“Non temo niente, non spero niente, sono libero”, intervista ad Alberto Fumagalli
Poco più di un anno è passato dalla vittoria del premio Miglior Spettacolo al Roma Fringe Festival. Era gennaio, era La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza, era la compagnia Les Moustaches, erano altri tempi. In gioco c’era anche un po’ della loro storia, le storie delle loro vite.
Diplomato attore all’Accademia Stap Brancaccio di Roma e laureato in Scienze dei beni culturali all’Università degli Studi di Milano, Alberto Fumagalli scrive per il teatro e l’audiovisivo. Ha partecipato come drammaturgo al progetto Les Clinique Dramaturgiques nell’ambito del festival europeo Short Theatre. È stato finalista al Premio Hystrio, attore in diverse tournée teatrali, cantautore per il gruppo musicale Cane Maggiore.
Quello con Alberto Fumagalli, oggi, è un incontro che rinnova le tracce e i sapori di un caffé letterario. Dissertazioni filosofiche ed esistenziali senza essere filosofi o artisti maledetti. In un ritrovo tecnologico e in una sera di febbraio, si è realizzata la perfetta armonia tra Il vecchio e il Mare di Ernest Hemingway e Il giovane Holden di J.D. Salinger. E nel raduno si sono aggiunti Nikos Kazantzakis ed Eva Cantarella. Un necessario soffio di anticonformismo e di eretica utopia che abbatte qualche muro, ma contemporaneamente costruisce un ponte verso la bellezza.
Parafrasando la celebre opera della Letteratura americana, Il vecchio e il Mare di Hemingway, il nostro potrebbe essere l’incontro tra Santiago e Manolin. Ti riconosci nell’anziano pescatore con gli occhi che “avevano lo stesso colore del mare, allegri e indomiti” o nel giovane discepolo, amico e affezionato? Sei l’uno, sei l’altro, entrambi o nessuno dei due?
Andando oltre il dato anagrafico, non avendo più un’età con il numero due iniziale, scelgo sicuramente il vecchio. Tendo a non credere nella figura del maestro, confido nel fatto che esistano incontri più o meno luminosi. Credo che affidarsi alla figura di un ipotetico saggio sia il grande male dell’uomo moderno contemporaneo, soprattutto del lavoratore dello spettacolo, dell’arte.
Mi permetto di parlarne in quanto è il campo dove “zappo la terra”, metaforicamente parlando. Ritengo che non esistano più i saggi, i maestri; esistono le persone, delle fonti di ispirazione ma non dei riferimenti, secondo me. Il mio è un punto di vista che non vuole essere assolutistico
La vita di un autore, attore e regista tra sconfitte e tante piccole morti… Hemingway scrisse: “Un uomo può essere distrutto ma non sconfitto”. Come hai vissuto tutto questo?
La citazione è molto azzeccata perché cade proprio a pennello, accompagna – secondo me – la quotidianità di chi come me ha scelto o forse si è ritrovato dentro questo mestiere bellissimo o mestieraccio. Sono propenso a esorcizzare il concetto dell’autore, dell’attore maledetto, pazzo, che arriva al punto di strapparsi il cuore. Anche questa ritengo che sia una sopravvalutazione, ognuno deve parlare per quello che sente e che prova.
Penso che la colpa non sia del singolo del soggetto, ma di un sistema zoppo, bizzarro, egoista che non dà la possibilità a chi fa questo mestiere di farlo veramente e, quindi, in certi giorni arrivi a sentirsi il nuovo Jimenez, il nuovo Coelho oppure il nuovo Galliazzo – citando alcuni degli autori che mi solleticano.
In altri giorni, invece, ti senti una nullità perché non hai un consistente rapporto con la società. Sentirsi come un parassita della società è una sensazione molto brutta, ma accomuna molti lavoratori dello spettacolo. C’è chi, come me, si pone la domanda: uno scrittore, uno che si occupa e che studia le parole, a chi deve chiedere dove e come lavorare? Questa è una domanda che distrugge i miei pomeriggi, le mie giornate. Non solo per poter andare in scena all’Argentina piuttosto che all’Elfo Puccini.
Non c’è neanche la consapevolezza di come si scrive una fiction televisiva. Di come far domanda alla Rai, per una serie web, per poter scrivere, per poter vivere di quello che siamo capaci di fare, di quello per cui abbiamo studiato. È sicuramente un’inclinazione molto soggettiva, la tua citazione tuttavia ha aperto un mio canale di sconforto e di entusiasmo. Il segreto è sempre quello di trovare l’equilibrio. C’è un verso di Nikos Kazantzakis che mi ha colpito molto perché è un po’ una forma di raggiungimento della calma, dello zen e recita: «Non temo niente, non spero niente, sono libero».
Noi non siamo liberi, chi fa questo mestiere è schiavo di qualcosa che non c’è, di un padrone inesistente. Posso avere l’idea più bella del mondo ma se non ho qualcuno che mi permetta di renderla tangibile, di darle una dignità, noi non siamo niente, non siamo nessuno.
Salinger ne Il giovane Holden scrive: «Si capisce subito quando i ragazzini ce l’hanno con voi. Non ridono, niente da fare». Si delinea un mondo diviso in due macro categorie che non comunicano più tra di loro, non si mescolano. Gli adulti e i giovani vivono assorbiti in un contesto di insoddisfazione, di rabbia e allora sono più diversi o simili tra di loro?
A me non interessa tanto fare riferimenti personali, nel senso di alimentare l’ego mania dell’autore che parla sempre e solo di sé. C’è un’altra riflessione molto bella, un punto di vista sviluppato nel saggio Non sei più mio padre di Eva Cantarella che ho appena finito di leggere e che raccoglie proprio questa considerazione, portandola indietro fino alla notte dei tempi.
Il continuo conflitto tra le diverse generazioni, il vecchio e il nuovo che non si capiscono a vicenda e quindi non c’è mai un vero dialogo tra di loro. Sicuramente è cosa buona raccontare perché noi viviamo tutto questo oggi, un sentire nutrito da una linfa rabbiosa, che noto sia da parte del giovane sia da parte dell’anziano.
Il primo non ha più il coraggio di essere sé stesso. Questa è una cosa che mi fa arrabbiare: rincorrere la speranza di diventare velocemente adulto. Sposarsi, avere un figlio, una casa con un divano, diventando docili e accoglienti. Io credo che non debba essere una caratteristica del giovane questo tendere verso l’anzianità quando si è giovani, per poi rimpiangere la giovinezza quando la si è persa. Ogni generazione è divorata da una rabbia continua da involuzione della specie.
Il tema del sogno è sempre presente e ricorrente, lo sottolinea Hemingway in un passaggio: «In cima alla strada, nella capanna, il vecchio si era riaddormentato. Dormiva ancora bocconi e il ragazzo gli sedeva accanto e lo guardava. Il vecchio sognava i leoni». Quali erano i tuoi sogni?
Ho sempre sognato tanto, come probabilmente racconta anche Ciccio Speranza, il nostro ultimo spettacolo. Il sogno è la benzina al motore delle nostre giornate. I miei sono sempre stati dei sogni giganteschi, anche un po’ fuori portata. Alla fine dei conti credo di aver sognato sempre un palcoscenico. All’inizio era quello calcistico, quando giocavo. Subito dopo, c’è stato quello dello spettacolo. Penso che ci sia una parte egocentrica o comunque molto viva in ogni persona che fa il mio mestiere e, al tempo stesso, il grande sogno di poter cambiare qualcosa. Qualcosa che cresce contemporaneamente con la persona. I cambi della vita trasformano anche i sogni.
La carriera può essere determinata da un colpo di fortuna, dal cognome che porti o dal carattere che è un veicolo formidabile per conoscere, per entrare nei circuiti del meccanismo. Credo di non avere mai avuto la pazienza adatta nella preparazione, per arrivare a essere inattaccabile. È una cosa che ho constatato e ho capito nel corso del tempo. Tanto la formazione, l’allenamento, quanto una certa solidità permettono di fare dei passi in avanti. Bisogna fare un lavoro molto antropologico: conoscere esattamente il contenitore ed esserne il cuore, il contenuto pulsante.
Holden Caufield, per mano di Salinger recita così: «Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando. È una cosa che odio. Che l’addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no, ti senti ancora peggio». Quanto tristi o brutti sono stati i tuoi addii, al teatro o nella vita?
Credo che l’addio sia necessario, lo è anche per poter rinascere, per ricominciare, per respirare. La vita a un certo punto inizia a prendere una direzione, è come seguire un filo rosso. Che sia l’amore, il lavoro o l’amicizia, quello è il percorso principale. Penso di aver detto addio, di aver lasciato almeno una cinquantina di fili rossi. Come una sorta di Ulisse io vivo l’impossibilità di dire addio verso la mia casa.
Sono nato a Fara Gera d’Adda, che è un po’ la Spoon River del Nord Italia, abitata criminali, puttane, farisei, angeli, demoni, preti, bigotti, c’è di tutto. Un ambiente che surclassa Roma perché c’è una densità di umanità gigantesca. Io non sono mai riuscito a dire addio a questo posto, andavo a Roma ma poi tornavo lì per coltivare la mia compagnia. Ho fatto il pendolare per cinque anni. Mi sono innamorato di una ragazza di Roma ma non mi sono mai trasferito là a viverci.
Il cordone ombelicale dei miei affetti non mi molla. Si dice che è fondamentale morire a casa propria e credo che sia una frase molto bella. La morte, inoltre non è solo quella del corpo, ci sono tante piccole morti nella vita e ogni volta si rinasce, si ricomincia. Dopo aver vissuto un fallimento che cosa si fa? Si torna a casa, sempre. Io non piango mai sul divanetto che ho qui a Milano, per esempio. L’addio è fondamentale, il grande distacco non l’ho mai cercato, forse, non ho alcuna intenzione di farlo.
Cosa non abbiamo capito o fatto nostro, cosa si può fare con quello che c’è oggi, a teatro?
Il concetto chiave di questa domanda, secondo me, è legato a una risposta che non devo dare io, da un punto di vista teorico. Ci si dovrà assumere la responsabilità nella rinascita. La storia insegna che una ripresa, un risveglio avviene – retorica a parte – dopo una disfatta, una distruzione.
Non si può negare che quello che abbiamo vissuto sia stato un anno devastante e ancora adesso stiamo vivendo questa realtà tragica. La risposta deve essere consapevole, non ci si può nascondere dietro niente. Questo è quello che noi ci aspettiamo dal teatro di domani più che da quello di oggi. Io spero che il teatro possa rinascere ed essere nuovo e coraggioso e che soprattutto esista, poiché adesso è morto.
Confrontandoci con la Francia, la Germania, la Spagna, l’Inghilterra, la Svizzera si evince che siamo indietro anni luce per coraggio, per pazienza, per ricerca della bellezza. La maggior parte delle nostre rappresentazioni riguardano autori che sono morti o autori che riescono a entrare in un piccolo e ristretto giro. Serve un atteggiamento responsabile, l’ammissione del fallimento, una presa di coscienza verso il positivo. Il che vuol dire ricercare, dare fiducia perché per creare bellezza ci vuole del tempo, sempre, e questo coefficiente non viene mai dato.
Bisogna lasciare che la nuova drammaturgia abbia un posto in cui potersi esprimere in modo libero. Questo secondo me sarà fondamentale ed io lo attendo. Spero veramente ci possa essere una rinascita perché laddove dovesse ricominciare tutto con i monologhi o gli spettacoli che costano milioni di euro significherebbe continuare qualcosa di vecchio. Significherebbe essere poco coraggiosi, pavidi.
Ritorna, in conclusione, Hemingway e il marinaio Santiago il quale elabora una lucida riflessione: «Nel buio, e senza luci in vista e senza chiarori, e soltanto col vento e la spinta regolare della vela, gli parve di essere già morto, forse. Congiunse le mani e si tastò le palme. Non erano morte e gli bastava aprirle e chiuderle per risuscitare il dolore della vita». È possibile o immagini si possa resuscitare dal dolore della vita?
Gli scrittori tendono sempre a scrivere le loro più grandi opere partendo dal dolore. Affidandosi alla scrittura, rimangono in vita partendo dal dolore dei loro rapporti distruttivi con il padre, con la madre. Questa è una scorciatoia, quasi un alibi, un tabù che vorrei superare. Sono queste cose che allontanano questo mestiere dalla sua possibile universalità, dalla sua dignità. La mia risposta, legandomi alla tua domanda, è sì. Si può rinascere da una morte, io ho avuto tante micro morti nella mia carriera o quantomeno nella mia vita, un po’ come il serpente che cambia la pelle. Non ho più le gioie, gli interessi di quando avevo diciotto anni, ne ho altri.
Il teatro supera qualsiasi arte, il cinema, la televisione, è talmente gigantesco che non permette paragoni o confronti. Noi di Les Moustaches siamo in fase di ricerca, stiamo ricercando il nostro modo per poter raccontare e capire il nostro Teatro, probabilmente sarà una ricerca lunghissima. Altra cosa per me importante è il fatto di aver abbandonato qualsiasi forma di laboratorio teatrale. Prima di fare un corso teatrale bisogna ricercare tanto, altrimenti è un’associazione a delinquere.
C’è una mancanza di dignità del mestiere, già il nostro sistema scolastico non permette di fatto di inserirsi con facilità nel mondo del lavoro. Il fatto che non lavoriamo, che non esistiamo come drammaturghi piuttosto che come lavoratori, come ricercatori dello spettacolo, è sintomo che il Teatro non esiste nel nostro Paese. Un errore di coscienza che riguarda ciò che effettivamente è il Teatro e quali sono le sue potenzialità. Come Compagnia teatrale, questo è ciò che ci spinge a fare un passo indietro per cercare poi in futuro di farne due in avanti. È il nostro obiettivo.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.