Due metodi di rinascita: La Nuit des rois di Copeau e La metamorfosi di Giorgio Barberio Corsetti

Due metodi di rinascita: La Nuit des rois di Copeau e La metamorfosi di Giorgio Barberio Corsetti

Nel 1914 Jacques Copeau debutta con La Nuit des rois di William Shakespeare con un allestimento destinato a fare la storia.
In anni di guerra infatti, Copeau decide di invertire la rotta comune e mettere in scena una commedia shakespeariana, in netto contrasto con la tendenza del tempo di inscenare soprattutto i drammi borghesi e le commedie naturaliste, cercando una nuova via per dialogare con il pubblico e proponendo una visione della scena libera, epurata dai manierismi, in cui l’Illiria di Shakespeare rappresenta ideologicamente un nuovo inizio.

Sarà, l’esperienza della Dodicesima Notte la prova generale del nuovo progetto artistico di Copeau, una riflessione sull’espressione artistica a cui la messa in scena non basta trasformando il suo lavoro in ricerca costante, di lì a poco verrà infatti fondata la scuola dei Copiaus, il cui ideale possiamo riassumere con le parole dello stesso Copeau: «Un movimento generale che a poco a poco si pensa, dà il suo senso ad ogni scena a ogni replica».

Il 9 Maggio di quest’anno si è conclusa l’ultima replica de La Metamorfosi al Teatro Argentina, per la regia di Giorgio Barberio Corsetti, spettacolo con cui sono state finalmente riaperte le porte del Teatro di Roma.
Quest’ultimo allestimento condivide con il lavoro di Copeau la gravosa collocazione temporale, diventando inesorabilmente un momento spartiacque all’interno della riflessione sulle evoluzioni della scena.

Cosa ci dice, dunque, la scelta de La Metamorfosi sull’attuale stato del teatro e della sua percezione di sé?

Partiamo dal titolo, anche chi non è pratico del testo Kafkiano, non può fare a meno di percepire la portata del soggetto dello spettacolo: stiamo assistendo ad una metamorfosi totale, che essa sia permanente o no poco importa, l’importante è che il fruitore come il creatore contemporaneo ne prendano coscienza.

La scelta di Corsetti tuttavia, risulta diametralmente opposta rispetto a quella di Copeau: se la parabola del regista novecentesco era quella ascendente della spensieratezza, quella di Corsetti è una presa di coscienza: la situazione di Gregor Samsa viene infatti accentuata da scelte scenografiche inesorabilmente parlanti: una divisione netta fra un mondo che prosegue, che continua a scorrere, e la stanza a tutti gli effetti da quarantenato di Gregor Samsa, segnata a caratteri cubitali dalla scritta Immondo.

È difficile cercare di comprendere, sia riflettendoci da un punto di vista di evoluzione ideologica del teatro, ma anche più profondamente a livello personale, quale sia la via che meglio dia voce ad un teatro a cui tocca la sorte di vivere un mondo alla fine del mondo.

Tentare una risposta sarebbe un salto troppo ambizioso e lungimirante, ma è sicuramente utile notare la metamorfosi inevitabile che il rientro nelle sale teatrali dopo tutto questo tempo comporta: se nel Novecento, dopo il 1914, la sensazione a cui puntava Copeau era quella della liberazione, la scelta di Corsetti è quella di uno specchio deformante, a cui probabilmente, il pubblico in via di guarigione non è ancora pronto.

La sensazione di schiacciante degradazione di cui il personaggio di Gregor Samsa è metafora spaventa la platea, ma al tempo stesso la libera. Per la prima volta dopo tanto tempo il teatro torna a svolgere una delle sue funzioni più nobili: scuotere le persone sedute in poltrona, spingendole ad uscire dalla sala, più consapevoli della necessità onnipresente di metamorfosi.