di un cielo comune. Le musiche accompagnano con melliflue evoluzioni il viaggio della protagonista di Una stanza sul tetto, disegnando atmosfere arabeggianti che colorano il minimalismo della scena.

Clarinetto e chitarra elettrica prendono ora il sopravvento per fare dell’improvvisazione jazz, il sottofondo de La signora Saunders scrive al mondo. Lynne Sharon Schwartz racconta il percorso di autoaffermazione di una donna che, in quanto madre e moglie, perde la sua identità: il ruolo sociale e familiare da lei assunto, ha soffocato la sua persona al punto da essere pervasa da un fremito euforico al solo sentire pronunciare il suo vero nome. Il percorso di determinazione di sé, passa ora dall’infantile  autografare i muri della città con gessetti colorati.

Attende Una telefonata la protagonista del racconto di Dorothy Parker, cui Alice Palazzi presta la voce nel gioco della tentazione, in bilico tra desiderio e ritrosia. La musica si fa commento di un monologare indomabile e impetuoso, finalizzato all’impaziente conferma di un amore corrisposto. Il rapporto con Dio, continuamente invocato per sfuggire alla pena, intesse il sentimento nevrotico della protagonista.

Il progetto Piccoli comuni incontrano la cultura

Piccoli comuni incontrano la cultura ha rappresentato un’occasione: quella, per i 47 comuni coinvolti nell’iniziativa, di confrontarsi con proposte artistiche provenienti da tutto il territorio nazionale e di inserirsi, alla stregua delle realtà cittadine, nella programmazione culturale della regione. Un’iniziativa che, godendo del sostegno della politica e delle amministrazioni locali, dimostra l’urgenza di risolvere il problema della desertificazione culturale. Di questo virtuoso progetto, i cui semi sono stati piantati in territori antichi, bisognerà prendersi cura nel tempo, perché il fiore dell’arte decori rigoglioso anche i piccoli comuni di provincia.